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Il mercato azionario italiano: efficienza e anomalie

Il tema dell’efficienza dei mercati finanziari, della sua concreta realizzabilità e degli effetti potenzialmente producibili all’interno dei sistemi economico-finanziari evoluti, si pone ormai da molti anni al centro del dibattito scientifico , suscitando l’interesse e la curiosità di molti, tra accademici, operatori, istituzioni e semplici risparmiatori. Nonostante l’ingente mole di contributi – tra elaborazioni teoriche e verifiche empiriche – dedicati all’argomento soprattutto negli ultimi trent’anni, non sembra ancora possibile scorgere un filone interpretativo unanimemente accettato e condiviso, rendendo tuttora alquanto complesso il compito di formulare una risposta adeguata agli interrogativi costantemente riproposti all’attenzione degli esperti.
I mercati finanziari sono efficienti? I prezzi espressi dalle quotazioni azionarie sono effettivamente rappresentativi del reale valore dell’azienda emittente? Esistono tecniche e metodologie di investimento in grado di generare efficaci segnali di compravendita da utilizzare per poter ottenere rendimenti elevati dall’attività di compravendita di strumenti finanziari?
Si tratta di alcune tra le più significative e ricorrenti domande sulle quali il mondo accademico da una parte e l’insieme degli operatori, ovvero dei “pratici” dall’altra, sono costantemente interpellati e sollecitati ad offrire spiegazioni attendibili ed inconfutabili.
Il presente lavoro si propone di affrontare e approfondire le tematiche appena citate, nel tentativo di offrire una visione generale sul problema dell’efficienza dei mercati finanziari, con particolare riferimento al mercato azionario italiano.
Lo scritto si apre con una puntuale esposizione delle teorie elaborate nel corso degli anni per tentare di offrire una spiegazione al fenomeno dell’efficienza dei mercati. Successivamente, lo studio analizzerà le due “filosofie”, da sempre contrapposte nella valutazione delle dinamiche di formazione dei prezzi, ma accomunate dall’obiettivo di individuare regole di compravendita capaci di “battere il mercato” garantendo la realizzazione di extra-profitti: l’analisi fondamentale e l’analisi tecnica. Si procederà pertanto non solo all’illustrazione dei principali strumenti di indagine a disposizione di “fondamentalisti” e “tecnicisti”, ma si provvederà altresì a sottoporre tali strumenti ad una rigorosa indagine empirica, nel tentativo di testare la loro effettiva efficacia, verificando nel contempo il livello di efficienza del mercato borsistico italiano. A tal fine, inoltre, saranno presentati i risultati delle diverse verifiche empiriche svolte nel corso degli anni da numerosi studiosi; verifiche, che hanno anche evidenziato la presenza di anomalie, cui sarà dedicata l’ultima parte del lavoro.

NOTE TECNICHE: punti tesi: 7,45

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CAPITOLO PRIMO Teoria Finanziaria 1.1 Il rischio – 1.2 La diversificazione – 1.3 La frontiera – 1.4 Il Market Model – 1.5 Il Capital Asset Pricing Model – 1.5.1 Lo “Zero-beta” CAPM 1.6 Verifiche del CAPM Nel capitolo sono illustrate le strutture della teoria economica: si presenterà la nozione di rischio, i benefici della diversificazione e il Capital Asset Pricing Model, il modello economico più utilizzato dagli operatori finanziari. L’argomentazione è volutamente concisa e non esaustiva, ma concerne le basi concettuali più importanti e diffuse nella dottrina finanziaria mondiale. 1.1 Il rischio Il concetto di rischio ha assunto, nel corso degli anni, diversi significati. Ai primi del Novecento gli analisti associavano il rischio di un titolo al grado di indebitamento dell’impresa: più questo era alto, più rischioso veniva considerato il titolo. Negli anni Sessanta, Graham, Dodd e Cottle 1 definirono una misura del rischio come “margine di sicurezza”. Il loro margine di sicurezza non si basava sui bilanci, ma piuttosto sulla differenza tra i prezzi di mercato e i valori intrinseci delle azioni. Essi sostenevano che l’analista deve stimare indipendentemente il valore intrinseco di un titolo senza considerare il prezzo corrente di mercato 2 . La differenza tra valore intrinseco e il prezzo di mercato rappresentava sia il margine di sicurezza sia una misura del rischio: più ampio il margine di sicurezza, più basso il rischio. Inoltre, Graham e Dodd riconoscevano l’importanza del contributo di ogni singolo titolo al 1 B. Graham, D. Dodd, e S. Cottle, Security Analysis, McGraw-Hill, 1962. 2 Il “valore intrinseco” può essere definito come il valore che un analista attribuirebbe ad un’azione in base alla capacità dell’impresa di produrre utili e alla sua situazione finanziaria, senza considerare il valore di mercato.

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Informazioni tesi

  Autore: Giampaolo Finaldi
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2002-03
  Università: Università degli Studi Gabriele D'Annunzio di Chieti e Pescara
  Facoltà: Economia
  Corso: Economia e Commercio
  Relatore: Stefano Bozzi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 176

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