L'economia della palude e l'economia del mare nell'Alto Adriatico romano: immaginario antico e nuove prospettive esegetiche
Due sono state le spinte originarie all’ideazione di questo lavoro, cui si accosta una terza legittimazione che va prendendo sempre più chiaramente forma. La prima, preesistente, è interna alle dinamiche storiografiche, nascendo dagli stimoli - in positivo o in negativo - derivati dall’opera di Giusto Traina (Paludi e bonifiche del mondo antico), volta ad un’influente, e tuttavia non sempre giustificata, rivalutazione del tema ‘palude’ nel complesso panorama del paesaggio antico. Elemento negativo e incerto, se non malsano e improduttivo, la palude ha infatti spesso assunto un ruolo marginale nell’immaginario antico, tanto che il giudizio storico e la valutazione economica che le competono, nel quadro della geografia mediterranea, hanno più volte contribuito a cancellarne la presenza dalla memoria collettiva. Se definire la palude antica non consiste tanto nel materializzarla, quanto nel conferirle una dimensione storica, lo scopo che ha primariamente animato questo studio si individua nel tentativo di precisare quale spazio tale realtà occupasse nella mentalità oltre che nella realtà antica; in altri termini, evidenziare non tanto quale aspetto avesse la palude nel paesaggio, ma quale significato assumesse e quali conseguenze potesse implicare dal punto di vista economico.
Passando dagli stimoli ‘esterni’ al secondo ordine di sollecitazioni, dato dalla decisa pregnanza intrinseca ad un semplice lacerto di storia territoriale – l’arco altoadriatico - va messo in luce il dato seguente: proprio in virtù del particolare assetto geomorfologico e idrografico, il comprensorio verso il quale rivolta l’attenzione dell’autrice si presta il più delle volte, da parte delle fonti greche o latine, a considerazioni che esaltino il ruolo dell’acquitrino o - allargando il campo d’indagine - dell’ambiente umido quale luogo naturalmente difeso, nonché generatore di surplus economico, soggetto o meno a dinamiche di scambio commerciale. È lo stesso sistema palustre a fornire qui l’ambiente ottimale e i ‘materiali’ (le materie prime) necessari per l’espletamento di attività quali la viticoltura, ricompresa a tutti gli effetti tra le forme di ‘agricoltura palustre’, la venatio e l’aucupium, l’apicoltura, l’allevamento ovi-caprino e, in particolar modo, la pesca, che, quanto a tecniche e strumenti impiegati si è vista interagire con quella che stata definita ‘caccia palustre’. Ma è interamente corretto giungere a ritenere che le ‘virtù ecologiche’ e la qualità della vita nell’alto Adriatico romano fossero effettivamente tali da farlo sembrare una sorta di angolo paradisiaco, immune da qualsiasi occasione di pestilentia?
Tale decantato miraculum, nel quale le logiche della natura (in questo caso quasi mai noverca) sembrano armonicamente accompagnarsi alle necessità dello sfruttamento razionale messe in campo dall’uomo, non può essere accolto in silenzio o, per così dire, in buona fede. L’autrice ha quindi opportunamente guardato all’elemento palustre non solo attraverso il filtro, apparentemente limpido, delle fonti letterarie, ma anche da una particolare angolatura di esegesi, in grado di portare alla luce anche quanto occultato, volutamente o meno, dagli autori. Al di là di suggestioni letterarie che, come nel caso di Sidonio Apollinare toccano la soglia dell’assurdo - e tuttavia restano pur sempre degne di nota -, a ribaltare l’immagine edenica offertaci dalle fonti d’età augustea, si impone il dato archeologico, connesso ad una esigenza da cui non può considerarsi esclusa alcuna città romana (e tanto meno moderna): l’eliminazione delle sordes.
Tale circostanza, d’altra parte, non preclude l’eventualità che anche in area veneta potesse crearsi un particolare macrosistema che, oltre all’interazione tra ambiente palustre e ambiente marino, prevedesse una forma di ‘riciclaggio alimentare’, eventualmente funzionale ai fini della piscicoltura. Tutte le riproduzioni musive di abbondanza ittica, allora, così frequenti nel mondo romano e attestate anche nell’arco altoadriatico (§ III.2; III, 5) non sembra possano considerarsi semplici casualità, in quanto ricorrono in epoche, situazioni e contesti troppo diversi; evidentemente erano frutto di una consapevolezza comune, tanto comune da divenire quasi parte del patrimonio culturale e cognitivo di chi si trovasse a descrivere il mare attraverso le espressioni artistiche più varie, intendendo veicolare, anche trascurando la perdita di ogni realismo, l'idea del mare quale serbatoio inesauribile di ricchezze (raggiungibili o meno).
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Informazioni tesi
Autore: | Irene Cao |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2001-02 |
Università: | Università degli Studi Ca' Foscari di Venezia |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Lettere |
Relatore: | Giovannella Cresci |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 208 |
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