La ricezione critica della "Trilogia del dollaro" di Sergio Leone da parte dei critici suoi contemporanei
Uno sguardo a come i critici suoi contemporanei accolsero la famosa e osannata dal pubblico "Trilogia del dollaro" di Sergio Leone.
In tutti i film di Sergio Leone convivono più dimensioni temporali: l’azione ora si distende, si dilata e l’unità minima temporale viene scomposta, quasi a farne percepire e misurare la durata insieme ai protagonisti (e, a tale proposito, non possiamo esimerci dal ricordare la celebre scena del cosiddetto “triello” finale in Il buono, il brutto e il cattivo dove l’azione è mirabilmente dilatata grazie all’uso della macchina da presa che si sofferma su dettagli come gli occhi dei protagonisti, le pistole, le mani pronte ad afferrare la pistola), oppure l’azione viene accelerata e tutto si svolge con estrema rapidità (a titolo esemplificativo possiamo ricordare le scene di sparatorie e la straordinaria velocità dei pistoleri). Il western classico americano privilegia i campi lunghi, l’equilibrio dei raccordi, l’ariosa circolarità della sceneggiatura, la colonna sonora morbida e diffusa. La regia di Leone, nel suo essere innovativa, procede invece per contrasti, frammentazioni, ellissi narrative, evidenzia i dettagli e, in essa, risulta fondamentale il montaggio nervoso. Infatti, mentre il western classico usava una gamma di inquadrature comprese tra il campo lunghissimo e il mezzo primo piano, Sergio Leone fa dello studio sui primissimi piani e sui dettagli degli oggetti un punto fermo del suo stile (per esempio, gli occhi del pistolero inquadrati a tutto schermo sono una novità assoluta e contribuiscono ad accrescere la tensione della scena). La moralità di fondo cambia, rispetto al western classico, in quanto, in quest’ultimo il protagonista è un eroe mosso da nobili ideali e il western americano è ottimista, mentre, nello spaghetti western, il protagonista non è quasi mai un eroe bensì un anti-eroe spinto non da motivazioni idealistiche ma dall’interesse, dalla sete di denaro o di vendetta. Il western all’italiana non è ottimista come quello classico, è pervaso da un umorismo nero, da amara ironia e presenta, quasi sempre, il denaro come unico e vero interesse dei personaggi. Nei western all’italiana, quindi, la classica distinzione tra il “buono” e il “cattivo” viene a sfumarsi notevolmente rispetto al western classico americano e, in particolar modo dalla rivoluzione stilistica imposta da Leone, tutti i personaggi, anche quelli che si possono definire positivi, appaiono in genere più cinici, più trasandati ma, in fondo, più realistici; anche le ambientazioni si presentano meno ospitali e i villaggi appaiono ormai inospitali e polverosi. Con simili cambiamenti ci troviamo di fronte a un’immagine meno epica e, senza dubbio, più dura dell’Ottocento americano nelle regioni del West. Altre differenze rimarchevoli riguardano la presenza dei nativi americani e il ruolo della donna nel western italiano: la figura del nativo, del pellerossa è scarsa o nulla e la donna, figura importante nel western classico in cui era vista come simbolo della sicurezza della fattoria, è invece relegata nello spaghetti western al semplice ruolo di comparsa oppure non è presente.
Non è possibile dimenticare inoltre un’altra differenza importantissima che non sfugge alla critica, la quale, non sempre riesce a comprendere le innovazioni introdotte dallo spaghetti western: la violenza mostrata. Nel western americano la violenza, la crudeltà, la morte violenta rimangono fuori campo, non sono inquadrate e mostrate; il western all’italiana e Leone, di contro, mettono in mostra la morte violenta, i moribondi, i personaggi che, colpiti dai proiettili, cadono a terra in un lago di sangue, esibiscono i corpi torturati e descrivono accuratamente il sadismo che accomuna tutti i protagonisti delle storie. Sergio Leone stesso spiega questa novità, introdotta con i suoi film, in un’intervista rilasciata al giornalista e critico Francesco Mininni a Roma nel 1988 affermando che “nei film americani la gente moriva male, in campo lungo, e il pubblico quasi non si rendeva conto dell’idea della morte. La morte, invece, deve rappresentare una reale paura, e può farlo soltanto attraverso l’evidenza fisica.
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Informazioni tesi
Autore: | Flavia Cantini |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2009-10 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Dams - Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo |
Relatore: | Giacomo Manzoli |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 40 |
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