Djibril Diop Mambety
Il territorio africano è stato durante l’ultimo secolo depredato della sua immagine e bombardato da immagini occidentali con lo stesso metodo con cui da ben più tempo, viene depredato delle proprie risorse, umane, agricole, minerarie; e riceve in cambio armi, rifiuti, prestiti e aiuti umanitari.
È certamente vero che il mondo dell'arte occidentale ha imparato ad ammorbidire e modificare il linguaggio offensivo e la metodologia oggettivante dei suoi discorsi etnografici e antropologici in relazione alle culture africane e non occidentali in genere. Eppure un certo determinismo razziale, accompagnato dalla richiesta di una dimostrazione di autenticità e di spettacolo, rimangono i criteri essenziali adottati dall'occidente per la convalida e l'accettazione dell'altro.
Da questa visuale, si intende trasportare la questione della differenza culturale ad un ordine simbolico che ambisce ad una sua riterritorializzazione attraverso forme di antagonismo e trasversalismo linguistico. Le strategie di sopravvivenza contemporanee scivolano verso un ordine transnazionale in cui il sistema globale ha ripartito spazi di erranza, di caos e di fuga per una soggettività in costruzione.
Quella contemporanea è, come più volte è stato detto, la civiltà delle immagini ma «è in realtà una civiltà del cliché in cui tutti i poteri sono interessati a nasconderci le immagini.». Nel caso del cinema in Africa e dall'Africa, questa affermazione è quattro volte vera, poiché le immagini che in tutto quel continente vengono prodotte arrivano raramente allo spettatore occidentale e spesso è solo per attirare la sua attenzione su un problema che affligge quei “poveretti laggiù”; un problema che svanisce con la fine del film, ma che colma la voglia di sentirsi buoni e di conoscere gli altri che lo spettatore occidentale, forse non proprio quello medio, ha. Si ha quasi l'impressione che l'Africa esista solo in quei documentari a sfondo sociale, poiché cambiamo canale o aspettiamo la fine del film ed ecco che l'Africa coi suoi problemi svanisce, torna ad essere un posto della fantasia in cui relegare i mali, da identificare con un passato che mai più tornerà o un posto a cui indirizzare la propria beneficenza o la propria pietà. D'altro canto in Africa sono i film americani e indiani ad andare per la maggiore e a riempire le sale, congestionando il mercato, fino a rendere impossibile o rara la visione dei pur molti film prodotti sul territorio. Il pubblico africano ha come l'impressione che i registi del suo continente non sappiano fare film, e questo perché il pubblico Africano non è per nulla diverso da quello degli altri posti e il suo sguardo e i suoi gusti sono totalmente condizionati dalle immagini che ad esso si impongono come migliori, più moderne, più accattivanti: il cinema d'azione americano, la commedia sentimentale indiana ecc.
IL colonialismo dell'immaginario comprende quindi anche il colonialismo dell'immagine, in base al quale le immagini prodotte in Africa pur con tanta fatica e dopo aver superato tante difficoltà, restano perlopiù invisibili negli stati d'origine e all'estero, al loro posto si impongono invece le scelte di mercato e le immagini delle grandi produzioni e distribuzioni internazionali.
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Informazioni tesi
Autore: | Giuseppe Castellucci |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2004-05 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | DAMS - Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo |
Relatore: | Orio Caldiron |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 120 |
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