L’assistenza ai feriti nell’alto mantovano
I soldati franco-piemontesi e austriaci che combattevano nel territorio più vicino a san martino ebbero, in generale, un'assistenza più pronta e tempestiva rispetto alle reclute coinvolte a solferino. Infatti venivano trasferiti nella città di Brescia, la quale divenne il centro ospedaliero più importante; mentre i secondi venivano condotti, con molto ritardo, verso gli istituti del mantovano e del cremonese.
I comuni del mantovano accoglievano prevalentemente austriaci, mentre i francesi venivano per lo più accolti da Castiglione delle stiverie.
L'autrice, inoltre, analizza il SERVIZIO SANITARIO ASBURGICO che riversava in condizioni pessime ancor prima della battaglia e che peggiorò, ovviamente, in seguito: mancavano medici, medicinali e strutture; i locali esistenti non erano idonei al livello igienico-sanitario. Alla luce di queste carenze fu messo in evidenza l'importanza della partecipazione dei civili nel soccorso dei feriti: numerose furono le orfane dell'orfanotrofio elisabettiano, donne benestanti (come le famose donne di Castiglione).
La partecipazione della popolazione civile fu spontanea e fu così massiccia grazie alle pressioni dell'esercito austriaco sui vari comuni nel fornire materiale sanitario, bende, medicinali e carri per tamponare la mancanza di ambulanze.
Una figura importante, nel territorio mantovano, fu quella di GIUSEPPE FINZI, capo del commissario Regio che – mostrandosi particolarmente sensibile ai problemi che riguardavano l'assistenza dei feriti – istituì un ISPETTORATO PROVINCIALE DI SANITA'. Il compito di tale organo era quello di portarsi nel luogo più prossimo alla battaglia per impartire le istruzioni necessarie nell'attivazione dei nuovi ospedali militari.
Finzi, inoltre, allestì dei REGISTRI sui quali scrivere i morti e i feriti, tenuto dal personale medico. Tale provvedimento è molto importante se si pensa che la stima esatta delle conseguenze di questa battaglia fu un problema. Le risorse erano concentrate sul soccorso più che sull'organizzazione burocratica del servizio: mancavano cartelle cliniche o agende dove annoverare lo stato dei feriti, il periodo di cura o il decesso.
In tutti gli ospedali si doveva compilare una forma di biglietto che veniva poi inviato all'ospedale centrale di Verona. Ma questo iter non venne sempre rispettato: dato l'elevato numero di feriti, non tutti entravano negli ospedali e venivano curati in case private e in istituti religiosi, ove era impossibile raccogliere i dati.
Questi biglietti, inoltre, avevano il compito di sorvegliare i feriti, cioè di fare in modo che, una volta guariti, non scappassero e fare rientro nell'esercito.
Nonostante questi provvedimenti, risulta particolarmente difficile stimare le perdite nei comuni prossimi al fronte. L'ostacolo più grande furono le abitudini degli austriaci: saccheggiavano tutto durante la loto ritirata, molto spesso bruciando tutto anche i luoghi di cura. Un esempio ne fu la cittadina di Goito: un presidio ospedaliero allestito in modo più che efficiente venne ridotto in ceneri.
Durante questi saccheggi molto materiale sanitario andò perduto: biglietti, registri e documentazioni.
In conclusione, l'autrice, sottolinea le responsabilità da annoverare al comando superiore piemontese riguardo all'emanazione tardiva delle direttive; loda, invece, il soccorso delle forze non militari: medici, infermieri e soprattutto la popolazione civile – vera protagonista di questa battaglia.
Il maggior numero di feriti e di morti si verificò nel contingente precario non solo dal punto di vista igienico ma anche da quello psicologico ( nell'esercito austriaco).
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