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Christianity and power politics di Niebuhr

Nell’opera Christianity and power politics, R. Niebuhr sostiene che non è possibile guardare al pacifismo semplicemente come una eresia, perché nei suoi aspetti, il pacifismo cristiano moderno non è altro che una versione del perfezionismo cristiano più classico. Nella sua forma più profonda, questo perfezionismo cristiano non ritiene che la fede nella “legge dell’amore” possa essere vista come un’alternativa alle strategie politiche attraverso le quali raggiungere una sorta di giustizia precaria. Queste strategie invariabilmente collegano l’equilibrio di potere con il potere; esse inoltre non sfuggono mai dal pericolo della tirannia da una lato, dell’anarchia e della guerra dall’altro. 
Elemento comune di tutte le varie espressioni riguardanti la fede dell’uomo è la credenza che l’uomo sia essenzialmente buono ad un qualche livello del suo essere. Essi ritengono che, nel momento in ci si riesce ad astrarre l’uomo razionale-universale da ciò che è finito e contingente nella natura umana, o se si riesce a coltivare un qualche elemento mistico-universale nei livelli più profondi della coscienza dell’uomo, si sarà in grado di eliminare l’egoismo umano e, di conseguenza, la lotta per la vita. 
Nessuno, conclude Niebuhr, è più cieco degli idealisti, i quali sostengono che la guerra non sarebbe necessaria “solo se” le nazioni obbedissero alla legge di Cristo. Essi, però, non si rendono conto che anche la vita più santa è, in qualche misura, in contraddizione con questa legge. 
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I pacifisti non conoscono abbastanza la natura umana e, dunque, non colgono le contraddizioni tra la legge dell’amore e il peccato dell’uomo, se non finché il peccato causa morte. Essi, però, non vedono che il peccato introduce un elemento di conflitto nel mondo e che anche le relazioni più amorose non ne sono esenti ⇒ essi non sono in grado di apprezzare la complessità del problema della giustizia. È proprio perché gli uomini sono peccatori che la giustizia può essere raggiunta solo con un certo grado di coercizione, da un lato, e da resistenza alla coercizione e tirannia dall’altro lato. 
L’egoismo umano rende pressoché impossibile la cooperazione su base volontaria ⇒ i governi sono “costretti” a costringere. Allo stesso tempo, però, è necessario mantenere alcune forme di controllo democratico sui centri di potere stessi. 
Infine, potrebbe anche essere necessario opporre resistenza alla classe governante, qualora questa violi gli standard di giustizia che sono stati stabiliti. Tale resistenza significa guerra. 
Se i pacifisti fossero coerenti con le loro tesi, poi, dovrebbero volere l’abolizione di tutto il sistema giudiziario, dal momento che è vero che le società nazionali hanno più strumenti imparziali di giustizia di quanti non ne abbia la società internazionale. Inoltre, nessuna corte penale è imparziale come sostiene e non esiste alcun processo giudiziario completamente libero dal desiderio di vendetta. Inoltre, la giustizia dipende direttamente dall’equilibrio di potere e questo perché non è stato ancora possibile creare un centro organizzativo in grado di gestire e regolare questo equilibrio che, spesso, può degenerare in tirannia o anarchia. Le cosiddette “società democratiche” sono il tentativo più riuscito di formulazione di questa formulazione di giustizia. 
Tutto questo, afferma Niebuhr, è assolutamente corretto, ma bisogna continuare a punire i criminali. 
Dal punto di vista pratico, Niebuhr ammette che l’anarchia della guerra che risulta dalla resistenza alla tirannia non è sempre creativa: la sconfitta dalla Germania e la frustrazione dello sforzo nazista di unificare l’Europa ha in realtà anche un lato negativo, perché non ha garantito la nascita di una nuova Europa con un elevato livello di coesione internazionale e nuovi organi di giustizia internazionale. Purtroppo, però, sono aspetti negativi che non potevano in alcun modo essere evitati. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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