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La crisi del sindacato confederale


Le ragioni della crisi del sindacato confederale, e in particolare della CGIL, sono complesse.
Da un punto di vista politico, gli anni 1983-85 avevano visto una forte ripresa del ruolo politico del sindacato soprattutto in relazione alla scala mobile: si trattava di una grande questione politica, con molteplici effetti sociali, intorno alla quale le Confederazioni si erano divise.
Persa questa battaglia la CGIL fu costretta ad imboccare un percorso difficile: subì un drastico ridimensionamento di peso politico; ripiegò in margini di azione sindacale più rstretti; fu costretta (tardivamente rispetto alle altre Confederazioni) a ripensare se stessa alla luce dei cambiamenti del mercato del lavoro; continuò ad essere condizionata e frenata dalla crisi del PCI.

Alla fine di febbraio 1986, in occasione del XI congresso della CGIL, ebbe fine la lunga segreteria Lama. Ma il suo successore, Pizzinato, si trovò a guidare a un sindacato diviso senza avere i requisiti di leadership necessari per pilotare una rapida revisione di rotta. Solo nel novembre 1988, l'assunzione della segreteria da parte di Trentin, restituì alla CGIL un leader in grado di affrontare la situazione.

Per quanto riguarda la CISL, Marini succedette a Carniti (dimissionario) alla segreteria durante il X congresso (Roma, luglio, 1985). La CISL si era da tempo convertita alla politica dei redditi.

Diversa era la prospettiva della UIL  che durante il congresso del novembre '85 sviluppò la critica al sindacato per gli errori commessi prima e dopo "la marcia dei 40.000". Questa critica partiva da un sindacato che da tempo aveva accettato concertazione e politica dei redditi e soprattutto aveva accettato il profitto come elemento connaturato ed imprescindibile dell'attività imprenditoriale. Col congresso del novembre '85, Benvenuto poté tirare le fila di quel “sindacato dei cittadini" che doveva uscire dal recinto della fabbrica per occuparsi dei molteplici aspetti della vita sociale dei lavoratori.

Gli accordi fra governo e parti sociali del dicembre '85, poi tradotti in legge nel febbraio '86, provocarono un forte raffreddamento della scala mobile e si ispirarono al principio che solo la retribuzione base dovesse godere della protezione totale del potere d'acquisto. Dallo stesso accordo nacquero poi nuove forme contrattuali (contratto di formazione lavoro, part-time, contratti di solidarietà) volte a dare al mercato del lavoro una certa flessibilità.

Anche nell'ambito ristretto del conflitto industriale emerse la debolezza del sindacato. Caso emblematico di tale debolezza fu la vertenza relativa al contratto aziendale FIAT nel 1988. La lunga discussione sul modello produttivo dell'Alfa Romeo (basato sulle isole produttive) e quello FIAT (che integrava il vecchio modello tayloristico della catena di montaggio con le nuove tecnologie) si era conclusa con la privatizzazione dell'azienda milanese nel 1987 senza che il sindacato avesse voce in capitolo. La FIAT avanzò la proposta di accrescimenti legati all'aumento della produttività come gratifica che l'azienda dava in relazione al buon andamento dei conti. La proposta fu accettata da FIM e UILM e criticata dalla FIOM. L'ottimo andamento dei conti FIAT (che era uscita dalla crisi della fine degli anni '70) favorì l'accordo perché quella soluzione garantiva migliori retribuzioni. La grande innovazione stava nel principio di solidarietà implicito in quel contratto integrativo fra i destini economici dell'azienda e gli interessi salariali dei lavoratori.

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