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Media e peacekeeping

La comunicazione non è solo un moltiplicatore della potenza militare ed economica, ma costituisce anche una potenza in sé. In questo senso è uno strumento di dominio delle opinioni pubbliche ⇒ è parte delle categorie del controllo e del potere. Da quando la comunicazione è divenuta globale, nella geopolitica esiste una nuova componente, denominata geocomunicazione: la sua importanza è crescente. 
In ogni conflitto si combattono ormai 2 guerre: una sul terreno, l’altra sui media. La comunicazione viene impiegata per creare il consenso e il sostegno dell’opinione pubblica a favore degli obiettivi che si perseguono: 
1 − per aumentare l’entusiasmo delle proprie truppe (propaganda e contropropaganda, demonizzazione dell’avversario, ecc…) 
2 − per indebolire la volontà dei dirigenti politici nemici e il morale del loro esercito o della loro popolazione (public diplomacy, disinformazione, impiego di agenti di influenza, ecc…) 
3 − per ingannare il nemico, trasmettendogli false notizie sulle proprie possibilità e/o intenzioni 
4 − l’informazione è un fattore determinante per la sorpresa, strategica e tattica. L’interazione fra l’azione strategica o tattica e la comunicazione è individuabile facilmente nelle guerre al rallentatore, combattute dalla NATO in Bosnia e in Kosovo nel 1995 e 1999. 

Nelle operazioni di peacekeeping o di peacebuilding, la comunicazione condiziona l’entità della forza impiegabile da parte dei militari intervenuti dall’esterno; e questo perché il livello di violenza deve essere ritenuto in qualche modo accettabile dalla popolazione locale, per non provocarne la reazione ostile. La stessa condizione è fondamentale nelle operazioni di counterinsurgency. 
Il reinforced peacekeeping, codificato nel rapporto Brahimi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, tratta ampiamente della correlazione fra comunicazione e uso della forza, ignorato invece della precedente Agenda for Peace del Segretario Generale dell’ONU Boutros Ghali. Se la forza usata dai caschi blu supera la soglia del consenso, gli interventi esterni sono destinati inevitabilmente a fallire per le reazioni negative suscitate nelle popolazioni locali ⇒ aumentano il reclutamento di guerriglieri e terroristi e il sostegno di varia natura dato loro dalla popolazione. 
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La comunicazione è essenziale per la conquista delle menti e dei cuori, denominazione di un’operazione assai più complessa della semplice comunicazione. 
L’efficacia della comunicazione prescinde da ogni qualificazione assiologia o ideologica. Dipende invece dalla sua credibilità e da quella di chi comunica, nonché dalla sua capacità di adeguarsi, di sfruttare principi, valori e culture differenziati e di tenere conto delle strutture sociali dell’audience a cui si rivolge. Solo così, la comunicazione può raggiungere l’ideological dominance, mentre la comunicazione dell’avversario viene ritenuta falsa. 
La manipolazione dell’informazione, anche con l’uso delle teorie del sospetto e del complotto o con l’appello a valori e principi propri dell’immaginario collettivo di ciascun popolo (quali il patriottismo e la difesa della propria identità e della propria religione) è una costante della storia delle guerre. Oggi, con lo sviluppo delle neuroscienze, delle scienze cognitive e degli studi sulla psicologia collettiva dei popoli, tale manipolazione ha assunto nuove dimensioni ed ha accresciuto la sua efficacia ⇒ non si tratta più solo di manipolare i fatti, comunicandoli in modo distorto o falso, ma anche di modificare i simboli, cioè la griglia di lettura delle informazioni propria dell’immaginario collettivo, della cultura di un popolo. 
Sulla base di tali sviluppi scientifici, è stato costituito dal Pentagono, all’avvio della guerra in Iraq, l’Office of Strategic Influence (OSI). Ma gli esiti sono stati i n realtà disastrosi, anche perché la cultura militare del Pentagono, portata all’uso dell’hard power, è poco adatta all’impiego del soft power comunicativo. 
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L’OSI, denominato subito scherzosamente “ufficio bugie”, è stato soppresso dopo aspre polemiche e dibattiti non solo sulla sua efficacia, ma soprattutto sulla sua compatibilità con il Freedom of Information Act, pilastro della democrazia statunitense. 
Dopo la soppressione dell’OSI, l’impiego dello strumento comunicativo negli Stati Uniti è tornato alla public diplomacy del Dipartimento di Stato, al National Security Council e ai servizi di intelligence. 
NB: analoghi problemi esistono in tutti gli Stati democratici. 
Tutte le classi al potere (sia autoritarie sia democratiche) hanno sempre cercato di conseguire il più ampio monopolio possibile della comunicazione e dell’informazione, hanno sempre teso a disporre delle notizie rilevanti prima degli altri Stati o dell’Opinione Pubblica, in modo da poter reagire rapidamente e senza interferenze esterne. 
Le nuove ICT (Information and Communication Technology), come ad esempio le trasmissioni satellitari o internet, rendono d’altra parte sempre più difficile il controllo dei governi sulle informazioni disponibili ai loro cittadini. Tale difficoltà è un fattore essenziale della globalizzazione. 
Le nuove ICT, in particolare la televisione, consentono una copertura globale e, fatto ancora più importante sotto il profilo strategico e politico, trasmettono le informazioni in tempo reale. Con la copertura globale, le informazioni, che in passato erano sempre troppo poche, sono ormai troppe ⇒ si sono determinate così nuove possibilità di manipolarle: essenziale non è solo la loro raccolta da parte delle agenzie di informazione, ma soprattutto la loro selezione. Gli avvenimenti che non vengono comunicati non esistono ⇒ ne deriva, ad esempio, il fenomeno delle “guerre dimenticate”, di cui nessuno si interessa in Occidente, dal momento che esse non coinvolgono particolari interessi economici o missioni umanitarie e religiose. 
Le grandi agenzie di informazione sono per l’87% in mano occidentale; ciò ha suscitato più volte la protesta dei paesi in via di sviluppo. Solo con Al Jazeera il mondo islamico ha cominciato a disporre di una rete televisiva a copertura pressoché globale. 
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La globalizzazione dell’informazione non porta ad un villaggio globale, il mondo rimane diviso in tribù, talvolta nazionalizzate in Stati. La ragione principale di questa dinamica è costituita dal fatto che la globalizzazione, pur avendo complessivamente generato una crescita mondiale, ha anche determinato un aumento dei divari fra gli Stati e, al loro interno, fra le classi ricche e quelle povere. 
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La comunicazione globale suscita sentimenti di frustrazione, di umiliazione e di rivalsa che, nel mondo islamico, fanno parte delle molte cause del fondamentalismo antioccidentale. Alcuni parlano di lato oscuro della globalizzazione; di certo, è il lato oscuro della comunicazione globale. 
Una seconda conseguenza delle nuove ICT è che la comunicazione avviene oggi in tempo reale. Ciò pone vari problemi alla politica, soprattutto alle democrazie rappresentative; in particolare, complica i processi decisionali relativi all’uso della forza militare. 
Oggi, infatti, la rete mondiale dei media dispone spesso di notizie prima dei governi ⇒ ciò conferisce loro e alle opinioni pubbliche la possibilità di condizionare i processi decisionali politici, strategici ed economici in misura molto superiore di quanto avvenisse in passato ⇒ se il tempo reale della comunicazione ha sicuramente aumentato gli spazi di libertà, ha però accresciuto anche la possibilità di manipolazione della realtà ⇒ è causa della crisi delle democrazie rappresentative. 
Infine, la diffusione in tempo reale dell’informazione aumenta l’importanza delle emozioni rispetto a quelle delle valutazioni razionali e, nell’insieme, accelera le decisioni: i governi e i comandanti in campo sono spesso obbligati a reagire “a caldo”, senza adeguati approfondimenti della realtà ⇒ tendono a giungere alle loro decisioni seguendo gli umori volubili dell’Opinione Pubblica. 
L’accelerazione del tempo si compone con le logiche del mercato dei media, logiche che mirano allo scoop, alla drammaticità e alla spettacolarità per aumentare l’audience e i profitti pubblicitari. 
I conflitti armati si prestano particolarmente a tali strumentalizzazioni, anche per la loro eccezionalità, drammaticità, per la demonizzazione dell’avversario e per la paura dell’imprevedibile. Ciò vale tanto più in caso di attacco terroristico. 
Ci sono infine gli effetti negativi generati dalla frammentazione delle informazioni. Le tecnologie del medium principale, la televisione, si prestano poco a collocare il singolo avvenimento nel suo contesto generale ⇒ la comunicazione televisiva è frammentata, consiste in una serie di spot, di 1-2 minuti l’uno, generalmente sconnessi fra di loro. Ciascuno di essi rappresenta una parte della realtà, ma il loro insieme non ne dà una percezione corretta. 
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Resta che la frammentazione delle informazioni, nell’era della complessità e dell’imprevedibilità in cui viviamo, rischia di indurre a semplificazioni della realtà non solo irrazionali, ma anche irragionevoli: a seconda delle circostanze, ciò che si crea è un panico eccessivo o un eccessivo ottimismo. 

Tratto da I MEDIA E LA POLITICA INTERNAZIONALE di Elisa Bertacin
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