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Pratiche di maternage ad alto contatto e a basso contatto


Nei servizi italiani per l’infanzia, soprattutto in Emilia Romagna, ma anche in Piemonte e Lombardia,  l’intercultura come scoperta e riscoperta di saperi legati al maternage è ormai prassi consolidata da diversi decenni proprio perché ritenuta un valore sia per genitori e bambini sia per gli educatori che crescono assieme a loro. Ma cosa sono queste pratiche, questi saperi legati al maternage? Da un punto di vista antropologico- culturale esistono due pratiche di maternage: quelle definite ad alto contatto e quelle a basso contatto. Mentre le prime appartengono a molte donne immigrate in Italia le seconde sono tipiche di società complesse industriali. Le tecniche di maternage ad alto contatto riguardano:-
• L’allattamento al seno: considerato molto importante è stato anche rivalutato dalla letteratura scientifica che lo indica come fondamentale per un buon sviluppo pisco fisico della mamma e del bambino ne rafforza il legame e produce benessere. Le cure ad alto contatto vedono l’allattamento prolungato fino ad un anno e mezzo due: la madre porta sempre con sé il figlio in braccio o nel marsupio e lo allatta a richiesta.
• I ritmi sonno/veglia: sono molto importanti; nelle cure ad alto contatto la madre e il bambino dormono sempre insieme almeno nei primi anni di vita in tal modo non solo si evita il fenomeno della morte in culla (SID) ma si regolarizzano la respirazione e il sonno della madre che va pari passo col bambino.
La migrazione comporta degli importanti cambiamenti per tutto il nucleo familiare: per l’adulto, il bambino o il ragazzo adolescente. Il viaggio pur se preparato con attenzione e cura dagli adulti implica una separazione dai luoghi e dalle persone con cui si è cresciuti. Il vissuto emotivo che caratterizza i bambini emigrati è quello relativo alla perdita e alla separazione. Essi dovranno sforzarsi di ridefinire la loro relazione con i propri congiunti interrotta negli anni di lontananza
dal mondo conosciuto. Anche nel caso di figli di immigrati ovvero “ la seconda generazione”, pur non avendo vissuto direttamente l’esperienza migratoria è una generazione che comunque rivive quotidianamente questa condizione: nella lingua, nei cibi ecc..se da un lato si tende ad adattarsi meglio e più velocemente dal punto di vista sociale nelle cultura ospitante rispetto alla prima dall’altro pagano, in termini di estraniamento progressivo dalla famiglia e dei loro valori, questo successo adattivo (Scabini, regalia 1993 in Chinosi 2002  pg. 185). Soprattutto in età adolescenziale il disagio della seconda generazione si esprime sul versante intrapsichico con sindromi ansiose e depressive sia su quello sociale con comportamenti anti-sociali (Colosimo mazzetti 2001, in chinosi 2002 pg 185). Queste situazioni richiedono un ri- orientamento culturale, una riorganizzazione della propria immagine di sé e del gruppo di appartenenza. Come appare evidente da quanto detto sinora parlare di famiglia in immigrazione significa parlarne comunque come una sfida nel senso che generalmente essa rappresenta la continuità, le radici, i legami mentre l’emigrazione sottende l’esatto contrario cioè cambiamento, la rottura. Va considerato che se il figlio nasce nel paese ospitante esso va a modificare il progetto migratorio il quale da provvisorio diventa caratterizzato dalla progettazione di un futuro. Si è sempre tentati di pensare che il piccolo in quanto tale sia più malleabile, più aperto e abile nell’imitare e nell’apprendere più velocemente degli adulti. Se questo è vero non bisogna tralasciare non solo le caratteristiche personali del bambino come l’età quindi il relativo stadio di sviluppo ma anche il fatto che non capisce le motivazioni addotte dai grandi, almeno non fino in fondo.  In definitiva a livello psichico la migrazione è un atto potenzialmente traumatico che spesso produce fratture identitarie, ferite psicologiche profonde che richiedono necessarie  riorganizzazioni difensive e adattive, ma non dobbiamo dimenticare che la nostra intera vita potrebbe essere considerata un incessante migrazione da uno stato ad un altro, da una condizione ad un'altra da bambino ad adulto e poi vecchio ecc. Il nostro ciclo di vita è un lungo processo migratorio. Per far si che la migrazione non comporti necessariamente l’insuccesso o la marginalità occorre considerare non solo il rischio ma anche le potenzialità di riuscita della famiglia, le sue risorse. Occorre non patologizzare l’evento migratorio ma sostenere le famiglie straniere nel difficile compito di crescere il proprio bambino lontano da casa. Si tratta di valorizzare le differenze, le potenzialità, le competenze e le abilità affinché la migrazione sia una nuova nascita.

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