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Violenza, media, minori


Un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica del maggio 2001 tratta del rapporto dei minori con i media in merito a violenze fisiche e psicologiche. Per la psicologia le violenze fisiche hanno sempre un risvolto psicologico e le violenze psicologiche hanno dei risvolti fisici oltre che psichici nel senso che possono dar luogo a tensioni, decisioni, iniziative, azioni, stati depressivi o comportamenti asociali o violenti.
Nel documento Infanzia e Ambiente del ‘97 il CNB aveva considerato gli effetti delle violenze e degli abusi tradizionali (maltrattamenti, abusi sessuali, sfruttamento) aveva inoltre denunciato: l'effetto che il rumore informativo dei media poteva avere sulla formazione dei giovani, il mancato controllo dei messaggi diffusi dai canali mediatici, l'indifferenza nei confronti della violenza vissuta come gioco, sottolineando la necessità di sviluppo nei minori di strumenti critici tali da porli al riparo da suggestioni distorcenti.

La diffusione capillare dei mass  media e l'uso sapiente che oggi viene fatto delle tecniche di persuasioni rappresenta un'altra forma di violenza psicologica, invisibile ma potente, che non può essere sottovalutata, specialmente quando coinvolge i minori che per questioni anagrafiche non possiedono ancora un senso critico tale da poter decodificare i messaggi che vengono loro inviati in modo estremamente ingegnoso e accattivante, è una questione di strumenti cognitivi e culturali di cui un bambino ancora non dispone. Le tecniche di persuasione non sono certamente nuove (vedi i sofisti) una differenza però c'è rispetto al passato e consiste nella multimedialità che ha in se una forza notevole. Tv, internet, videogiochi, non si avvalgono solo della parola, della personalità e dell'abilità dei comunicatori, ma anche dell'immagine, della musica, dei rumori di sottofondo, dei movimenti, dei colori, delle tecniche di ripresa, delle inquadrature, dei primi piani, delle zoomate, delle dissolvenze. A questo sapere però non sempre corrisponde un'adeguata riflessione su quelli che sono i risvolti psicologici, educativi, etici e bioetici della comunicazione. Fatto sta che gli spettatori si trovano in una posizione di minore potere ed elevatissima recettività.

La dipendenza affettiva di molti bambini si è spostata dalle persone in carne e ossa ai personaggi e agli spazi virtuali. Grazie alla carica penetrante delle immagini e del linguaggio multimediale man mano si è venuta a creare una forma di dipendenza dai messaggi che provengono dagli schermi. Per non parlare dei videogiochi che portano al piccolo giocatore ad imparare a provare piacere nel colpire, prendere, uccidere qualcuno.
40 anni di ricerche portano a concludere che l'esposizione ripetuta a elevati livelli di violenza insegna ad alcuni bambini e adolescenti ad affrontare le divergenze di opinioni e le differenze interpersonali con la violenza, mentre ad altri insegna l'indifferenza di fronte alle soluzioni violente. Sotto l'influenza dei media soggetti sempre più giovani imparano ad usare la violenza come prima alternativa nella soluzione dei conflitti, altri invece ormai desensibilizzati trovano normale atti o scene violente a cui ne restano impassibili.

Lo psicologo Rowell Huesman sostiene che la violenza televisiva persuade i giovani che l'aggressività è accettabili perché ad usarla sono gli eroi più carismatici.
I minori più a rischio sono, secondo gli studi, quelli che in media trascorrono 3 o 4 ore al giorno davanti al piccolo schermo per anni. Esiste infatti un effetto cumulativo che fa sentire il suo effetto nel tempo e che generalmente viene ignorato dai Garanti che si concentrano invece sulla nocività della singola scena o del singolo prodotto pubblicizzato. E invece ciò che incide, oltre che ai contenuti, è la quantità e la modalità in cui le scene vengono realizzate: a forza di vedere immagine e cene violente ci si abitua alla violenza, la si ritiene normale e ci si sente in qualche modo anche incoraggiati ad adottarla in quanto personaggi affascinanti, carismatici ed eroi la adottano.

L'età è un'altra dimensione fondamentale che spesso non viene presa in considerazione: ciò che è reale per un bambino al di sotto dei 9 anni è molto diverso da ciò che è reale per un adolescente o un ragazzo adulto. A 6 anni un bambino può considerare reale una situazione possibile soltanto nella fiction. Fermo restando che non c'è coincidenza tra dimensione cognitiva ed emotiva, io posso capire che una scena è per finta ma ciononostante posso ugualmente restare colpito sul piano emotivo o imparare comunque dei comportamenti, se vengo sottoposto ripetutamente a quel tipo di scena. Ciò si verifica anche nel pubblico adulto, basti pensare alle soap opera, gli studi dimostrano che gli spettatori sanno che stanno vedendo una fiction, ciò nonostante sono spettatori referenziali non critici cioè aderiscono passivamente alla filosofia della storia, si lasciano coinvolgere, si identificano con i personaggi e assorbono i messaggi trasmessi dagli sceneggiatori e dai registi senza porli in discussione.

Una sottile forma di manipolazione si verifica attraverso gli spot pubblicitari diretti ai minori: bambini di solo 16-18 mesi sono già considerati target da conquistare, i pubblicitari cercano di legare in un rapporto di “lealtà” i piccoli ai vari prodotti. Il punto è: è giusto modellare la mente infantile che tende ad assorbire i messaggi che gli adulti inviano in piena fiducia senza stabilire una distanza di sicurezza?
I pubblicitari sono i migliori manipolatori del mercato!!Gli spot hanno effetti sulla vita concreta interferendo anche nel rapporto genitori e figli in quanto i bambini pretendono i loro prodotti e giudicano cattivi i genitori che non glieli comprano.


Tratto da BIOETICA E MASS MEDIA di Marianna Tesoriero
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