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Aggressività planetaria


La scena della violenza continua a essere osservata dalla parte dei soldati invece che con gli occhi delle vittime inermi.
Un testo di Schmitt intitolato Teoria del partigiano. Il termine “partigiano” riassume la figura di “colui che evita di farsi vedere armato, che per combattere fa uso di imboscate, che si mimetizza in mille modi”. Ossia indica il combattente irregolare, in contrapposizione al soldato in divisa che è invece il classico protagonista del conflitto condotto “da Stato a Stato”. La sua tesi, nel libro in questione, è che la figura del combattente irregolare costringa a ripensarla, ossia che il partigiano modifichi il modello interstatuale della guerra e, di conseguenza, della politica.
In Teoria del partigiano “Schmitt non prende in esame la figura del terrorista”; Schmitt traccia una fondamentale distinzione fra due tipi di partigiano: quello che ha un nemico reale e quello che ha invece un nemico assoluto. Un nemico reale si dà nel caso di un partigiano, legato alla sua terra e capace di muoversi con agilità su di essa che combatte contro un esercito invasore o occupante oppure contro forze governative per le quali prova inimicizia. Pur irregolare, egli è sostanzialmente un difensore del suolo patrio. Un nemico assoluto si ha invece nel caso di un partigiano che conduce una lotta che mira alla rivoluzione mondiale perché identifica il nemico in una classe o nella generalità di qualsiasi istanza identitaria. Caratterizzato da “un’aggressività planetaria”, egli è strutturalmente propenso a criminalizzare il nemico e a fare ogni sforzo per annientano.
La sua opera complessiva resta “una delle più straordinarie anticipazioni dei temi dell’epoca globale”. Il testo permette infatti, da un lato, di individuare con una certa precisione lo sfondo teorico e l’entroterra storico del dibattito attuale su guerra e terrorismo, e, d’altro lato, di coglierne le ambiguità strutturali.
“Distinguere il terrorismo dalla violenza criminale o dall’azione militare” è il tema principale del dibattito odierno. La guerra è battaglia, “urto di due forze vive”, mentre il terrorismo evita di affrontare la battaglia, attaccando bersagli di cui viene “inibita l’autodifesa”; “l’essenza del terrorismo è l’uso della violenza da parte di gente armata contro gente disarmata.
Da un lato, si sottolinea la regolarità della guerra sulla base del consueto principio che la definisce come uno scontro, per così dire leale e paritario, fra eserciti, un duello su larga scala dove la violenza è reciproca. D’altro lato, si individua nelle vittime indifese, e perciò colpite da una violenza unilaterale, il criterio che la differenzia dal terrorismo. É però sufficiente citare Hiroshima e Nagasaki nonché i bombardamenti a tappeto sulle città durante la Seconda guerra mondiale e quelle che seguono, per evidenziare quanto debole sia il quadro complessivo dell’argomentazione. A ciò si aggiunga che i cosiddetti terroristi di matrice islamica si dichiarano soldati di una guerra giusta o santa, e il loro lessico è ricco di termini evocanti l’ardore della battaglia.
Anche in situazioni di guerra, le condotte violente “poste in essere ai danni di civili o di persone che comunque non prendono parte alle ostilità in corso” perdono la loro legittimità e rientrano a pieno titolo nella categoria di terrorismo.
Il problema di distinguere la guerra dal terrorismo guadagnerebbe non poco in chiarezza se il criterio dell’inerme non fosse mescolato a quello del guerriero. Si potrebbe infatti cominciare col sottolineare che, sebbene la guerra uccida anche gli inermi, anzi, di recente, li uccida in altissima percentuale, il terrorismo odierno tende a massacrarli in esclusiva. La sua, come spesso si dice, è una precisa scelta strategica dove l’uccisione di alcuni ha Io scopo di produrre un effetto terrorizzante per tutti.

Tratto da LA VIOLENZA SULL'INERME di Anna Bosetti
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