La nascita della produzione flessibile alla Toyota giapponese
Verso la fine degli anni ’40 la seconda guerra mondiale era terminata, lasciando il Giappone in una grave condizione sotto ogni aspetto. La Toyota, una piccola casa automobilistica, gravava naturalmente in pessime condizioni, con una quota di mercato minima ed uno scarso capitale.
Nel 1950, Eiji Toyoda, nipote del fondatore della Toyota, Sakici Toyoda, decise di andare negli Stati Uniti, per vedere di persona il modello dominante dell’industria attuale, quello fordista, caratterizzato da grandi complessi industriali e produzione di massa di beni standardizzati. Tornato dagli stabilimenti della Ford, Eiji si convinse che la produzione di massa non era adatta al Giappone, prima di tutto perchè richiedeva un immobilizzo di capitali (sotto forma di costosi macchinari dedicati alla produzione di un singolo modello o di un singolo particolare) che allora, appena finita la guerra non erano assolutamente disponibili. Inoltre, in un mercato come quello giapponese, era impensabile voler produrre milioni di automobili uguali, in quanto le richieste erano scarse ed estremamente diversificate. Un ultimo fattore che scoraggiava la produzione parcellizzata era la condizione della forza lavoro, con i sindacati, che nell'immediato dopoguerra, si erano rafforzati ed avevano raggiunto, in cambio delle riduzioni di manodopera richieste dai capitalisti, condizioni favorevoli per quelli che avevano conservato l'impiego. La Toyota non aveva fatto eccezione, e si trovava agli inizi degli anni cinquanta a dover pagare un caro prezzo per i licenziamenti fatti negli anni precedenti. Tutti i dipendenti, infatti, avevano conquistato il diritto al posto fino alla pensione, con notevoli incrementi di stipendio basati non sulla professionalità o l'incarico svolto, ma sull'anzianità presso l'azienda. I lavoratori costituivano un costo fisso per la produzione, era quindi opportuno cercare di utilizzarli al meglio, evitando l’insorgere della disaffection (malcontento operaio), grande problema delle fabbriche occidentali.
Così Toyoda, insieme al direttore dello stabilimento di produzione, Taiichi Ohno, si diede da fare per superare i limiti del fordismo. Iniziò sviluppando una tecnica per la sostituzione delle presse in linea semplicemente rivoluzionaria, in quanto l'operazione poteva essere attuata in pochi minuti dagli stessi operai addetti allo stampaggio (la stessa operazione, in una fabbrica occidentale, richiede un giorno di lavoro di tecnici specializzati). Poi, infrangendo il dogma tayloristico della scissione tra produzione e controllo, attribuirono agli operai di linea funzioni via via più complesse, incluse quelle inerenti la qualità. I difetti andavano prevenuti, non subiti. Ciò impose, naturalmente, profonde modifiche organizzative, prima fra tutte la possibilità, per ogni operatore, di fermare la catena, decisione questa, che era normalmente appannaggio di pochi funzionari responsabili di linea.
Così, quasi in sordina, nacque il Toyota Production System, un rivoluzionario metodo produttivo che, superando la rigidità della produzione di massa, sfruttava al meglio le risorse umane e quelle tecniche, le faceva interagire funzionalmente tra di loro, si faceva forte della particolare cultura giapponese che privilegia, più che le genialità individuali, i risultati ottenuti dal gruppo. Il sistema Toyota, che a costi contenuti permetteva di lanciare sul mercato un nuovo modello in soli tre-quattro anni (ed in un numero altissimo di varianti) fu ben presto ripreso da tutte le fabbriche giapponesi, in fortissima concorrenza tra di loro.
Ohno abbassò quindi il break event point dell’economia di scala tipica delle produzioni di grandi serie, a un’economia di flessibilità basata su produzioni di brevi serie. Bisognava trasformare i vincoli in risorse. Questi cambiamenti portarono al venir meno di grandi riserve di materiale da accumulare per lavorarlo, a fronte dell’allestimento di un sistema di trasporti perfetto per le consegne di materiale “giusto in tempo”. Inoltre la produzione di piccoli lotti diversificati permetteva alla Toyota di rispondere alle variazioni di mercato, alle richieste personalizzate dei clienti, e permetteva un controllo della qualità estremamente più efficace, in quanto fermando il flusso produttivo per eliminare immediatamente i difetti scoperti, non si lasciava scorrere il flusso per intervenire poi a fine linea, con conseguenti costi più elevati di produzione.
Questo metodo produttivo prese il nome di “produzione flessibile”, caratterizzato dalla flessibilità tanto dei processi produttivi che dell’impiego della manodopera. Può essere attuato in seno a grandi o piccole imprese coinvolgendo gli operai nell’esecuzione responsabile dei compiti affidati. Fattori fondamentali sono la cooperazione e la fiducia reciproca nei rapporti tra impresa e dipendenti, e impresa madre e la rete delle imprese fornitrici.
Il distretto industriale è l’espressione socio-economica in cui si realizza questo modello alternativo alla grande impresa. Un agglomerato geograficamente definito di piccole imprese, specializzato nella produzione di beni dove vige una micro-imprenditorialità diffusa, esiste una fitta regolazione dei rapporti di tutela e concorrenza degli interessi collettivi e sono considerate un patrimonio collettivo le istituzioni politico-sociali di controllo e di sviluppo delle capacità tecniche-produttive.
Il metodo decollò poi definitivamente con l'adozione, avvenuta negli anni sessanta, dei principi della Qualità Totale; filosofia questa introdotta in Giappone, ironia della sorte, proprio da un ricercatore americano, Edward Deming. Tutto ciò avveniva mentre, in occidente, le case costruttrici erano cristallizzate nella produzione fordista.
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Autore:
Lorenzo Blangiardi
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- Università: Università degli Studi di Firenze
- Facoltà: Scienze dell'Educazione
- Esame: Modelli organizzativi
- Docente: Andrea Spini
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