Perché nessuno contrasta l’America?
L’attuale supremazia americana non ha precedenti nella storia: viviamo in un mondo con un'unica superpotenza in cui non si profila nessuno in grado di contrastarla. Alcune resistenze a questo strapotere sono apparse, ma non si è ancora verificata una vera e propria reazione, come prevedrebbe la teoria dell’equilibrio. Anzi, la principale preoccupazione di alcuni alleati è che gli USA non si allontanino da loro.
Secondo alcuni realisti strutturali come Waltz, il ritorno all’equilibrio prima o poi si verificherà perché l’unipolarismo è la meno durevole delle configurazioni internazionali. Infatti, prima o poi:
lo Stato egemone tenderà ad assumersi troppi compiti e responsabilità che, nel lungo periodo, lo indeboliranno;
anche se agisce con moderazione, gli stati piccoli temeranno sempre di più un potere concentrato e fuori controllo.
Ma sicuramente alcune caratteristiche dell’ordine attuale (le armi nucleari, il capitalismo, la democrazia) hanno modificato la logica dell’equilibrio, come anche alcune caratteristiche degli USA:
è forse meno minacciosa delle altre superpotenze della storia? Non è così, ma così è percepita dagli altri stati per fattori geografici, tecnologici, ideologici e riguardanti la sua democrazia e i suoi impegni internazionali;
risolve molti problemi agli altri stati e questo tende a ridurre gli incentivi nel controbilanciarla, in quanto i costi e i benefici economici e di sicurezza di quest’ordine sono di certo più bassi di quelli dell’ordine che potrebbe emergere in seguito all’equilibrio di potenza;
la potenza americana non si esprime solo militarmente ed economicamente, ma anche e soprattutto nell’espansione della sua cultura e della sua economia.
Per i neorealisti come Gilpin la dinamica dell’equilibrio di potenza può essere congelata dall’egemonia: esistono, infatti, tre meccanismi che spiegano il perdurare di un ordine egemonico:
la dominazione coercitiva: si crea un ordine imperiale informale in cui gli stati più piccoli cercherebbero di rovesciare lo stato egemone se fossero in grado di farlo, ma non lo sono;
l’esistenza di una minima convergenza di interessi tra stati deboli e forti (ad esempio l’America fornisce all’Asia dei “servizi”, come risolvere i problemi di sicurezza regionale);
l’istituzionalizzazione, il mutuo consenso e la reciproca interazione politica: si crea un’egemonia liberale, in cui si finisce per oscurare la gerarchia dell’ordine. Qui è molto debole il previsto valore del ripristino dell’equilibrio. Il carattere benevolo della potenza e i vincoli istituzionali riducono gli incentivi al riequilibrio.
Kupchan sostiene che la fine dell’unipolarismo dipenderà dal provincialismo della politica interna americana, in quanto ci sarà un crescente divario tra supporto interno e impegni istituzionali.
I realisti che si spingono oltre il semplice modello dell’equilibrio, come Walt, vedono la solidità americana legata al livello di minaccia che gli USA rappresentano per gli altri stati. Ovviamente in questo caso non è importante tanto la potenza di uno stato quanto le intenzioni e il comportamento in politica estera. Dunque gli USA sono enormemente potenti, ma non abbastanza minacciosi. Egli identifica quattro componenti della minaccia: la potenza, la prossimità geografica, le potenzialità offensive come la deterrenza nucleare, le intenzioni offensive. Dunque questa teoria neorealista non indica un ritorno inevitabile all’equilibrio.
Joffe si allontana ulteriormente, analizzando i casi nella storia di potenze egemoni che non hanno generato contro-coalizioni. Sono state la Gran Bretagna e la Germania di Bismarck, anche se per motivi diversi: la prima ha utilizzato la propria insularità geografica e supremazia marittima, tenendosi fuori dalle rivalità tra le potenze del continente e per questo non rappresentando una forte minaccia alla loro sovranità territoriale; la seconda ha cercato di perseguire il più possibile legami strategici con le grandi potenze confinanti. Gli USA hanno seguito una strategia globale che comprende entrambi i metodi. Inoltre egli sottolinea anche l’importanza del potere soft degli USA nella loro egemonia.
Mastanduno infine pone l’accento sull’importanza del loro ruolo utile, in alcune regioni come l’Asia orientale, nel ridurre i problemi di sicurezza regionale e nel comporre i potenziali conflitti. La potenza non è sufficiente a comandare, occorre la legittimazione da parte dei seguaci che si ottiene solo in base all’utilità. Inoltre il suo carattere offshore la rende meno minacciosa.
Esistono altri fattori plausibili che si allontanano ulteriormente dal realismo: la tesi della pace democratica, ovvero che le asimmetrie di potenza sono meno minacciose quando si manifestano tra democrazie. È la fondamentale impensabilità dell’uso della forza tra questi paesi ad azzerare le minacce (se questo è vero la supremazia militare americana è inutilizzabile e quindi inutile nei suoi rapporti con stati democratici).
L’egemonia americana si può definire riluttante (assenza di un forte impulso a dominare direttamente), aperta (la democraticità offre agli alleati la certezza di poter far sentire la loro voce se sarà necessario, mentre la trasparenza riduce la possibilità di un brusco cambiamento di politica da parte americana) e altamente istituzionalizzata (le istituzioni hanno imposto vincoli stabili e inoppugnabili).
Owen sostiene che la dinamica interna di questo meccanismo è identificabile nei valori e negli interessi condivisi delle élite dei paesi democratici, che riflettono in ultima analisi i valori socioeconomici dominanti nella società (teoria di identità delle elite).
Risse sostiene che la stabilità è dovuta a una “comunità di sicurezza occidentale”, ovvero una nuova struttura sociale di relazioni interstatali, che ha sostituito l’anarchia precedente e che riduce fortemente le crisi legate alla sicurezza e rende impossibile una guerra tra grandi potenze. I tre aspetti fondanti di questa comunità di sicurezza occidentale sono: identità collettive e valori condivisi, interdipendenza politica, economica e culturale, strutture di governance che regolano l’ordine sociale. In virtù di questo, gli stati non considerano ostili azioni di altri stati della comunità che sarebbero giudicate minacciose in altre circostanze: i conflitti in materia di commercio, difesa e altri ambiti non scompaiono, ma sono contenti nell’ambito di istituzioni politiche condivise, che li risolvono senza ricorrere alla forza.
Anche se la creazione di una coalizione controbilanciante non è inevitabile, secondo Ikenberry bisognerà solo avere pazienza, anche se non è chiaro quasi saranno le circostanze scatenanti. Inoltre bisogna capire che non è importante controbilanciare la sua potenza militare, ma la sua egemonia culturale ed economica
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