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Carlo Collodi – Pinocchio e Geppetto


Come tutto il romanzo, anche il capitolo VII gronda di toscanismi o fiorentinismi, e tanto più si direbbe in quanto vi agiscono i soli Pinocchio e Geppetto, chiusi nel loro ambiente e col loro linguaggio familiare. Citiamone alcuni: avvisto, paletto, traballoni, di picchio, babbo, ruzzolandosi, ritto, in collo, luccioloni, gote, caldano.
Ad esse si possono poi accostare alcuni fenomeni genericamente popolari o colloquiali, come il che polivalente, l'uso di cascare in luogo di cadere e di campare al posto di vivere, nonché le sette metafore corpose ed espressive come schizzò e spolverò.
Tutta questa costellazione di fenomeni non è solo notevole sul piano dell'appropriatezza a un dato registro, e perciò dell'individuazione dei personaggi e dell'ambiente relativo, ma anche per la sua ricchezza e varietà. È un aspetto confermato vistosamente da come lo scrittore è attento ad alternare i verba dicendi nelle due sequenze di dialogato: rispondeva, disse, ripeté, replicò, soggiunse, dicendogli, gridò, osservò.
Tuttavia è soprattutto nella sintassi e nell'organizzazione testuale che risplende quella che potremmo chiamare quasi ossimoricamente l'elegante essenzialità di Collodi, certo non spiegabile semplicisticamente col pubblico giovanissimo a cui egli anzitutto si rivolgeva. Non solo il dialogato, per lo più a battute brevi o brevissime, ma anche il narrato rifugge da complicazioni ipotattiche. Quanto al dialogato, che domina il capitolo, Collodi come sempre lo orchestra sapientemente attraverso tutta una serie di ripetizioni contrappuntistiche da una battuta di un personaggio a quella di un altro: non posso / perché non puoi?; mi hanno mangiato i piedi / E chi te li ha mangiati?
Ma s'intende che queste strette incatenature, che possono dare alla pagina quasi l'aspetto di un fugato, avvicinano ma non confondono le diverse voci dei due protagonisti: più pacata e saggia e reiterante quella del vecchio, che tende a batturte di maggiore ampiezza, anche perché finiscono per contenere spesso un'esplicazione o una morale; generalmente a battute strette e veloci, fino alla monorematica, quella infantilmente e capricciosamente emotiva del bimbo – burattino, mossa fra l'altro da continue esclamazioni e dalle geminationes  di pateticità e immediatezza, caratteristica quest'ultima che sempre è comune al linguaggio pinocchiesco.
Echi del medesimo tipo si hanno fra segmenti di narrato e battute di dialogo: tre pere (50 – 51), bucce (60 – 63); buttar via (65); il torsolo (65 – 68). Sono, in entrambi i casi, brevi Leitmotive, costituiti quasi sempre da minuscoli realia, che stringono i personaggi alla qualità umile della loro vita, e coi più frequenti dei quali Collodi giunge a dipingerci anche due domestiche, ma non per questo meno fini, “nature morte”: e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola; tre torsoli... vennero posati sull'angolo della tavola in compagnia delle bucce. E questi motivi minimali ricorrenti sono attraversati da un Leitmotiv più ampio e strutturato, che inquadra con preciso gesto di chiusura stilistica l'ultima parte del capitolo, all'insegna della saggezza popolare e bonaria del vecchio falegname: perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti...! e anche  Chi lo sa! I casi son tanti...!

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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