Immagine-affezione. Giovanna d'Arco in Dreyer e Bresson
L’immagine-affezione, in quanto pura potenzialità, è associata da Deleuze al qualisegno di Peirce, e in Persona di Bergman essa è usata per spersonalizzare i volti delle protagoniste. Augé parla di “surmodernité” (“ipermodernità”) come dimensione non coincidente con il “postmoderno”, e in essa si danno “spazi dell’anonimato” destinati alla circolazione di persone e merci, per accedere ai quali è però necessario esibire documenti attestanti la propria identità (caselli autostradali); gli spazi non anonimi sono invece contraddistinti dall’eccesso di tempo (incapacità di padroneggiare il passato anche prossimo, in una dimensione di “palinsesto” in cui si cancellano le memorie del passato per conservarle in supporti audiovisivi), di spazio (necessità di attraversare i “non-luoghi” dell’anonimato) e di fissazione sull’Ego (ipertrofia del controllo sulla propria immagine, con un narcisismo di massa che porta alla spersonalizzazione).
Deleuze confronta i film su Giovanna d’Arco di Dreyer e Bresson, e nel primo si gioca sull’uso del primo piano, nel secondo su campi più lunghi, ossia rispettivamente sulla “passione” e sul “processo” (che danno titolo ai due film); lo “spazio qualunque” è quello in cui le relazioni spaziali perdono la loro “norma metrica” e divengono dissonanti (rispetto al canone di completezza trasparente del cinema classico), e in Bresson esso è presente, attraverso lo spazio carcerario straniante tipico dei suoi film (Un condannato a morte è fuggito); l’ombra determina nello spazio qualsiasi congiunzioni virtuali, uno “spazio delle ombre” nero spesso presente nei film di Murnau; Deleuze parla anche di “spazio dell’astrazione lirica” e di “spazio del colore”, e nel primo non c’è più conflitto tra tenebre e luce come nell’espressionismo, ma alternanza dei due elementi, tipica di Rivette, nei cui film il giorno e la notte si succedono come due tonalità del bianco; lo spazio del colore è tipico del musical hollywoodiano (Minnelli) ma anche di Antonioni (“Deserto rosso”) e Godard; i tre spazi di colore (nero, bianco, colore) hanno in comune la perdita della dimensione dell’individualità. La logica senso-motoria che presiede all’immagine-azione viene interrotta, e poi scardinata, dall’immagine-affezione.
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Autore:
Massimiliano Rubbi
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- Università: Università degli Studi di Bologna
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Esame: Semiologia del cinema e degli audiovisivi
- Docente: Antonio Costa
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