Gli appunti si occupano sella fase successiva alla condanna, fase in cui si da corso all'esecuzione della pena.
Organo giusdicente è il giudice dell'esecuzione, coadiuvato dal tribunale del riesame.
Argomenti affrontati:
• Il giudicato penale e la revisione
• L'"irrevocabilità" del provvedimento giurisdizionale come presupposto per il formarsi del giudicato
• Intangibilità del giudicato e suoi limiti
• Le funzioni del giudicato penale. La funzione negativa: il divieto di ne bis in idem
• Conseguenze derivanti dalla regola del bis in idem
• Deroghe (apparenti) al divieto di bis in idem
• Funzione positiva del giudicato penale
• a) il vincolo nei giudizi civili e amministrativi di danno, nascente dalla sentenza di condanna
• b) il vincolo nei giudizi civile e amministrativi di danno, nascente dalla sentenza di assoluzione
• c) il vincolo in altri giudizi civili o amministrativi
• d) il vincolo nel giudizi disciplinare
• L'impugnazione del giudicato: la revisione come rimedio straordinario
• I casi di revisione: a) le fattispecie tradizionali indicate nell'art. 630 cpp; b) la revisione in peius
• Il procedimento di revisione
• La riparazione dell'errore giudiziario
• La revisione a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla violazione delle regole del fair process nel processo interno: la sentenza 113/2011 della Corte Costituzionale
• "Esecutività", "eseguibilità", "esecuzione" del provvedimento giurisdizionale penale
• Il titolo esecutivo penale
• Il PM organo promotore dell'esecuzione
• Le modalità dell'esecuzione
• La determinazione del cumulo di pene concorrenti
• Il giudice dell'esecuzione
• L'individuazione del giudice competente per l'esecuzione
• Le questioni attribuite alla competenza del giudice dell'esecuzione:
a) l'esecuzione della sentenza in caso di giudicati contrastanti
b) le questioni riguardanti il titolo esecutivo
c) l'applicazione della disciplina del concorso formale e della continuazione di reati
d) altre questioni di competenza del giudice dell'esecuzione
• Il processo ordinario di esecuzione
• Procedimenti particolari
• Magistratura di sorveglianza
• Organi della magistratura di sorveglianza e competenza per materia
• Competenza per territorio
• Provvedimenti in materia di sicurezza
• Provvedimenti in materia di liberazione condizionale
• Provvedimenti in materia di riabilitazione
• Provvedimenti in materia di differimento dell'esecuzione delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive
• Il procedimento di sorveglianza
• L'esecuzione dei provvedimenti emessi dalla magistratura di sorveglianza
• Attribuzione del magistrato di sorveglianza in materia di concessione di grazia
Il diritto processuale penale
e il processo penale:
l’esecuzione
Appunti di Gianfranco Fettolini
Università degli Studi di Brescia
Facoltà di Giurisprudenza
Corso di laurea magistrale a ciclo unico in giurisprudenza
Esame di Diritto Processuale Penale
Docente: Alessandro Bernasconi
Anno accademico - 2014/2015IL DIRITTO PROCESSUALE PENALE E IL
PROCESSO PENALE: L’ESECUZIONE
IL GIUDICATO PENALE E LA REVISIONE
1. Considerazioni introduttive
Il concetto di esecuzione nell’ambito processualpenalistico è suscettibile di adattarsi
a una pluralità di situazioni. Esso, infatti, inteso come attuazione di quanto disposto
in un provvedimento emesso nel corso di un processo penale, può connotare
qualsiasi decisione adottata nei diversi momenti dell’iter processuale e dai contenuti
più disparati; tuttavia, a ciò si contrappone l’idea che vede nell’esecuzione un’attività
riannodabile esclusivamente alle decisione idonee a porre fine al processo di
cognizione e, dunque, in rapporto di logica successione rispetto a questo.
Il libro X del codice di procedura penale disciplina l’istituto dell’esecuzione,
agganciandolo alle sentenze e ai decreti penali (art. 650 cpp) esecuzione (ex-
sequor): viene dopo la cognizione
2. L’“irrevocabilità” del provvedimento giurisdizionale come presupposto per
il formarsi del giudicato
Le regole concernenti l’esecuzione sono precedute dalla disciplina del giudicato, cui
sono connesse ex art. 650 cpp, secondo cui le sentenze e i decreti penali hanno forza
esecutiva quando sono divenuti irrevocabili. Se è vero che l’interna fisiologia del
processo spinge gli atti che lo costituiscono verso un atto conclusivo e finale,
espressione piena dell’attività giurisdizionale, la necessità che a un dato momento
quest’atto trovi una sua cristallizzazione comporta che la decisione del giudice in cui
esso si concretizza acquisiti il carattere dell’immutabilità o dell’irrevocabilità; le
condizioni il cui avverarsi rende irrevocabile il provvedimento giurisdizionale sono
fissate dall’art. 648 cpp e trovano realizzazione nei seguenti casi:
- quando contro il provvedimento non sia consentita altra impugnazione che la
revisione;
- quando, trattandosi di sentenza appellabile o ricorribile per Cassazione, siano scaduti
i termini per l’impugnazione senza che questa sia stata proposta;
- quando, trattandosi di sentenza appellabile, l’appello proposto sia stato dichiarato
inammissibile e contro l’ordinanza di inammissibilità non sia stato presentato nei
termini ricorso per Cassazione o questo sia stato dichiarato inammissibile o sia stato
rigettato;
- quando, trattandosi si sentenza ricorribile per Cassazione, il ricorso sia stato
dichiarato inammissibile o sia stato rigettato;
- quando, trattandosi di decreto di condanna, non sia stata proposta nei termini
l’opposizione ovvero, se questa sia stata proposta e dichiarata inammissibile, non sia
stato presentato nei termini ricorso avverso l’ordinanza di inammissibilità.
In sostanza, le condizioni che la legge stabilisce perché un provvedimento
giurisdizionale acquisti l’impronta dell’irrevocabilità si traducono tutte
nell’impossibilità giuridica di sottoporre il contenuto di quel provvedimento a un
“riesame” attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione; la sentenza divenuta
irrevocabile, indipendentemente dal suo contenuto, comporta l’estinzione del potere
del giudice di decidere nuovamente su un oggetto già deciso, quasi la statuizione
d’una sorta di difetto di giurisdizione ed è esattamente in ciò che si fa consistere
l’essenza del giudicato. Ma l’esigenza di assicurare certezza e stabilità non può
ritenersi soddisfatta allorché pendono dei termini per l’impugnazione; da qui il
collegamento tra il prodursi del fenomeno del giudicato e l’irrevocabilità del
provvedimento giurisdizionale.
Nella dottrina generale del processo si suole distinguere tra:
- giudicato in senso formale: si intende caratterizzare l’immutabilità della decisione,
nascente dal venir meno del potere del giudice di pronunciare sul medesimo oggetto
e che affonda le radici nell’esigenza di assicurare la definitività delle situazioni
giuridiche;
- giudicato in senso sostanziale: si sottolineano l’autorità e la vincolatività della decisione
giurisdizionale, la quale si presenta in veste di vero e proprio atto imperativo (lex
specialis).
Il giudicato si forma sui capi e sui punti della decisione espressa nel dispositivo della
sentenza, la sola parte che racchiude le statuizioni del giudice, e non sugli elementi
logico-argomentativi, riferiti a circostanze di fatto o a valutazioni di diritto, contenuti
nella motivazione, che assolve la funzione meramente strumentale di interpretare il
dispositivo; nell’ipotesi in cui un dispositivo si articoli in più capi, il giudicato si
formerà sull’intero dispositivo non appena la sentenza sia divenuta irrevocabile, a
meno che essa non sia stata parzialmente impugnata.
Infine, nell’eventualità di ricorso per Cassazione che coinvolga tutto quanto il
dispositivo della sentenza, se viene pronunciato annullamento parziale con rinvio, sui
capi della sentenza non annullati, e sempre che non siano connessi in materia
inscindibile con quelli annullati, si creerà il giudicato.
3. Intangibilità del giudicato e suoi limiti
Giudicato non equivale a verità, ma a “surrogato della verità”, poiché, già
nell’esistenza stessa dell’istituto della cosa giudicata, è un prescindere dalla verità;
d’altronde, l’attività del giudice rimane pur sempre opera dell’uomo nella quale è
insito il rischio dell’errore e dell’ingiustizia è qui che si profila l’antinomia tra la
necessità che a un certo momento l’accertamento si solidifichi attraverso la sua
intangibilità e la preoccupazione dell’errore giudiziario.
Il sistema processuale consente, in casi eccezionali, la possibilità di tornare su un
precedente provvedimento già divenuto irrevocabile, in base a un sospetto di errore
che possa farlo ritenere in giusto; ciò si realizza attraverso quel mezzo di
impugnazione consentito al verificarsi di condizioni eccezionale, che è la revisione.
Tuttavia, anche la revisione opera sul giudicato con molta cautela; comunque, si può
affermare che l’intangibilità della forza estintiva del potere di decisione intrinseca
all’essenza del giudicato riposa sull’ineccepibilità della conoscenza acquisita
attraverso il processo e viene meno allorché sopraggiunga il convincimento che
quella conoscenza si sia prodotta sulla base di fallaci percezioni da parte del giudice,
determinando la necessità di una successiva acquisizione di conoscenza.
4. Le funzioni del giudicato penale. La funzione negativa: il divieto di ne bis in
idem
Tradizionalmente, si individuano una funzione negativa e una positiva del giudicato
penale: la prima consiste nell’impedire qualsiasi nuovo giudizio de eadem re; la seconda
nell’imporre ai giudici di futuri processi nei quali l’oggetto della decisione passata in
giudicato si ponga come questione pregiudiziale in senso logico per la decisione sulla
nuova questione, di tener fermo quanto sia stato irrevocabilmente accertato. Si tratta
del manifestarsi in duplice forma di un’unica realtà che si compendia nell’idea stessa
di giudicato, come causa del venir meno del potere di sentenziare; causa dalla quale
discende l’efficacia di norma giuridica riconosciuta nei futuri processi alla precedente
decisione giudiziale.
Ed è in questo quadro che si inserisce e trova chiarimento il vincolo negativo, per i
giudici di futuri processi, che si risolve nell’obbligo di astenersi dal decidere sullo
stesso oggetto e nel quale si sostanzia il divieto del ne bis in idem; una regola che si
fonda su una semplice direttiva legislativa ispirata da criteri di mera opportunità
pratica: sottrarre l’individuo a una teoricamente illimitata possibilità di persecuzione
e, quindi, all’arbitrio incondizionato dell’organo punitivo. Tale divieto trova
espressione normativa nell’art. 649 cpp, il quale dispone che l’imputato prosciolto o
condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di
nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo
viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze; inoltre,
il divieto del ne bis in idem non è riferibile esclusivamente a sentenze di merito, ma
opera anche nei confronti di quelle meramente processuali, come emerge dall’art.
345 cpp, il quale precisa che le sentenze di proscioglimento per mancanza di una
condizione di procedibilità ancorché non più impugnabili, non impediscono
l’esercizio dell’azione penale contro la stessa persona e per lo stesso fatto se
successivamente la condizione viene a realizzarsi.
Insuscettibile di dar vita al ne bis in idem è il provvedimento di archiviazione, giacché
non esiste alcuna norma che a esso attribuisca effetti vincolanti; a tale
provvedimento va riconosciuta un’efficacia limitatamente preclusiva, in quanto, dopo
la sua pronuncia, l’inizio di un nuovo procedimento per lo stesso fatto e nei
confronti della stessa persona è subordinato all’autorizzazione del giudice, sicché, in
carenza di tale autorizzazione, la procedibilità è impedita e deve essere dichiarato con
sentenza che l’azione penale non doveva essere iniziata.
Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 28 giugno 2005, hanno affermato
che l’applicazione del ne bis in idem è collegata al fatto che l’art. 649 cpp rappresenta
l’espressione di un principio generale dell’ordinamento che, anche in presenza di
pronunce giurisdizionali non ancora connotate dal requisito dell’irrevocabilità, rende
la reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull’identica regiudicanda
incompatibile con le esigenze di razionalità e di funzionalità del sistema processuale,
sistema basato sull’istituto della preclusione che impedisce l’esercizio di un potere di
fronte al pregresso esercizio dello stesso potere.
Infine, il divieto del bis in idem non sempre opera di fronte a decisioni giudiziarie
straniere, se si da credito all’art. 11 cp che impone espressamente di giudicare nello
Stato il cittadino o lo straniero che vi abbia commesso reati, anche se sia stato
giudicato all’estero per gli stessi fatti e ciò in virtù dell’esigenza di assicurare
l’illimitatezza della sovranità statuale nelle sue manifestazioni giurisdizionali; con tale
disposizione, tuttavia, contrasta una serie di norme che fanno cappo a non poche
convenzioni internazionali, in cui sono contenute regole differenti. Più di recente, la
Carta dei diritti fondamentali dell’UE ha riaffermato il principio secondo cui
nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato
assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva,
conformemente alla legge; in definitiva, dunque, può ritenersi che il divieto di bis in
idem, anche con riferimento a sentenza pronunciate all’estero, rappresenta nel nostro
ordinamento una realtà che non può essere disconosciuta.
5. (Segue): i presupposti del divieto di bis in idem
A) Il presupposto di natura soggettiva è dato dall’identità tra la persona già sottoposta al
processo conclusosi con la sentenza divenuta irrevocabile e quella che si
pretenderebbe di sottoporre a un nuovo processo; in relazione, poi, all’ipotesi di
partecipazione di più persone nel reato, il divieto di bis in idem vale unicamente per
l’imputato prosciolto o condannato e non anche per eventuali compartecipi nel reato
quando siano rimasti estranei al processo conclusosi con provvedimento divenuto
irrevocabile (art. 649 cpp).
B) Il presupposto di natura oggettiva del divieto di bis in idem è dato dall’identità tra il fatto
su cui ha deciso la sentenza divenuta irrevocabile e il fatto per il quale si vorrebbe
instaurare il nuovo processo. Innanzitutto, il “medesimo fatto” ex art. 649 cpp
investe il fatto concreto che è stato oggetto del primo giudizio, escludendo fatti
successivi che non possono considerarsi identici perché commessi in condizioni di
tempo e luogo diverse; nell’accezione accorta dall’art. 649 cpp, il fatto prescinde da
ogni qualificazione in termini giuridici, emergendo unicamente nella sua realtà
storica e indipendentemente dall’atteggiamento psichico di chi lo pone in essere.
Ma, anche sotto questo aspetto, il fatto si rappresenta come un’entità composta di
condotta ed evento, per cui occorre chiedersi se tutti e due questi elementi
concorrono a individuare il significato che l’espressione acquista nel discorso
riguardante l’efficacia preclusiva del giudicato; ancora una volta soccorre il tenere
letterale della norma dal quale risulta che l’identità del fatto sussiste anche se esso
venga diversamente considerato per il grado. Inconferenti appaiono anche gli
elementi che accompagnino, eventualmente, il realizzarsi del fatto pur a fronte di una
nuova e diversa prospettazione dovuta a valutazione di circostanze precedentemente
tralasciate; ad ogni modo, i concetti di “fatto”, “condotta”, “evento” non sono che il
prodotto di un’astrazione e, quindi, dell’arbitraria scomposizione della realtà, con il
rischio che, a un certo momento, astraendo più del consentito, le conclusioni
finiscano col cadere nell’assurdo.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, proprio per evitare soluzioni
palesemente illogiche, ha pressoché costantemente sostenuto che il divieto di bis in
idem agisce solo nel caso in cui l’identità obiettiva non concerne la sola condotta
dell’imputato, ma comprende l’intera materialità del reato nei suoi 3 elementi:
condotta, evento, nesso causale; opinione, questa, che si pone in netto contrasto con
la formulazione letterale dell’art. 649 cpp. Per eliminare la possibilità che il
riferimento del “fatto” all’elemento “condotta” sfoci in soluzioni paradossali, il
discorso è stato completato, chiarendo che la nozione di “condotta”, come punto di
riferimento del fatto al fine di ricollegarvi il divieto di un secondo giudizio, va
definita in relazione al suo oggetto materiale; in sostanza, dunque, nel fatto ex art.
649 cpp, tolto l’interno psichico, nonché quando attiene a grado e circostanze,
restano l’azione od omissione e, nei reati materiali, l’oggetto fisico.
6. Conseguenze derivanti dalla regola del bis in idem
Può accadere che, in fase di indagini preliminari concernenti un determinato fatto,
emerga che, in ordine a tale fatto, nei confronti del sottoposto alle indagini, già esiste
un giudicato: lo sbocco sarà una richiesta di archiviazione, promossa dal PM non
appena ci si avveda della copertura di una precedente decisione irrevocabile; infatti,
l’art. 649
2
cpp prevede la declaratoria di ne bis in idem con sentenza, per l’ipotesi in cui
l’azione penale sia stata già promossa, ma non impone al PM di esercitare l’azione al
solo fine dell’instaurazione di un processo che si sa già destinato a concludersi con la
decisione che l’imputato non doveva essere sottoposto a nuovo giudizio, sicché
legittimamente può essere disposta archiviazione per precedente giudicato sugli stessi
fatti e nei confronti della stessa persona. Altra alternativa è che l’evenienza che si stia
giudicando in violazione del divieto di bis in idem si manifesti a processo già iniziato:
il giudice sarà tenuto a pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a
procedere, enunciandone la causa nel dispositivo; si tratterà di proscioglimento se ci
si trova in sede di giudizio, mentre si pronuncerà il non luogo a procedere se si sia
ancora in fase di udienza preliminare.
La preclusione derivante dal giudicato va dimostrata attraverso la produzione della
sentenza irrevocabile relativa al precedente giudizio, perché solo in tal modo il
giudice successivamente adito può stabilire con certezza l’identità del fatto e se la
prima decisione sia effettivamente passata in giudicato; ma ciò non implica che
l’onere di provare l’esistenza di un giudicato spetti all’imputato e che, se questi non
vi adempia, il giudice non sia tenuto, d’ufficio, a provvedere all’acquisizione della
prova: al contrario , è preciso dovere dell’organo giudicante verificare anche di
propria iniziativa se esistono ostacoli al processo, dal momento che tale ricognizione
costituisce il preambolo del lavoro decisorio.
L’inammissibilità di un secondo giudizio sul medesimo fatto deve essere dichiarata in
ogni stato e grado del processo successivamente instaurato (art. 649
2
cpp); posto che
in sede di ricorso per Cassazione di accerti l’esistenza di un contrasto tra la sentenza
impugnata e una sentenza concernente la stessa persona e il medesimo oggetto
divenuta irrevocabile, la Cassazione, anziché confermare in ogni caso l’efficacia
preclusiva originata dal precedere giudicato, pone a raffronto le due decisioni,
annulla la più svantaggiosa e ordina l’esecuzione dell’altra prevale il favor rei
7. Deroghe (apparenti) al divieto di bis in idem
L’art. 649 cpp, facendo salvo quanto disposto dagli artt. 69
2
e 345 cpp, sottrae al
fenomeno dell’efficacia preclusiva del giudicato due tipi di provvedimento:
- la sentenza che dichiara estino il reato per morte dell’imputato, la quale non impedisce
l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona,
qualora successivamente si accerti che la morte dell’imputato è stata erroneamente
dichiarata;
- la sentenza che proscioglie l’imputato per difetto di una condizione di procedibilità, la quale
consente la riproponibilità dell’azione nel caso in cui, in un secondo momento, la
condizione si realizzi.
La declaratoria di estinzione del reato pronunciata sul presupposto, rivelatosi
successivamente erroneo, che l’imputato sia morto, va considerata una pseudo-
sentenza e, in quanto tale, inidonea a formare il giudicato; pertanto, la possibilità di
proporre una nuova azione nel caso in cui si accerti l’esistenza in vita della persona
scaturisce da quella inidoneità. Per quanto riguarda, poi, la sentenza di
proscioglimento per difetto di condizione di procedibilità, è stato giustamente
sostenuto che essa ha semplicemente il valore di un accertamento sulla mancanza
della condizione e sulla conseguente impossibilità di procedere; al di fuori di questi
limiti, la decisione non ha negato affatto la possibilità di procedere al sopravvenire
della condizione mancante, eventualità questa che esorbita dall’area del giudicato.
8. Funzione positiva del giudicato penale
La funzione positiva del giudicato penale viene individuata nell’obbligo, per altri
giudici, di riconoscere l’esistenza del giudicato in tutte le pronunce sopra domande
che presuppongono il giudicato stesso; il discorso investe, sostanzialmente, il tema
dell’incidenza del giudicato penale su giudizi extra-penali e la mancanza di ragioni
che giustifichino un vincolo della sentenza penale sui giudizi extra penali viene
ribadita da Liebman, il quale rileva:
- che l’unità della giurisdizione non esclude la separazione della competenze, così
come non pretende che alla sentenza penale si attribuisca un’efficacia in sede civile,
che non è riconosciuta nemmeno nell’ambito della stessa giurisdizione penale;
- che ,se realmente il processo penale assicura una più approfondita ricerca della verità,
non si capisce perché il legislatore non ne abbia esteso le regole anche al processo
civile;
- che il giudicato può essere diretto a escludere conflitti tra decisioni diverse rispetto
alla stessa azione, non tra decisioni indipendenti intorno agli stessi fatti, ma per fini
ed effetti diversi.
La conclusione è che ci si troverebbe di fronte a un problema di diritto positivo, per
la cui soluzione è decisiva la volontà del legislatore; in particolare, per quanto
riguarda il sistema introdotto del codice del 1988, esso appare caratterizzato da un
contesto normativo che, escludendo la validità erga omnes dell’accertamento dei fatti
effettuato in sede penale, riduce fortemente l’area di efficacia del giudicato penale nei
procedimenti civili e amministrativi.
9. (Segue): a) il vincolo nei giudizi civili e amministrativi di danno, nascente
dalla sentenza di condanna
Il presupposto per l’efficacia della sentenza penale di condanna nei giudizi di danno è che non
vi sia stata costituzione di parte civile nel processo penale, poiché, altrimenti, il
giudice penale in uno con la sentenza di condanna deciderà anche sulla pretesa civile,
accogliendola o rigettandola; di ciò si occupa l’art. 651
1
cpp, affermando che la
sentenza penale irrevocabile di condanna, pronunciata in seguito a dibattimento, ha
efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua
illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o
amministrativo, per le restituzioni o il risarcimento del danno promosso nei
confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato, ovvero sia
intervenuto nel processo penale. Le decisioni ritenute idonee a vincolare il giudice
civile o amministrativo sono quelle pronunciate nel dibattimento; alle sentenze
dibattimentali, poi, per espressa previsione dell’art. 651
2
cpp, vanno assimilate le
sentenze emesse in seguito a giudizio abbreviato, a condizione che non vi si opponga
la parte civile che ha rifiutato tale giudizio. Prive di effetto vincolante sono le
decisione che applicano una pena richiesta dalle parti (art. 445
1-bis
cpp) e i decreti di
condanna (art. 460
5
cpp): nel primo caso per evitare che il timore di possibili esisti
pregiudizievoli derivanti dalla sentenza patteggiata possono trattenere l’imputato dal
fare ricorso al rito speciale; nel secondo caso perché il decreto di condanna è
pronunciato inaudita altera parte e sarebbe iniquo far subire al condannato
conseguenze sfavorevoli nascenti da una decisione emessa in un procedimento nel
quale non gli sia stato possibile interloquire.