APPROFONDIMENTI
Videoclip. Forme brevi della comunicazione per un corpo sterminato
Troppe volte e in ambiti differenti si sente parlare di identità percependola come qualcosa di stabile, acquisito, fisso. Parlare in questi termini d un concetto così forte come quello identitario può trarre in inganno e addirittura può convincerci della validità di tali assunti.
Non solo oramai i moderni studi antropologici hanno sfatato (per fortuna!) certe teorie omologanti sulla purezza delle identità nazionali nate su valori che secondo alcuni dovrebbero essere per forza di cose comuni, ma grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, ai flussi audiovisuali che provengono dai mass media si sono avute notevoli conferme sulle sfaccettature identitarie, sulle multisoggettività e sulla molteplicità dei sé all’interno di uno stesso individuo oramai trasformatosi in un multividuo.
Teatro di questo cambiamento che difende la culturalità del corpo a scapito della sua naturalità, è la cosiddetta cultura del consumo da non confondere con la tanto criticata società dei consumi di fine ‘800, inizio ’900.
Quando si parla di consumo oggi non bisogna fermarsi esclusivamente al valore d’uso e all’acquisto materiale di determinati prodotti, bisogna andare oltre e mettere in risalto come negli ultimi anni, il consumo sia stato soprattutto un consumo di segni. Il multividuo diviene tale poiché assorbe e rilascia negli interstizi della metropoli i segni ed i codici visuali provenienti dalle comunicazione elettroniche. Il soggetto moltiplica le proprie identità mostrandosi e allo stesso tempo, osservando gli altri.
Tra tutte le produzioni mediali, quella che più mette in risalto queste dinamiche esplosive all’interno della metropoli comunicazionale è senz’altro il videoclip. Frutto di contaminazioni linguistiche e perciò instabile e frenetico come le identità della cultura del consumo, il videoclip è uno straordinario contenitore di tendenze, stili di vita, mode, mutazioni che sorprendono per la loro pervasività, per la loro capacità di essere assorbite dai corpi della metropoli contemporanea, siano essi organici od inorganici.
Il videoclip musicale grazie alla frenesia e al ritmo del suo montaggio visuale è da anni fonte di ispirazione per un certo tipo di cinema che sull’immagine costruisce la propria forza, come non pensare all’estremo Tetsuo di Shinya Tsukamoto o alle straordinarie atmosfere create da David Lynch nel suo ultimo film Inland Empire.
Un videoclip che meglio di altri tocca le tematiche affrontate in questa sede in modo appassionante ed appassionato è Stupid Girls diretto per la pop star Pink nel 2006, da Dave Meyers. Questo video è da considerare un piccolo gioiello visivamente parlando; il tema della canzone è arcinoto: no ai falsi valori che condizionano le adolescenti, bisogna abbandonare le frivolezze per capire che i soldi ed il successo non sono tutto. Leggere il testo di Stupid Girls ci risparmierebbe di vedere anche il suo videoclip, è tutto così chiaro, la denuncia sociale, la polemica sui falsi miti, tutte cose sentite e risentite.
Quello che però nessuno ha fatto è analizzare il video per quello che le immagini ed il corpo trasformista di Pink offrono: non i significati chiari e limpidi delle liriche della canzone, ma ciò che viene mostrato nei frames del videoclip, l’opacità di significati che si nasconde dietro quei corpi…
Questo lavoro audiovisuale permette allo spettatore di entrare ed immergersi tra le fluidità identitarie che pervadono il corpo di Pink; l’io si pluralizza consentendo alla protagonista del clip di trasformare e moltiplicare i propri sé. L’inflazione di segni (sign-flation) proveniente dai flussi delle comunicazioni di massa, dalle mode, dalla metropoli e dalle sue architetture (visualscapes), viene assorbita dal corpo poroso della cantante che diventa un corpo inquieto, mai fermo, un corpo-rebus che osserva e si lascia osservare.
Non solo. L’universo creato da Dave Meyers per questo videoclip dissolve le distinzioni tra ciò che vive e ciò che è inanimato, è feticista poiché unifica le separazioni; il corpo di Pink è sempre interconnesso con altri corpi organici od inorganici, assorbe i codici visuali dell’altro per trasformarsi senza pause.
Quello di Pink è un corpo sena fine, che non termina mai, sterminato…Nella metropoli comunicazionale tutto ruota intorno al corpo, un corpo che non è mai naturale ma è sempre culturale.