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APPROFONDIMENTI

Il caso boliviano: un altro regime illiberale?

12/09/2006

Il caso boliviano: un altro regime illiberale?

Mentre il caso cubano non lascia ancora trapelare notizie e fonti certe, nella regione latino/americana molti assetti sono definiti, ma ciò non può essere tradotto sempre come simbolo di stabilità.
Se per un certo verso in Cile, il Brasile e in Uruguay i segni di un consolidamento democratico sono visibili e le riforme economiche hanno preso piede e hanno permesso di collocare i suddetti paesi tra le democrazie di sinistra più moderate della regione, la Bolivia negli ultimi mesi ha dimostrato di seguire altri modelli. Uno su tutti: il Venezuela di Chavez. Vediamo perché.
Prima delle elezioni presidenziali boliviane che hanno sancito il 18 dicembre 2005 la netta vittoria di Evo Morales e del MAS (Movimento al Socialismo), la confusione aveva fatto da padrona in terra andina.
Tre presidenti, Sanchez de Lozada prima, Mesa e Rodriguez ad interim, traghettatore verso il trionfo di Morales, avevano cercato di contenere le problematiche interne, tentando da una parte di arginare le proteste dei settori della popolazione più poveri (purtroppo molto numerosi) , e dall’altra di attuare delle politiche economiche vicine alle richieste del FMI, come ad esempio le privatizzazioni, iniziate sin dal 1996 con il passaggio quasi totale dal pubblico al privato dell’azienda leader degli idrocarburi, l’YPBF.
Il risultato, come prevedibile, è stato fallimentare. Mesa e in parte de Lozada, sono stati considerati dalla popolazione andina dei doppiogiochisti, dei traditori al servizio della macchina statunitense.
Ecco che, in mezzo alle incertezze che hanno condotto la Bolivia dal 2002 al 2005 ad un’instabilità politica , ad approfittarne è stato il leader populista che più del 60% della popolazione si aspettava, che la popolazione indigena fremeva di accogliere a braccia aperte.
Evo Morales non è però una figura nuova nel sistema politico boliviano e anzi era già entrato nel Parlamento anni addietro, espulso però da De Lozada nel 2002.
Allora però non godeva di un appoggio popolare così evidente e soprattutto il caos politico non imperversava così drasticamente nel paese andino.
Ben presto però escludere completamente dalla vita politica i partiti indigeni (sempre più numerosi) e più vicini al nazionalismo economico si dimostrò una scelta poco felice e infruttuosa, tanto che le proteste popolari e gli scontri tra forze civili e militari divennero progressivamente incontrollabili e i presidenti dovettero irrimediabilmente dimettersi.
Ora, a più di sette mesi dalle elezioni e a sei dalla sua nomina ufficiale, qualche bilancio si può trarre. Evo Morales, come si poteva facilmente immaginare, ha conferito un volto al paese ben diverso rispetto alle precedenti presidenze.
Il leader cocaleros, strenuo difensore dei coltivatori della foglia di coca e delle tradizioni e culture dei aymaras, quechua, mojeños, chipayas, ecc… si è concentrato soprattutto su due fronti.
Primo. I rapporti con organizzazioni internazionali considerate dal neopresidente e dal suo stesso partito filo/statunitensi come il FMI o la BM dovevano essere progressivamente eliminati, sfruttando al meglio le risorse disponibili sul territorio e combattendo la povertà tramite lo strumento della nazionalizzazione.
La realizzazione di questa sua strategia è passata soprattutto attraverso l’approvazione del decreto 28701 del primo maggio scorso con il quale 26 imprese multinazionali come la francese Total, come l’inglese British-gas, come la statunitense Shell o l’ispanico/argentina Repsol (solo per citare i casi più clamorosi) avrebbero dovuto fare cortesemente le valigie e abbandonare il territorio boliviano. Attuando infatti una nazionalizzazione dell’YPBF infatti le risorse interne nazionali sarebbero aumentate esponenzialmente, suscitando l’inquietudine, la disapprovazione e la rabbia della comunità internazionale.
Secondo. Anche dal punto di vista diplomatico il leader boliviano non ha fatto sconti. Oltre al ridimensionamento delle relazioni con i paesi dei quali erano installate le varie multinazionali sul territorio, Evo Morales ha limitato altresì i rapporti con i paesi considerati nemici, chiudendosi in una sorta di nazionalismo politico.
E’ facile ora, dopo avere descritto brevemente il contesto politico/economico attuale boliviano, evidenziare una sorta di parallelismo con il caso venezuelano, verso il quale Chavez Evo Morales ha affermato spesso di ispirarsi.
Se da una parte la protezione delle fasce più deboli della popolazione può suscitare l’apprezzamento delle organizzazioni sostenitrici della difesa dei diritti umani, un nazionalismo politico ed economico così radicale rischia di condurre il paese in un lungo periodo di crisi che potrebbe far rivivere i vecchi fantasmi populisti o le politiche economiche nefaste degli anni 70/80, timorose e contrarie a qualsiasi forma di liberalizzazione del mercato.
La speranza è riposta in un’apertura politica a più ampio raggio di Morales verso le relazioni internazionali (e forse la recente positiva visita del sottosegretario degli Esteri italiano Di Santo può essere di buon auspicio) e verso delle riforme economiche che però ancora oggi sembrano pura utopia.


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