APPROFONDIMENTI
Ii prestigio della lingua, il commercio internazionale ed il made in Italy
Ultimamente ampio spazio viene dedicato dai mass media alla tematica del Made in Italy ovvero alla necessità di una promozione più incisiva e più efficace del prodotto italiano nei mercati esteri e molti esperti si prodigano a dare consigli sopratutto tecnici affinché ci sia la massima riconoscibilità e distinzione del prodotto nostrano e quindi le esportazioni ne vengano stimolate e sostenute.
I consigli tecnici sono senza dubbio opportuni, ma una volta riconosciuto l’ aspetto qualitativo e distintivo del prodotto è necessario fare un più intenso, se non massiccio sforzo di comunicazione per raggiungere l’ audience obiettivo, per motivarla all’acquisto, come il marketing insegna. Si vuole a questo punto introdurre un argomento che apparentemente non ha nulla o poco a che fare con quanto finora detto ma che, come vedremo, invece ne ha, la lingua.
La lingua ed i suoi orizzonti
La lingua di un paese non è soltanto strumento di comprensione condiviso dai suoi abitanti che si arresta ai suoi confini politici, né espressione meramente culturale, così come non è solo mezzo atto a perfezionare contratti o scambi. E’ tutte e tre queste cose con qualcosa in più.
Quando negli Stati Uniti una persona fa la lista della spesa e scrive “zucchine”, “spaghetti” o “pasta” (sì, proprio ortograficamente così) evoca qualcosa di più ampio della parola in sé, rinvia l’immaginario al paese dal quale queste parole sono scaturite. Allorché studenti di conservatorio giapponesi pronunciano parole come “adagio”, “andante”, “allegro” la loro mente è richiamata dal luogo da cui provengono questi termini.
La lingua è l’ estensione ideale del paese da cui origina, è un ambasciatore invisibile che scavalca confini, evoca immagini, consegna messaggi, raccoglie promesse.
E’ un veicolo capace di attrarre ammirazione, considerazione, stima e, come tale, produrre empatia con effetti collaterali che possono spaziare dal desiderio a visitare quel paese all’interesse concreto verso ciò che il paese produce. Sono questi risultati indotti non trascurabili, né marginali.
La lingua non solo trasmette valori di civiltà, stili di vita, costumi e usi che possono essere adottati altrove nel desiderio di emulazione del paese che la parla, ma può avere (come è già avvenuto) una funzione veicolare e cruciale negli scambi. Si pensi al ruolo del Greco come lingua del commercio nell’antichità, al vasto utilizzo del latino anche dopo il declino di Roma, all’utilità del dialetto veneziano negli scambi commerciali con l’oriente all’epoca della Serenissima, al tedesco come lingua collante per le molte etnie dell’Impero austro-ungarico, all’uso preminente in un recente passato del francese nel mondo diplomatico e nelle relazioni internazionali ed infine alla pervasività e alla “necessità” dell’inglese nel contesto odierno.
Come è facile evincere, le lingue più prestigiose nella storia sono state quelle di quei paesi che si sono proposti nel mondo ruoli di guida o di leadership. “Paese guida o leader” è di per sè una definizione generica ma nella realtà geopolitica odierna definisce un paese economicamente forte, socialmente e culturalmente influente che, come tale, mira ad esportare insieme ai propri valori, concezioni e stili di vita anche … i propri prodotti. Per qualche paese in particolare, la lingua si è rivelata un mezzo più potente che per altri nel realizzare gli obiettivi di paesi leader sopra descritti. In questo senso il ruolo di essa è stato senz’altro fondamentale.
Il trionfo dell’Inglese
E’ il caso dell’inglese. Esso ha iniziato la propria ascesa alla leadership linguistica dalla definitiva vittoria britannica sui mari contro l’Olanda, nel 1697 ( non è fenomeno recente come per lo più si pensa) e, successivamente l’espansione coloniale ne ha stabilito le precondizioni per un suo uso globale. Esso si è diffuso ulteriormente a datare dalla vittoria contro il nazismo (altrimenti in Europa si sarebbe parlato tedesco) per poi diventare lingua internazionale con la crescente diffusione dell’anglo-americano. La vera ragione del trionfo dell’inglese americano oggi è l’affermazione degli USA come potenza mondiale. “Language has everything to do with the power of the people who speak it” (La lingua è strettamente connessa al potere del paese che la parla) afferma in proposito il professor Jean Aitchison. L’inglese è diventata oggi medium globale per essere stata adottato, per convenzione, come lingua franca del trasporto aereo e marittimo, del turismo, del commercio e delle organizzazioni internazionali (ONU, WTO, FMI, FAO, World Bank), dei mercati finanziari ed infine dell’informatica per il vantaggio tecnologico americano. Con l’allargamento dell’ Unione Europea e il progredire della globalizzazione è diventata lingua obbligatoria per la comunicazione infraeuropea, per quei non pochi paesi recentemente entrati nella UE, il cui idioma, soprattutto per ragioni demografiche (scarsa popolazione), dimensioni geografiche (territorio piccolo) è scarsamente diffuso oltre i propri confini.
E l’Italiano?
L’italiano, per ovvi e diversi motivi, non può aspirare a diventare lingua mondiale. Ma allora perché ne parliamo? L’italiano è una lingua il cui interesse e appeal nel mondo sono sorprendentemente alti, tant’è che nella classifica delle lingue studiate si colloca al 4° posto. Questo è un buon motivo per discuterne.
Alla base dello scopo di diffondere la propria lingua c’è certamente il desiderio di trasmettere la cultura di cui la lingua è il principale veicolo. Ma l’apprendimento di essa può avere intuitivamente anche altri scopi di comunicazione più immediati e spendibili. E’ motivo di orgoglio nazionale constatare che c’è un interesse vivo per la propria lingua perché ciò può essere indice dell’esistenza di un contemporaneo e contiguo interesse per il paese medesimo. Se questo assunto è vero, come appare all’evidenza empirica, perché non si affidano compiti di più ampia portata agli istituti nazionali preposti alla promozione culturale? E’ noto che l’Istituto per il Commercio Estero (ICE) svolge la funzione istituzionale di promozione dell’ export di prodotti italiani ma, constatando spesso il gap che dimostra in fatto di promozione, in quanto detto istituto è più concentrato su compiti tecnico-burocratici attinenti alle modalità di esportazione, perché non si delegano compiti di comunicazione in senso promozionale lato ad altri istituti già esistenti? Intendiamo riferirci agli Istituti Italiani di cultura.
Gli Istituti Italiani di Cultura e il Made in Italy
Queste istituzioni, presenti in numerosi paesi stranieri, che già promuovono ed organizzano corsi di lingua, conferenze, incontri culturali, concerti, mostre e simposi potrebbero, in un attività sinergica con quella degli ICE, organizzare anche eventi relazionati alla moda, al design, alla creatività produttiva italiana, in altre parole al Made in Italy. Detti istituti, dopo aver già suscitato interesse verso letteratura, poesia, arte, musica, cinema e scienze patrie potrebbero mettere al servizio del sistema Italia le loro capacità di comunicazione. O questo sarebbe un compito un po’ troppo prosaico per esse? No, questa sarebbe politica culturale in senso globale. Viene in mente in proposito il vecchio leitmotiv inglese “Export or die”(Esportare o morire) adatto come non mai al nostro paese. Probabilmente non è facile quantificare il ritorno economico, ma è stato osservato dagli studiosi, che il Regno Unito ha visto aumentare gli scambi proporzionalmente all’intensificazione dell’ attività dei British Council nei vari paesi. Ed è ormai convinzione diffusa che l’accresciuta visibilità e immagine di un paese, ottenuta con ogni mezzo adatto ad una comunicazione efficiente, può essere un reale sostegno alla politica commerciale e al rilancio delle nostre esportazioni. Pretendere di esportare di più, senza una adeguata, efficace e mirata comunicazione, nella quale un ruolo determinante sia svolto da una dinamica, vivace e flessibile politica culturale in cui uno degli elementi portanti resta la lingua, può risultare una “mission impossible”. Ecco perché nell’attuale delicato momento di congiuntura per l’export italiano forse è davvero appropriato ed opportuno ampliare e ri-orientare le funzioni degli attuali Istituti Italiani di Cultura ( senza che per ciò abbandonino lo scopo di promozione della cultura italiana) perché siano messi in grado di rendere ulteriori e maggiori servizi al paese.