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APPROFONDIMENTI

A “scuola” di reality

08/02/2007

La globalizzazione rappresenta la sfida fondamentale con cui le economie avanzate devono confrontarsi. Il livellamento verso il basso dei salari e del welfare può essere controbilanciato da politiche orientate alla formazione di forza-lavoro qualificata in grado di fornire gli skills essenziali per servizi ad alto valore aggiunto.
Ma gli enti formativi italiani sono in grado di rispondere a questa richiesta impellente? E, soprattutto, davvero è possibile collocare questi lavoratori iper-qualificati? I ragazzi di oggi hanno capito l’importanza della formazione per raggiungere adeguati livelli retributivi e di soddisfazione professionale?
A dire il vero sembrerebbe che i ragazzi italiani non abbiano a cuore le sorti della propria vita lavorativa. O almeno non comprendono il nesso tra istruzione e futuro lavorativo. Secondo l’ISTAT un giovane su tre si ferma alla licenza media [1]. E questo dato di fatto è corroborato dal fatto che soltanto 8 italiani su 100 possiedono una laurea e che lo spirito di iniziativa imprenditoriale dei giovani italiani si attesta al 7% [2].
I nuovi imprenditori, da un lato non possiedono gli strumenti formativi per accedere al sempre più competitivo mercato globale, e dall’altro mancano di risorse finanziarie importanti, nonché dell’accesso al credito [3].
Anche se diamo uno sguardo alla cronaca ci rendiamo conto che gli studenti italiani guardano la scuola con distacco, come un posto dove bisogna andare ma che non ha nessun collegamento con lo status o la crescita professionale. L’istruzione non rientra più tra le primissime necessità delle famiglie a reddito medio-basso e con genitori non laureati. Essa è avversato dalla mentalità giovanile più avvezza alla goliardia e al bullismo. Dedicarsi durante l’orario delle lezioni ad attività quali giocare con il telefonino, mandare sms o ascoltare musica con l’I-pod è segnale di una profonda mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione scolastica, e di una omissione di sensibilizzazione da parte degli agenti di socializzazione primaria come la famiglia. Ma preoccupa soprattutto l’aumento dei fenomeni di bullismo all’interno delle scuole italiane. Quasi otto ragazzi delle medie su dieci hanno conosciuto da vicino atti di bullismo, o perché ne sono stati vittima, o perché lo hanno subito i loro amici. Per l’antropologo Fernando Nonnis il fenomeno è in crescita ed alla sua base ci sarebbe l’indifferenza, che interessa anche i docenti. Lo psichiatra Emilio Lupo crede che l’uso della nuova tecnologia fa vedere e vivere la vita come se fosse un grande gioco o videogioco. “Come la società della comunicazione ti brucia tutto, così succede per la violenza: ti brucia tutto senza che ti assuma le tue responsabilità. La violenza diventa la risposta ai problemi. Coi ragazzi invece bisogna parlare senza fretta e far capire loro l’importanza delle cose”. [4]
Ma è colpa soprattutto del Legislatore e del rilassamento dei docenti. Di recente il ministro Fioroni ha proposto un giro di vite sull’uso dei telefonini nelle scuole [5] , ma doveva essere il buon senso dei docenti e degli stessi studenti a prendere la decisione. Il premio nobel James Heckman vede nell'autonomia degli insegnanti sotto il profilo dei programmi di insegnamento e nella flessibilità degli stipendi in funzione della loro capacità, la soluzione del problema educativo [6]. Il nobel Gary Becker ritiene, a sostegno di questa tesi, che quando ci sono una competizione tra le scuole e una reale parità scolastica, viene meno la carriera burocratica che deprime le motivazioni dei docenti più volenterosi.

In passato si pensava, invece, che una scuola omogenea ma di qualità avrebbe potuto diminuire le disuguaglianze sociali e promuovere la mobilità. Ma non è andata così. Chi ha la fortuna di nascere figlio di genitori laureati e benestanti, ha più possibilità di accedere a posizioni lavorative di alto livello rispetto ai figli di operai [7].

Ma in Italia si assiste ad una curiosa inversione rispetto alle tendenze globali di divisione del lavoro. L’enorme serbatoio di manodopera generica e a basso costo dell’Asia e di altri paesi emergenti, non ha depotenziato l’attività manifatturiera italiana. Di fatto il modello fondato sulle piccole aziende familiari riesce a competere brillantemente con i concorrenti globali. Ma anche le grandi aziende scommettono tuttora sul bacino di manodopera che possono fornire alcune aree italiane. Il paradosso è che oggi ai figli viene consigliato di non intraprendere la tortuosa e rischiosa carriera universitaria, bensì di acquisire esperienza per svolgere al meglio un “mestiere”. E’ frequente che gli operai anche generici percepiscano un salario più elevato rispetto ad un laureato e che abbiano più tutele contrattuali.
Le famiglie meno abbienti hanno effettivamente più avversione al rischio (nel senso di variabilità dei salari) rispetto alle famiglie più agiate. Per i ragazzi svantaggiati, il rendimento della laurea risulta inferiore rispetto ai figli dei laureati, mentre il costo opportunità (in termini di salari perduti per titolo di studio del genitore) è maggiore. È infatti possibile che a parità di titolo di studio, le opportunità di lavoro offerte siano differenziate per famiglia di origine, per esempio grazie alle reti familiari.
Una notevole importanza in questo senso lo riveste il sindacato che, nella sua difesa conservatrice dei diritti di chi è già occupato, ha di fatto creato una casta di intoccabili (soprattutto nella Pubblica Amministrazione [8]) a danno degli inoccupati e di chi è impiegato con uno dei nuovi contratti previsti dalla Legge Biagi. Il sindacato dovrebbe prendersi cura maggiormente degli svantaggiati e di chi non ha le risorse per inserirsi nel mondo del lavoro, anziché dividere l’Italia in una lotta di interessi generazionale tra padri tutelati con un lavoro stabile e figli precarizzati.

Le grandi aziende non lasciano del tutto l’Italia per traslocare in Cina o India poiché qui trovano un terreno più favorevole in termini di infrastrutture, democrazia, risorse qualificate, legalità, volatilità dei marcati finanziari e altro. Tutti questi vantaggi annullano il semplice calcolo aritmetico improntato sul mero costo del lavoro. In realtà ciò che conta è il costo unitario della manodopera, ossia il valore della manodopera occorrente per generare un’unità di prodotto o di servizio. Questo indicatore tiene conto, in ultima analisi, della produttività.
E’ dimostrato che, dove sussiste il binomio lavoratori acculturati ed esperti-macchinari di ultima generazione, in presenza di salari anche elevati, i costi unitari della manodopera risultano nettamente inferiori [9].
La produttività è garantita dalla formazione di buona qualità impartita dagli istituti tecnici. Il sistema formativo italiano “orientato all’appropriatezza” [10], eroga un’istruzione generalista che conferisce allo studente la capacità di apprendere in modo permanente. In seguito l’azienda gli darà tutti gli skills per svolgere al meglio il proprio lavoro.
Resta il fatto che oggi i lavoratori generici si stanno prendendo una rivincita nei confronti dei lavoratori più istruiti. Ma al di là di congiunture favorevoli, la produzione è destinata a lasciare i paesi ad alto costo del lavoro per trasferirsi altrove. Ed in questo contesto che gli studi hanno dimostrato una netta flessione della domanda di forza lavoro semi-qualificata, sia di impiegati amministrativi, sia anche di forza lavoro qualificata per un mestiere specialistico (alle quali i tradizionali interventi formativi erano rivolti). E’ invece aumentato il bisogno di forza lavoro qualificata in modo polivalente e di tecnici. Ma ancor più decisivi sembrano diventati i ruoli di coordinamento, quindi il livello di qualificazione di quadri e management e, per le piccole imprese, la formazione dello stesso imprenditore da un lato, e l’area commerciale (vendita, marketing, relazioni esterne e assistenza al cliente) dall’altro [11]. Per lo più questi sono settori ad alto turn-over, caratterizzati da alta flessibilità e normati perlopiù da contratti a termine oppure legati ai risultati.

In realtà, infatti, esiste un limite insuperabile alla creazione di risorse qualificate e alla loro successiva allocazione. Oggi la stragrande maggioranza dei ragazzi italiani preferisce frequentare un corso di laurea generico-umanistico, piuttosto che uno di carattere scientifico. Le lauree cosiddette “deboli” conferiscono quelle capacità di coordinamento e di managerialità che le società moderne richiedono [12]. Però, purtroppo, la genericità dei programmi di studio rende poco spendibile questo tipo di titolo nel breve periodo. Vi è da dire che comunque la mansioni di tipo tecnico sono relativamente facili da esportare, per cui il mercato potenziale, anche per questi nuovi laureati, è ristretto.
Sfornare tanti laureati senza creare un tessuto produttivo capace di assorbirli, deprime la forza lavoro e crea tensioni sociali. La globalizzazione, inoltre genera un aumento della disparità dei redditi tra chi può accedere ai capitali e chi no, anche a causa del gap culturale.
Il distacco tra competenze culturali e contesto imprenditoriale è più sfavorevole nel sud rispetto al nord. Diplomati e laureati di queste zone non riescono ad accedere al mercato del lavoro e sono costretti a restare in casa senza poter vivere quei passaggi all’età adulta indispensabili per la maturità. Ciò stimola la creazione di una spirale viziosa che non permette la formazione di ulteriori imprenditori. In un rapporto della Banca Mondiale una giovane giamaicana mette a fuoco il senso di impotenza e insicurezza che la povertà infonde nelle persone: “La povertà è come vivere in prigione in schiavitù, in attesa di essere liberati” [13].
E’ proprio questa voglia di liberarsi dalle catene dell’indigenza che spinge gli studenti dei paesi in via di sviluppo verso una maggiore responsabilizzazione. Essi vivono l’istruzione come un mezzo per ottenere riscatto sociale.
Nella società italiana la situazione è, però, profondamente diversa. La carnevalizzazione della vita quotidiana, in cui regna l’irrisione, il capovolgimento, il bizzarro, egemonizza i rapporti sociali e l’immaginario collettivo [14]. Oggi la cultura dominante (e tollerante fino al punto in cui nulla del suo potere viene messo in discussione), può comportarsi come la televisione, ritenendola definitivamente perduta per il compito di rischiarare le tenebre dell’ignoranza [15]. Tutta la nostra società è come il Carnevale, perché tutto è riconoscibile a casistica fissa, come le maschere della commedia dell’arte. L’irregolarità non è più provocatoria ma “ammaestrata”: “la società è l’istituzionalizzazione del carnevale, e il quotidiano ne viene assorbito e addomesticato” [16].
Tale deriva comunicativa è strumentale all’esigenza dei media e della produzione di indurre le persone a desiderare mondi possibili e, quindi, a consumare.
Il reality, che altro non è che una grande sit-com, instilla nelle menti degli adolescenti (e forse anche in quelle di molti adulti) una poco razionale mentalità sedotta dal “tutto e subito”. Arricchirsi in modo semplice e soprattutto, senza meriti, è ormai aspirazione di molti. La scuola non è perciò funzionale a questo tipo di società.




Note

1. Un ragazzo su tre si accontenta della licenza media. Il 31,7% dei giovani si ferma alla scuola dell' obbligo, rinunciando a proseguire gli studi, con il meridione che si aggiudica il primato della scolarizzazione ai minimi livelli. Mentre il record di laureati non si trova più al Centro-Sud ma al Nord. Lo afferma un'anticipazione di TuttoscuolaNews, che ha elaborato dati dell'Istat sul censimento 2001. Da Repubblica.it del 06/02/2005

2. In Italia - commenta il segretario generale di Unioncamere, Giuseppe Tripoli - i giovani si avvicinano tardi al mondo del lavoro. Per aprire un'attività imprenditoriale servono idee, creatività, voglia di rischiare, doti che sicuramente sono nel Dna dei nostri ragazzi in dosi massicce. Ma servono anche risorse economiche e competenze specifiche (tecniche e manageriali). Ciò significa che sono necessari strumenti, anche finanziari, di affiancamento e sostegno soprattutto nella fase di start up e di trasformazione dell'idea in impresa. E serve anche, e questo è un percorso per fortuna già iniziato, un progressivo avvicinamento del mondo della scuola a quello dell'impresa. Fonte Unioncamere-Infocamere, Movimprese. Da Corriere.it del 13/01/2007

3. Molti si chiedono come possa formarsi una sana classe imprenditoriale se, secondo le statistiche, i consumatori di cocaina sono in fortissimo aumento, soprattutto nel ceto medio-alto. Giuliano Amato ha lanciato l’allarme: “In Italia c’è un consumo gigantesco di cocaina, una domanda spaventosa di cocaina”, da Corriere.it del 02/02/2007.

4. Bullismo in crescita. Il germe della violenza, 04/02/2007 da l’Unita.it
Secondo la psicologa Donata Francescato il fenomeno del bullismo è l’anticamera dell’ultrà. Il bullismo sarebbe legato al fallimento scolastico e alla mancanza di figure di contenimento come gli insegnanti di sesso maschile.

5. Da Corriere.it del 29/01/2007.

6. Giorgio Vittadini, Non c’è futuro senza una buona scuola, da Formiche.net del 01/02/2007.

7. Daniele Checchi, Carlo Fiorio, Marco Leopardi, Uguali perché mobili, La Voce del 15/01/2007.

8. Pietro Ichino, A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino,2005. L’autore ripropone, come in una cronaca giornalistica, emblematiche vicende del difficile stato delle relazioni sindacali nell'Italia contemporanea: dal caso dell'Alitalia, dove le hostess sembrano ammalarsi a comando per scioperare anche quando è proibito, a quello del ministro del lavoro che appoggia il sindacato che le organizza; dalle agitazioni che interessano due volte al mese ferrovie e trasporti urbani alla vicenda degli uomini radar, che scioperano anche perché durante lo sciopero non perdono la retribuzione.
Pietro Ichino, I nullafacenti. Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica, 2006. Ichino illustra il progetto dell'istituzione di organi indipendenti di valutazione (0IV) capaci di stimare l'efficienza degli uffici pubblici e dei loro addetti, per consentire il licenziamento nei casi più gravi, ma anche l'aumento delle retribuzioni dei dipendenti che lavorano per due.

9. Suzanne Berger a altri autori, Mondializzazione: come fanno per competere?, 2005.

10. Secondo Regini i sistemi di istruzione e di formazione professionale sono di due tipi. Il primo può essere caratterizzato come “orientato alla ridondanza” (Modello Renano), cioè capace di, e mirato a, produrre un’offerta di lavoro qualificato sovrabbondante, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, rispetto alla domanda effettiva (Rhone-Alpes, Baden-Wurttenberg). Il secondo tipo di sistema educativo e formativo può essere definito come “orientato all’appropriatezza” (Modello Latino), ovvero al relativo adeguamento ex-post ai bisogni esplicitamente avvertiti dalle imprese, anziché alla capacità di anticiparli (Lombardia, Catalogna). Marino Regini, Modelli di capitalismo, 2000.

11. Ibidem. Aris Accornero ritiene che il lavoro oggi è diventato meno maschile-rigido-esecutivo-performativo, e più femminile-fluido-cognitivo-relazionale. I contenuti sono meno manipolativi e più cognitivi, i compiti sono meno esecutivi e più cooperativi, le attitudini sono meno specializzate e più polivalenti. Inoltre il concetto di servizio è diventato una coordinata della produzione. Aris Accornero, Era il secolo del Lavoro, 1997. Si veda anche Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, 1996.

12. Maurizio Sacconi e Michele Tiraboschi, Un futuro da precari?, 2006. Il percorso universitario ha senso a condizione che non sia una scelta scontata o, peggio, subita passivamente. Non tutte le lauree sono uguali, così come neppure tutte le università sono uguali. Una scelta responsabile e consapevole richiede un adeguato orientamento e una corretta informazione. Eppure i nostri ragazzi hanno un’insana inclinazione a concentrarsi nelle lauree “deboli” e a scegliere una sede universitaria “comoda”.

13. Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, 2006.

14. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, 1965.

15. Gian Paolo Caprettini, La scatola parlante, 1996.

16. Umberto Eco, Tutto è segno, ma il segno è tutto?, in Tuttolibri n.5 del 29/04/1975, intervista rilasciata a Furio Colombo.


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