APPROFONDIMENTI
“Aria di neve sul tuo viso”
Ricordo di Sergio Endrigo
Ai tempi felici, e fortunatamente non ancora troppo lontani, in cui preparavo la mia amata tesi di laurea, mi accadeva sovente di imbattermi nel dolente quesito: la canzone è o non è poesia? E i vari esperti mi spiegavano, con passione e dovizia di particolari, il loro punto di vista: certo, la canzone è poesia; “la canzone è parola che dialoga con la musica”, mentre la poesia, così come la studiamo a scuola, i versi intramontabili di Montale o Foscolo, per intenderci, sono poesia che dialoga col silenzio. No, per carità: non scherziamo: canzone e poesia sono arti diverse, linguaggi differenti da non confondere l’uno con l’altro.
Il 7 Settembre è scomparso un grande “artista della canzone”, un uomo che per tutto l’arco della sua produzione ci ha aiutati (forse inconsapevolmente) a dare una risposta a questa domanda, addirittura incidendo un disco, nel 1969, dal titolo “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, con la collaborazione di Vinicius de Moraes, Toquinho e (pensate un po’!) Giuseppe Ungaretti.
Sto parlando di Sergio Endrigo, l’autore di alcune delle più belle canzoni della nostra storia, quali “Aria di neve” e “Te lo leggo negli occhi” (reinterpretate nel 2000 da Franco Battiato) o “Io che amo solo te” e “Vecchia balera”, ma anche di “Ci vuole un fiore” (scritta con l’amico Gianni Rodari) e “La colomba” (su una poesia di Rafael Alberti). Un artista che amava definirsi, più che cantante, “un uomo che canta”.
Nato a Pola (allora ancora italiana) nel 1933, Sergio Endrigo è stato uno di quei cantanti (ricordiamo anche i nomi, tra gli altri, di Luigi Tenco, Umberto Bindi e Bruno Lauzi) che negli anni Sessanta contribuirono a rinnovare la canzone italiana, aprendo la strada a nomi poi illustri (un esempio per tutti quello di Fabrizio De Andrè). Le sue canzoni raccontavano la vita, l’amore, le emozioni, in modo più vicino alla nostra sensibilità e soprattutto meno retorico rispetto a certi brani del passato. Fu, soprattutto, un “cantautore”, parola oggi di moda, che non significa altro che “autore dei propri pezzi”, quello che in francese si definisce “chansonnier”. E non è un caso che abbia citato il termine francese: se è vero, infatti, che uno dei momenti fondamentali della carriera di Endrigo è stato l’incontro con la musica e la poesia brasiliane, e altrettanto vero che ad influenzare le scelte sue e di molti suoi colleghi degli anni Sessanta (penso ancora a Bindi, ma anche a Gino Paoli e a Fabrizio De Andrè) fu la scoperta di Brassens, Brel, in altri termini della “musica d’autore francese”. Scuola per molti “cantautori”, insomma, fu un tipo di canzone che sapeva unire melodie semplici, ma mai banali, a testi dal grande spessore poetico, in grado di raccontare l’amore e la quotidianità dell’esistenza ma anche eticamente e politicamente impegnati.
Maestro in questo nuovo modo di scrivere canzoni, Endrigo ha detto in un’intervista che “canzone e poesia sono due cose diverse. Se io avessi voluto scrivere poesie, avrei sicuramente scritto in modo diverso”. Queste parole, che ho recentemente riascoltato, mi hanno riportato alla memoria una lettera di Fabrizio De Andrè a Mario Luzi, in risposta ad un suo intervento epistolare che apriva un fortunato e approfondito volume dedicato all’artista ligure: “La seguo da innumerevoli anni perché è proprio da uomini come lei che io, e penso molti altri miei colleghi, traiamo insegnamento e suggerimenti continui per migliorare, almeno nella forma, i versi delle nostre canzoni. E c’è anche a motivo, almeno da parte mia, un’aspirazione forse troppo ambiziosa: tracciare la silhouette di un ponte che riesca a traghettare l’attenzione dei nostri simili dalla lingua comunemente parlata a quella scritta dai grandi poeti e narratori ”(1).
Una grande umiltà ma anche una forte consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una coscienza viva del valore e dell’utilità sociale del proprio “mestiere”. Nelle parole di De Andrè e di Endrigo (e in questo caso anche nella già ricordata vita dell’artista di Pola, piena di fortunati incontri con poeti e uomini di cultura quali Pasolini, che l’affiancarono nella stesura di parecchie sue canzoni) mi pare di cogliere il desiderio di aiutare il “dialogo” tra “due arti paritarie”, degne di stare accanto con la stessa dignità, oserei aggiungere “studiate e amate” con la medesima intensità, ma diverse, anche se simili sotto molti aspetti e lontane parenti.
In un mondo che tende a livellare tutto, a rendere tutto uguale, annientando, a volte, il gusto di scoprire la bellezza che si cela in chi non è esattamente come noi vogliamo, o ci aspettiamo, o desidereremmo, mi piace pensare che questa sia la grande lezione che un umile e raffinato artista come Endrigo ci ha voluto lasciare.
E cioè: spero di avervi emozionato, di avervi regalato parole e musica che rimarranno nel vostro cuore, ma ricordatevi anche della poesia, si, di quella che a scuola vi hanno insegnato, magari male, magari di fretta, ma alla quale io stesso ho attinto per donarvi emozioni nella forma d’arte denominata canzone.
NOTE
(1) Da Fabrizio De Andrè,. Come un’anomalia. Tutte le canzoni, (a cura di Roberto Cotroneo), Giulio Einaudi Editore, Torino 1999, p. 275.