6
una condizione necessaria per ogni ordinamento giuridico democratico, che voglia definirsi
tale.
È innegabile che, se volessimo ricondurre tutta la giurisprudenza degli ultimi venti
anni in materia ad una comune idea di fondo, ci accorgeremmo subito che dal 1982, anno in
cui la Suprema Corte con la sentenza 18 ottobre numero 5413 ha posto le premesse per un
ragionamento che nel corso degli anni si è premurata di ribadire costantemente e di via via
specificare, è ravvisabile una tendenza giurisprudenziale ad utilizzare la banca, tramite le
revocatorie in discorso, come ‘ammortizzatore sociale’ delle crisi d’impresa.
Anche se sullo sfondo di una tale scelta può intravedersi l’onorevole intento di far
fronte alle lacune di una delle leggi più datate della Repubblica, ciò non toglie che le somme
erogate dalle banche per effetto delle innumerevoli e fruttuose revocatorie, sono destinate a
ricadere a danno dell’intera collettività mediante una lievitazione dei costi delle operazioni
bancarie, e a creare un eccessivo irrigidimento cautelativo delle banche nei confronti del
settore imprenditoriale, anticipando in tal modo il dissesto di molte imprese, le quali, se
avessero potuto usufruire del sostegno degli enti creditizi, sarebbero riuscite a ritornare ad un
livello normale di economicità e produttività.
Dopo tali considerazioni di ordine generale sul fenomeno della revocatoria delle
rimesse bancarie, tornando all’iter espositivo da me seguito, ho, preliminarmente, illustrato in
termini generali l’azione revocatoria fallimentare. Dopodiché, entrando nello specifico del
tema assegnatomi, sono stati esaminati gli orientamenti giurisprudenziali fino al 1982, anno in
cui, sarà oggetto di specifica trattazione nel corso del lavoro, la Corte di Cassazione ha
compiuto la basilare distinzione fra ‘conto corrente scoperto’ e ‘conto corrente passivo’,
creando così, seppur in maniera ‘artificiosa’, un criterio per poter giungere con certezza alla
distinzione fra rimesse revocabili e non revocabili.
Nell’analisi delle teorie precedenti al leading case del 1982, è stata ricostruita con
particolare attenzione la teoria, elaborata dalla c.d. giurisprudenza milanese, della ‘differenza
tra il massimo scoperto ed il saldo finale’, perché, ad oggi, come si vedrà, una tale possibile
interpretazione viene riproposta ancora in alcune difese delle banche e, ad opinione di parte
della dottrina, sarebbe l’unica risoluzione equa del problema, in grado di non penalizzare
eccessivamente le banche.
Nel proseguo del mio lavoro, ho analizzato tutti gli altri aspetti non considerati dalla
giurisprudenza precedente al 1982. Si tratta di integrazioni giurisprudenziali di non poco
conto, perché, come si vedrà, possono comportare un’estensione o una riduzione degli importi
revocabili in termini anche molto rilevanti.
7
Ho approfondito, in particolare, le questioni inerenti alla determinazione dei tre
possibili criteri di ordinamento del conto ai fini dell’individuazione delle rimesse revocabili (
saldo contabile, per valuta e disponibile), alla possibilità di cumulare diverse linee di credito
(in particolare il rapporto fra castelletto di sconto ed apertura di credito) e alla riconducibilità
di alcune operazioni bancarie (giriconto e pagamenti contestuali alla costituzione di provvista,
le cc.dd. ‘operazioni bilanciate’) nell’alveo dei pagamenti, stabilendone così la loro
revocabilità.
Un ultimo capitolo è stato dedicato ai problemi interpretativi inerenti l’obbligo del
curatore di dimostrare in capo al convenuto la scientia decoctionis del debitore, poi dichiarato
fallito, ponendo particolare considerazione al fatto che nel nostro caso l’accipiens è un istituto
di credito.
È necessaria un’ultima e preliminare precisazione. In questo mio lavoro vi sono molti
riferimenti alle N.U.B. (norme uniformi bancarie), le quali non sono ‘norme’ in senso tecnico,
infatti, non sono emanate da un'autorità legislativa o amministrativa comunque dotata di
potere normativo, ma piuttosto da un'associazione di categoria, l'A.B.I. (Associazione
bancaria italiana, che riunisce la quasi totalità delle banche italiane), priva di potestà
normativa e capace di vincolare i propri aderenti solo attraverso l'adozione di idonei schemi
contrattuali.
L'espressione ‘norme bancarie uniformi’ va privata, quindi, di ogni significato
autoritativo anche nei confronti delle aziende di credito associate, il cui consenso ad adottare
tutte lo stesso schema normativo contrattuale uniforme viene tutt’al più raccomandato
dall'organismo di categoria, ma sicuramente non imposto, potendo sempre ogni banca
avvalersi o meno di tale schema negoziale al quale, inoltre, potranno essere apportate tutte le
modifiche ritenute opportune.
Dunque, l’elaborazione di tali schemi-tipo di condizioni generali, destinati a divenire
parte del regolamento contrattuale fra banca e cliente in seguito alla loro esplicita ricezione
secondo le tecniche di cui all’art. 1341 c.c., assolve esclusivamente ad una funzione di tutela
degli interessi delle banche. Tale sistema garantisce, infatti, agli istituti di credito un risparmio
sui costi per l’elaborazione dei testi contrattuali, grazie all’offerta di modelli affidabili, sia
per il livello tecnico delle soluzioni, sia per l’idoneità a garantire la posizione delle banche nel
contenimento dei rischi connaturati alla loro attività.
8
Senza entrare troppo dettagliatamente nella questione, che esulerebbe dall’argomento
di tale elaborato, bisogna comunque evidenziare che a partire dal 1994, attraverso l’intervento
combinato della Banca d’Italia e dell’AGCM (Autorità garante della concorrenza e del
mercato), vi è stata una progressiva rielaborazione di tali ‘norme’, al fine di eliminare le
clausole ‘squilibrate’ a vantaggio delle banche, e poter così rispettare le direttive ed i
regolamenti antitrust emanati a livello comunitario, a cui anche il mercato bancario deve
uniformarsi.
Ad oggi, più che di N.U.B. bisogna parlare di ‘Condizioni generali relative al
rapporto banca-cliente’, la cui ultima stesura (Circ. ABI, serie legale n. 37, 2 novembre 2001)
è il frutto di un c.d. ‘tavolo di lavoro’ a cui hanno partecipato l’ABI ed alcune Associazioni
dei consumatori; tali condizioni generali di contratto formano un testo nel quale, oltre ad
essere stabiliti i principi riferibili ad ogni tipo di rapporto, sono stati disciplinati i principali
servizi offerti alla clientela, il tutto con l’obiettivo di perseguire il continuo miglioramento dei
servizi offerti.
9
CAPITOLO I
L’AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE
SOMMARIO: 1. La revocatoria in generale. - 1.1. Funzione. - 1.2. Presupposti soggettivi. - 1.3.
Presupposti oggettivi. - 1.4. Effetti. - 2. La revocatoria dei pagamenti di debiti liquidi ed
esigibili.
1. LA REVOCATORIA IN GENERALE
1.1. FUNZIONE
L’azione revocatoria, così come disciplinata agli artt. 2901-2904 c.c., rientra nei
cosiddetti mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale prevista dall’art. 2740 c.c.,
secondo cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni
presenti e futuri. La suddetta garanzia non costituisce un vincolo reale su tutti i beni del
debitore, quindi essa non impedisce che quest’ultimo possa rendere incapiente il suo
patrimonio con atti di alienazione fraudolenti. Proprio per evitare una tale situazione, il nostro
legislatore ha predisposto i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale e, in
particolare, l’azione revocatoria. Tale tipo di azione ha, quindi, una funzione conservativo-
cautelare del diritto del creditore, funzione che si concretizza attraverso la possibilità
concessa al creditore di soddisfarsi sui beni che, usciti validamente dalla sfera giuridica del
debitore, non sarebbero suscettibili di esecuzione in quanto non possono più formare
ulteriormente oggetto della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.
1
Una eventuale
sentenza che pronunci l’inefficacia relativa dell’atto dispositivo, e che, quindi, renda
inopponibile al creditore l’atto compiuto dal debitore, non farebbe automaticamente rientrare
di diritto il bene nel patrimonio del debitore, ma costituirebbe esclusivamente titolo affinchè il
creditore possa assoggettare i beni fuoriusciti alla sua azione esecutiva
2
(art. 2902 c.c.).
1
Così BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Obbligazioni e contratti, Torino, 1989, 20 ss.
2
Sul punto Cass., 22 marzo 1990, n. 2400, in Fallimento, 1990, 790, secondo cui l’azione revocatoria
“non ha scopi restitutori, né nei confronti del debitore, né del creditore istante, ma tende unicamente a restituire
la garanzia generica assicurata a tutti i creditori e quindi anche a quelli meramente eventuali”.
10
Da tale azione generale, che, come abbiamo detto, mira a ristabilire la garanzia
patrimoniale lesa dall’atto del debitore, e, dunque, a ripristinare quella capienza patrimoniale
che l’atto soggetto a revoca ha fatto venire meno, o comunque diminuito, dobbiamo
distinguere l’azione revocatoria fallimentare, la quale presuppone, invece, l’esistenza di una
situazione patologica preesistente all’atto, la c.d. insolvenza, che avrebbe già dovuto
comportare la dichiarazione di fallimento. Essa riguarda, pertanto, gli atti compiuti
dall’imprenditore commerciale in un tempo nel quale non si trattava più di conservare una
garanzia patrimoniale, a quell’epoca normalmente già svanita, quanto, piuttosto, di trarre le
conseguenze dall’esistenza del vincolo di indisponibilità che l’insolvenza determina sul
patrimonio del debitore. Oltre a tutto ciò, la revocatoria fallimentare si differenzia dalla
revocatoria ordinaria per: a) una maggiore facilità di prova, infatti, mentre nella revocatoria
ordinaria ogni onere probatorio incombe sul creditore-attore, in alcuni casi di quella
fallimentare, ad esempio l’art. 67, comma 1, l.fall., una volta provata dal curatore l’esistenza
storica dell’atto, scatterà un sistema di presunzioni tale per cui sarà il convenuto a dover
provare la non conoscenza dello stato di insolvenza del fallito al momento di compimento
dell’atto al fine di evitare la revoca dello stesso; b) un più esteso ambito di applicazione
oggettivo, infatti, a differenza di quanto accade nella revocatoria ordinaria, sono revocabili i
pagamenti coattivi, i pagamenti di contributi agli enti previdenziali
3
ed i pagamenti effettuati
alla pubblica amministrazione
4
; c) un più esteso ambito di applicazione soggettivo, infatti la
revocatoria fallimentare giova a tutti i creditori, al contrario di quella ordinaria che giova
solamente al creditore che la esperisce; d) una diversità di presupposti, infatti fra le due
azioni vi è una divergenza nell’interpretazione del c.d. consilium fraudis, in quanto,
nell’ambito fallimentare, tale requisito è ridotto alla conoscenza, presunta ex lege
5
, da parte
del debitore del proprio stato di insolvenza, mentre, nell’ambito ordinario, risiede nella
consapevolezza che l’atto posto in essere da quest’ultimo arrechi pregiudizio alle ragioni del
creditore
6
; e) una maggiore ampiezza delle conseguenze legali della pronuncia di revoca.
3
Cass., 11 marzo 1976, n. 454, in Dir. fall., 1976, II, 320.
4
L’art. 51, ult. co., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ha invece espressamente escluso la revocatoria
fallimentare per i pagamenti di imposte scadute.
5
Vedi PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, 357.
6
Cfr. PAJARDI e BOCCHIOLA, La revocatoria fallimentare, Milano, 1998,19 ss.
11
Passando ad analizzare più dettagliatamente la funzione della revocatoria
fallimentare, bisogna preliminarmente precisare che tale termine viene inteso, nel linguaggio
giuridico, in due differenti accezioni:
a) come espressione atta a descrivere le conseguenze economiche e sociali della
disciplina;
b) come espressione sintetica atta a descrivere presupposti ed effetti della revoca di
determinati atti rispetto al fallimento
7
.
Nella prima delle due accezioni si possono evidenziare due diversi profili della
funzione della revocatoria. Vi è un primo profilo, c.d. redistributivo, in cui la revocatoria
fallimentare si inserisce nel complesso sistema di ripartizione del danno sociale provocato
dall’insolvenza dell’impresa. Vi è, poi, un secondo profilo, c.d. preventivo, nel quale la
revocatoria fallimentare svolge una funzione di prevenzione generale nei confronti
dell’attività di determinate categorie di creditori dell’imprenditore, per le quali il pericolo
della revoca dell’atto si risolve in una remora al compimento dell’atto stesso.
Per quanto riguarda la seconda accezione, sorgono più problematiche in quanto
dottrina e giurisprudenza sono divise fra una tesi indennitaria ed una anti-indennitaria. La
prima delle due tesi, che è quella, tuttora, prevalente nella trattatistica fallimentare e
costantemente seguita dalla giurisprudenza
8
, ritiene che un atto sia passibile di revocatoria
solo quando abbia apportato un pregiudizio al patrimonio del debitore. Tuttavia, tale concetto
di pregiudizio è nella disciplina della revocatoria fallimentare più ampio rispetto a quello
previsto nella revocatoria ordinaria, in quanto può consistere semplicemente nella lesione
della par condicio creditorum. La seconda tesi, quella anti-indennitaria
9
, ritiene invece che il
7
Cfr. LIBERTINI, Sulla funzione della revocatoria fallimentare: una replica e un’ autocritica,in
Giur.comm., 1977, I, 84.
8
Cass., 26 maggio 1987, n. 4703, in Rep. giust. civ., 1987, voce Fallimento, n. 267; Cass., 28 ottobre
1988, n. 5857, in Fallimento, 1989, 288; Cass., 7 novembre 1985, n. 5405, in Giur. comm., 1987, II, 57; Cass., 4
maggio 1983, n. 3050, in Dir. fall., 1983, II, 628; Cass., 28 aprile 1981, n. 2559, in Giur. it., 1982, I, 1, c. 356;
Cass., 25 giugno 1980, n. 3983, in Foro it., 1980, I, c. 2780.
9
Tesi efficacemente sviluppata da MAFFEI ALBERTI, Il danno nella revocatoria fallimentare, Padova,
1970 e ulteriormente precisata dal medesimo autore in La funzione della revocatoria fallimentare, in Giur.
comm., 1976, I, 362. In giurisprudenza si vedano: Trib. Modena, 9 marzo 1972, in Giur. it., I, 2, c. 613; Trib.
Catania, 9 marzo 1973, in Dir. fall., 1973, II, 757; Trib. Genova, 23 marzo 1988, in Giur. comm., 1989, II, 259;
Trib. Genova, 12 aprile 1988, in Fallimento, 1988, 824 e Trib. Roma, 29 settembre 1983, in Foro it., 1984, I, c.
284.
12
requisito del pregiudizio sia estraneo alla disciplina della revocatoria fallimentare, in quanto
unico scopo di tale disciplina è quello di realizzare una più equa ripartizione delle perdite
fallimentari, individuando come soggetti passivi una cerchia di creditori più ampia rispetto a
quella comprendente i soli creditori insoddisfatti al momento della dichiarazione di
fallimento. Quindi, sempre secondo tale tesi, possono essere assoggettati a revocatoria
fallimentare anche atti che non hanno causato pregiudizio, o, addirittura, che hanno portato ad
un incremento del patrimonio del fallito. Inoltre, il credito del terzo, che per effetto della
sentenza di revoca abbia restituito il bene oggetto dell’atto impugnato, è sempre un credito
pecuniario pari al valore del bene che il terzo è stato costretto a restituire. Le conclusioni a cui
giungono i sostenitori della tesi anti-indennitaria sono razionalizzati sulla scorta di due ordini
di considerazioni:
A) Oggigiorno, l’insolvenza di un’impresa è sempre meno causata da singoli atti
posti in essere dall’imprenditore in pregiudizio delle ragioni dei creditori. Le motivazioni
dell’insolvenza vanno, sempre più spesso, ricercate nella errata strutturazione dell’impresa e
in errori di gestione che portano a produrre a costi non remunerativi. L’imprenditore, prima o
poi, cadrà in uno stato di insolvenza senza che possano essere individuati singoli atti
pregiudizievoli. L’esigenza che emerge, di fronte ad un tale quadro sociale, è quella di
ripartire una perdita che non discende necessariamente dal pregiudizio causato da singoli atti
revocabili, ma si ricollega, in ultima analisi, alla stessa struttura del sistema economico
liberistico, di cui, tale perdita, costituisce un aspetto ineliminabile.
B) La revocatoria fallimentare deve diventare uno strumento atto a premere sui
creditori e, in genere, sui terzi coi quali l’insolvente deve entrare in rapporto per la
continuazione dell’attività di impresa, affinché impediscano, essi stessi, la continuazione
dell’attività all’imprenditore che sappiano insolvente. Preso atto che il porre a carico del
debitore stesso, come accadeva sotto la previgente legislazione, l’obbligo di richiedere il
proprio fallimento si era rilevato un rimedio inefficace, può rivelarsi più efficace lo
scoraggiare i terzi dall’entrare in rapporto con il decotto. Tutto ciò, sottolineano
esplicitamente i sostenitori della teoria anti-indennitaria, non significa affatto condannare
l’impresa al fallimento anche quando l’insolvenza possa essere superata, ma piuttosto serve a
spingere l’imprenditore a ricorrere immediatamente all’amministrazione controllata,
consentendo così che il tentativo di risanamento dell’impresa avvenga sotto controllo e non
sia abbandonato alle unilaterali iniziative dell’insolvente.
13
Tale teoria, pur avendo l’indubbio merito di fornire una giustificazione della
revocatoria più adiacente alla realtà sociale odierna, presta il fianco a diverse critiche.
Innanzitutto a livello sistematico. L’art. 67 l.fall., infatti, è inserito nella sezione “degli effetti
del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori” assieme alla disciplina dell’azione
revocatoria ordinaria di cui il danno è ritenuto pacificamente un presupposto necessario; se
valesse il contrario, cioè se il danno non fosse uno dei presupposti della revocatoria, il
legislatore avrebbe potuto semplicemente retrodatare gli effetti del fallimento sanzionando
l’inefficacia di tutti gli atti compiuti entro tale data. A livello pratico, la tesi anti-indennitaria è
pervenuta a risultati inaccettabili. Ad esempio, una volta sganciata la revocatoria dal requisito
del danno, si è arrivati a sostenere che sarebbero impugnabili non solo gli atti di permuta di
beni equivalenti per valore e per destinazione economica, non solo i pagamenti delle ultime
rate di una compravendita con riserva di proprietà che siano serviti a consolidare l’acquisto di
un bene di valore molto superiore alla somma sborsata, ma, finanche, i pagamenti di quei
crediti, muniti di inoppugnabile diritto reale di garanzia, che sarebbero soddisfatti in ugual
misura anche all’interno del concorso fallimentare
10
. Una simile interpretazione della legge è
inaccettabile: è impossibile sostenere la revocabilità di un atto che abbia addirittura
accresciuto l’attivo; per non dire, poi, delle difficoltà che si incontrano nell’affermare la
revocabilità di talune operazioni in nome di un principio redistributivo, quando si ammette
che all’interno del concorso si sarebbero seguiti gli stessi criteri di ripartizione che le parti
hanno spontaneamente seguito prima del fallimento
11
.
A prescindere da queste considerazioni pratico-sistematiche, le teorie anti-
indennitarie cadono in equivoci logici con radici ben più profonde. Tali teorie, dovendo
trovare, per le ipotesi di revoca previste dall’art. 67 l. fall., un fondamento diverso dal
carattere pregiudizievole dell’atto, hanno creduto di poter risolvere il problema facendo
ricorso alla tesi per cui tale norma creerebbe un cordone di sicurezza attorno all’impresa in
difficoltà, al fine di isolarla dal mercato ed avviarla, nel più breve tempo possibile, verso una
delle procedure concorsuali. Accade così che le maggiori differenze tra la teoria indennitaria e
quella anti-indennitaria non stiano tanto nel criterio seguito per ricostruire il fondamento della
revocatoria, che viene pur sempre ricondotto ad un vincolo di indisponibilità patrimoniale,
quanto nel modo di individuare gli aspetti dell’atto che occorre prendere in considerazione ai
fini dell’impugnativa, e nel conseguente modo di descrivere il meccanismo effettuale
10
Per queste posizioni vedi MAFFEI ALBERTI, Il danno nella revocatoria fallimentare, cit., 66 ss.
11
Cfr. TERRANOVA, Conti correnti bancari e revocatoria fallimentare, Milano, 1982, 139.
14
disciplinato dall’art. 71 l. fall.
Per quanto riguarda la prima differenza, se la dottrina indennitaria si è sempre
preoccupata di accertare il carattere pregiudizievole dell’operazione impugnata, valutandone
unitariamente gli effetti, dando il giusto rilievo anche a quelli vantaggiosi per la massa, per
contro, quella anti-indennitaria si limita a prendere in considerazione il solo effetto dispositivo
dell’atto, anche nell’ipotesi in cui esso risulti bilanciato da un’inversa attribuzione
patrimoniale che abbia incrementato la garanzia dei creditori
12
.
Per quanto concerne la seconda differenza, cioè la diversa interpretazione dell’art. 71
l. fall., la dottrina tradizionale ritiene che tale norma consenta al terzo colpito dall’inefficacia
di insinuare al passivo del fallimento un credito d’importanza pari al valore della
controprestazione a suo tempo effettuata a favore del fallito, attribuendo così alla norma in
questione lo scopo di adeguare gli effetti della revocatoria al danno concretamente subito
dalla massa. Al contrario, le teorie anti-indennitarie affermano che il terzo potrebbe insinuare
al passivo un credito d’importo pari al valore del bene restituito alla curatela ed assegnano,
pertanto, al citato articolo di legge la diversa funzione di ridurre ad un denominatore comune,
costituito dal dividendo fallimentare, tutte le attribuzioni patrimoniali ricevute dai terzi nel
periodo sospetto. Pur partendo da premesse critiche sostanzialmente esatte, le teorie anti-
indennitarie pervengono a conseguenze eccessive ed inaccettabili. Infatti, se è vero che, ai fini
della revocatoria, è irrilevante il pregiudizio arrecato dall’atto alla garanzia patrimoniale, ciò
accade, tuttavia, perché se ne prendono in considerazione gli effetti prevedibili e tipici, non
certo perché sia lecito estrapolare dall’operazione impugnata il solo effetto dispositivo e
fondare su di esso l’intero meccanismo dell’impugnativa. Così, è certamente vero che l’art. 71
l. fall. non ha la funzione di adeguare gli effetti della revocatoria al danno subito dalla massa.
Ma ciò avviene perché ci troviamo di fronte ad un’azione a carattere rescindente anziché
risarcitorio; non certo perché si sono volute ridurre ad un unico denominatore tutte le
disposizioni patrimoniali compiute dal debitore insolvente.
Questi rilievi trovano conferma, sia sul piano sistematico che su quello esegetico.
Accentrare tutta l’attenzione sul solo effetto dispositivo dell’atto impugnato, trascurandone le
caratteristiche strutturali e funzionali, significa, infatti, trattare allo stesso modo, ai fini
dell’applicazione dell’art. 71 l. fall., operazioni della più svariata natura, come possono essere
una donazione ed un contratto a prestazioni sperequate: in tutti questi casi, volendo seguire la
tesi anti-indennitaria, il terzo colpito dalla revocatoria dovrebbe riconsegnare alla curatela il
bene ricevuto dal fallito ed insinuare al passivo un credito di corrispondente ammontare, per
12
V. MAFFEI ALBERTI, Il danno nella revocatoria fallimentare, cit., 176 ss., 239 ss.
15
ottenere la quota di riparto. Un simile risultato interpretativo è, però, inconciliabile con il
nostro sistema: il donatario, anche nell’ipotesi in cui vanti un credito nei confronti del
debitore, non può certo far valere tale pretesa a norma dell’art. 71 l. fall.; né, d’altra parte, il
terzo che ha contrattato a condizioni inique col fallito può pretendere di insinuare al passivo
una posta pari al valore del bene restituito alla massa, ma deve accontentarsi di far valere un
credito di importo pari al minor valore della controprestazione a suo tempo eseguita e sempre
che essa non risulti completamente perduta per la garanzia patrimoniale dei creditori. Oltre
che inammissibile sul piano logico, l’interpretazione dell’art. 71 l. fall., proposta dalle teorie
anti-indennitarie, è smentita dalla stessa lettera della legge che qualifica come “eventuale” il
credito che il terzo può insinuare al passivo, mentre tale non potrebbe essere se davvero esso
trovasse il proprio fondamento nella restituzione del bene revocato alla curatela e se la norma
avesse veramente la funzione di bilanciare l’avvenuto recupero in modo da ridurre ad un
unico denominatore le attribuzioni compiute nel periodo sospetto
13
.
Tutte le segnalate incongruenze si riconducono all’equivoco d’aver voluto portare
alle estreme conseguenze la tesi del vincolo di indisponibilità, senza accorgersi che essa,
attribuendo alla revocatoria una semplice funzione di polizia economica, ossia l’eliminazione
dell’impresa dal mercato, risulta incompatibile con i più complessi obiettivi, di carattere
solidaristico, che si deve prefiggere una tesi redistributiva. Partendo dal presupposto che la
revocatoria serva ad anticipare gli effetti del vincolo fallimentare e prendendo come modello
di redistribuzione il riparto che avviene all’interno del concorso, si è ritenuto che l’inefficacia
agisca solo sulla fase esecutiva delle operazioni compiute nel periodo sospetto dilatando così
lo schema di disciplina proprio della revoca dei pagamenti, con l’effetto di estenderlo a tutte
le ipotesi di impugnativa. Tale modo di intendere la funzione redistributiva dell’istituto è
palesemente riduttivo. L’azione revocatoria è uno strumento più incisivo e duttile di come lo
raffigura la dottrina anti-indennitaria: essa può risparmiare talune operazioni che non risultino
pregiudizievoli per la massa, ma può anche servire a sciogliere la curatela da certi fraudolenti
impegni negoziali, che non hanno ancora trovato esecuzione. In ogni caso gli effetti
dell’azione sono diversi e flessibili
14
a seconda della natura dell’atto e delle concrete finalità
con esso perseguite.
Rilevando, in conclusione, che l’art. 67 l.fall. non ci aiuta comunque a ricostruire il
sistema, né in chiave indennitaria, né in chiave anti-indennitaria, è opportuno sottolineare che
13
Cfr. TERRANOVA, Conti correnti bancari e revocatoria fallimentare, cit., 142.
14
Come d’altronde fa intendere il termine “eventuale”, impiegato dall’art. 71 l. fall. per qualificare la
pretesa del terzo.
16
la giurisprudenza, pur fondando le proprie sentenze sui precetti propri della tesi indennitaria,
vi ha, opportunamente, apportato dei correttivi in chiave anti-indennitaria
15
al fine di
sanzionare comportamenti che in un determinato momento storico sono stati giudicati
riprovevoli. Non dobbiamo, quindi, escludere che in un prossimo futuro la sanzionabilità o
meno di determinati atti possa cambiare
16
.
1.2. PRESUPPOSTI SOGGETTIVI
Costituisce presupposto necessario della revocatoria fallimentare degli atti a titolo
oneroso il fatto che il terzo, avente causa dal soggetto poi fallito, sia stato a conoscenza del di
lui stato di insolvenza. Tale prova, per determinati atti, incombe sul curatore, mentre, per altre
categorie di atti particolarmente sintomatici dell’insolvenza, viene presunta mediante una
presunzione relativa. È, invece, del tutto irrilevante la posizione soggettiva del debitore poi
fallito: a differenza della revocatoria ordinaria, in cui si richiede in capo al debitore la
conoscenza che l’atto posto in essere arrechi pregiudizio alle ragioni del creditore, in quella
fallimentare si sostiene che il consilium fraudis è presunto con presunzione iuris et de iure,
essendo oggettivamente presente in virtù dell’esistenza dello stato di insolvenza.
Per quanto sia opinione prevalente che la scientia decoctionis consista nella
conoscenza effettiva, e non nella mera conoscibilità dell’insolvenza, è, peraltro, pacifico che
il curatore non possa assolvere all’onere probatorio dimostrando direttamente in capo al terzo
la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore poi fallito. Si tratta, infatti, di uno stato
psicologico interno di un terzo contraente, che potrà essere provato in modo diretto, facendo
esclusivamente riferimento alle ipotesi di scuola della confessione e del giuramento decisorio.
Per tali motivi, il curatore, oltre che a prove testimoniali, potrà assolvere il suo onere
probatorio basandosi anche su presunzioni, purchè gravi ed univoche. Il contenuto della prova
15
Si vedano alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione in cui sono chiaramente ravvisabili
molti richiami alle teorie anti-indennitarie, come ad esempio Cass., 16 settembre 1992, n. 10570, in Foro it.,
1994, I, c. 178; Cass., 12 novembre 1996, n. 9908, in Foro it., 1997, I, c. 1460; Cass., 30 marzo 2000, n. 3878, in
Fallimento, 2001, 206; Cass., 19 febbraio 1999, n. 1390, in Fallimento, 1999, 911.
16
Così ARATO in Operazioni bancarie in conto corrente e revocatoria fallimentare delle rimesse,
Milano, 1991, 38.
17
si esaurirà, dunque, nella dimostrazione che tali presunzioni
17
, valutate nel loro insieme,
facciano ritenere, senza alcun dubbio, che il convenuto poteva conoscere, alla data di
compimento dell’atto soggetto a revoca, lo stato di insolvenza della propria controparte.
Nei casi in cui il legislatore ha stabilito l’inversione dell’onere probatorio, ad
esempio per la revocatoria degli atti previsti dal primo comma dell’art. 67, è opinione
concorde della dottrina che il terzo sia tenuto a provare l’effettiva ignoranza dello stato di
insolvenza, non solo la sua obbiettiva inconoscibilità. In pratica, stante l’impossibilità di
fornire direttamente la prova negativa di un atteggiamento psicologico, la prova liberatoria
sarà fornita da presunzioni, ricavabili da obbiettive circostanze esterne, tali da indurre una
persona di normale prudenza ed avvedutezza nella convinzione che il debitore, al compimento
dell’atto, si trovava in condizioni di normale esercizio dell’attività di impresa. Pertanto, la
prova della inscientia decoctionis viene normalmente raggiunta attraverso la prova della
mancanza di obbiettivi elementi rilevatori dello stato di insolvenza e, quindi, attraverso la
prova della sua inconoscibilità
18
.
Altra questione, riguardante i presupposti soggettivi dell’azione revocatoria
fallimentare, molto discussa in dottrina ed in giurisprudenza è se, per l’esperibilità della
revocatoria, sia necessario, o meno, che il terzo conosca la qualità di imprenditore
commerciale del suo contraente poi fallito. Bisogna sottolineare che il problema si pone solo
per l’impugnazione di atti non sintomatici della qualità di imprenditore commerciale del
soggetto che li ha compiuti. Si tratta di casi abbastanza rari, in quanto la maggioranza degli
atti impugnati sono atti di impresa dai quali si evince, senza problemi, la qualità di
imprenditore commerciale del soggetto che li ha posti in essere.
In ordine all’argomento della conoscenza della qualità di imprenditore commerciale
sono ravvisabili tre diverse opinioni dottrinali, supportate tutte da giurisprudenza, sia di
merito, che di legittimità
19
.
17
Gli indici più ricorrenti utilizzati dal curatore per dimostrare l’effettiva conoscenza dello stato di
insolvenza sono: protesti, istanze di fallimento, procedure esecutive, andamento e modalità di svolgimento del
rapporto contrattuale, notizie di stampa, etc…
18
Per una più esaustiva analisi del requisito della scientia decoctionis vedi capitolo VI.
19
V. QUATRARO FUMAGALLI, Revocatoria ordinaria e fallimentare, Milano, 2002, 333.
18
A) Secondo una prima opinione, l’ignoranza della qualità di imprenditore
commerciale non esclude l’esperibilità della revocatoria, ma vale come elemento di prova
della inscientia decoctionis
20
. Tale opinione, che ha avuto un ampio seguito soprattutto negli
anni ’60
21
, è stata recentemente riaccolta da una sentenza della Corte di Cassazione (n° 2540
del 7 marzo 1998
22
) la quale ha espressamente stabilito che “ la conoscenza della qualità di
imprenditore commerciale del soggetto che ha posto in essere l’atto revocando rappresenta
una delle componenti, se non necessarie, quanto meno significative del presupposto
soggettivo della scientia decoctionis e, dunque, costituisce uno degli elementi da valutare
allorché il terzo chieda di provare l’inscientia. Infatti, le esigenze di tutela dei terzi della
certezza dei rapporti giuridici rendono rilevante che il terzo sia consapevole che l’altro
contraente abbia quella determinata qualità soggettiva alla quale l’ordinamento ricollega
l’assoggettabilità alla procedura fallimentare.”
In altre parole, il concetto di insolvenza risulta costituito da due elementi: uno
soggettivo, dato dalla qualità di imprenditore commerciale, e, un altro oggettivo, dato dalla
situazione di impotenza a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Mancando uno di
questi elementi, non vi è giuridicamente parlando, insolvenza. Perché possa ritenersi la
conoscenza dello stato di insolvenza, è necessario che risulti essere nota al terzo la sussistenza
di entrambi gli elementi anzidetti.
Tale opinione è seguita anche dal Maffei Alberti secondo cui uno dei componenti
necessari del presupposto soggettivo della scientia decoctionis è la conoscenza della qualità di
imprenditore commerciale del soggetto che ha compiuto l’atto impugnato, e, quindi, la
conoscenza della fallibilità del medesimo. Da tutto ciò il Maffei Alberti trae la conseguenza
che, se l’atto impugnato rientra tra quelli previsti dal primo comma dell’art. 67 l. fall., il terzo
può opporsi alla revocatoria provando o l’ignoranza dello stato di insolvenza o l’ignoranza
della qualità di imprenditore commerciale, se, invece, l’atto rientra fra quelli del secondo
comma dell’art. 67 l. fall., il curatore deve necessariamente provare la conoscenza sia
dell’insolvenza, che della qualità di imprenditore commerciale.
20
V. Cass., 28 maggio 1975, n. 2166, in Mass. giur. it., 1975, 607; Trib. Milano, 27 gennaio 1972, in
Giur. it., 1973, I, 2, 384; App. Napoli, 29 dicembre 1966, in Dir. fall., 1967, II, 1013.
21
Trib. Firenze, 17 aprile 1965, in Giur. it., 1966, I, 2, 69; App. Roma, 6 aprile 1956, in Dir. fall.,
1956, II, 475.
22
In Fallimento, 1999, 61.
19
B) Stando ad un’altra corrente giurisprudenziale
23
la revocatoria non può essere
contrastata dalla prova dell’ignoranza della qualità di imprenditore commerciale, perché una
siffatta prova, quand’anche venisse fornita, sarebbe del tutto irrilevante, essendo la qualità di
imprenditore commerciale, nella revocatoria fallimentare, assistita da una presunzione
assoluta. A questo proposito, bisogna segnalare un recente orientamento della Corte di
legittimità
24
secondo cui sarebbe irrilevante accertare se della qualità di imprenditore
commerciale fosse consapevole la parte convenuta in revocatoria al tempo della conclusione
dell’atto impugnato, in quanto si tratterebbe di atteggiamento soggettivo non compreso tra i
requisiti occorrenti per l’accoglimento della domanda revocatoria.
C) Secondo una terza opinione
25
, la qualità di imprenditore commerciale del soggetto
che ha compiuto l’atto impugnato è un autonomo presupposto della revocatoria fallimentare e,
come tale, deve essere necessariamente presente al momento del compimento dell’atto.
Affinché l’atto sia assoggettabile a revocatoria fallimentare, è, quindi, necessario che il
curatore provi la sussistenza di tale presupposto. Ciò anche quando la conoscenza dello stato
di insolvenza è presupposto con una presunzione iuris tantum
26
.
23
V. Trib. Napoli, 11 aprile 1968, in Dir. fall., 1968, II, 607; Trib. Roma, 30 novembre 1974, in Giur.
comm., 1975, II, 467; App. Firenze, 16 settembre 1971, in Giur. tosc., 1971, 349.
24
Cass., 12 gennaio 1999, n. 242, in Fallimento, 1999, 563 e Cass., 7 febbraio 2000, n. 1317, in
Fallimento, 2000, 1273.
25
Trib. Milano, 18 dicembre 1961, in Mon. trib., 1962, 1899; Trib. Milano, 13 marzo 1963, in Mon.
trib., 1965, 198; Trib. Firenze, 1 giugno 1970, in Giur. tosc., 1971, 765; Trib. Napoli, 30 aprile 1976, in Dir.
fall., 1976, II, 632.
26
V. Trib. Torino, 2 giugno 1993, in Giur. it., 1993, I, 2, 761.