8
L’arco cronologico di riferimento di questa ricerca va dalla fine
del XIX secolo all’età giolittiana, ponendo nella “grande depressione” di
fine Ottocento il momento discriminante dell’analisi. La crisi agraria è
considerata elemento periodizzante per i suoi caratteri di eccezionalità.
In primo luogo, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, si manifesta in
agricoltura una vera svolta: la recessione si presenta come crisi da
sovrapproduzione, la quale, proprio per la interconnessione
internazionale dei mercati, da fenomeno congiunturale e ristretto diviene
la maggiore preoccupazione degli agricoltori
6
. Inoltre il superamento
della crisi agraria coinciderà con quell’intensificazione e
modernizzazione dell’agricoltura che sono l’oggetto della nostra tesi.
Quell’“immane deposito di fatiche”, che è la Val Padana nella
plastica definizione di Cattaneo, resta ancora una fonte importante per la
storia economica e sociale del nostro Paese. È possibile distinguere nella
pianura del Po una palese diversità di ambiente, di paesaggio agrario e di
relazioni sociali. Tale consapevolezza ha determinato l’oggetto di questo
studio; nel contempo tuttavia si è scelto di circostanziare l’interesse, per
ogni argomento di volta in volta affrontato, soprattutto nell’ambito del
territorio intorno a Bologna. La pianura bolognese, rispetto alla Valle
Padana di cui è parte integrante, presenta una particolarità nell’assetto
agrario: la forte dominanza fino agli anni Cinquanta del Novecento del
sistema mezzadrile, forma di transizione per eccellenza sul piano dei
rapporti sociali e modo di conduzione della terra irrazionale in una
visione di astratta utilità economica.
Nell’Italia settentrionale la nuova aristocrazia terriera, proveniente
dalla borghesia del Risorgimento, tenta di trasformare le proprietà in
grandi imprese agricole e i mezzadri in operai agricoli salariati. Il
contesto in cui questo passaggio epocale si verifica è quello delle grandi
opere di bonifica, che consentono la messa a coltura di nuove terre in cui
è possibile introdurre nuove coltivazioni.
6
PASQUALE VILLANI, Introduzione generale e stato degli studi in Italia, in “Annali
dell’Istituto Alcide Cervi”, 14-15, 1992-1993, p. 13.
9
Dopo il 1870 si registrano risultati positivi sia sul piano dei
rendimenti, sia su quello della valorizzazione del suolo. Ma la crisi dei
prezzi agricoli arresta l’evoluzione. L’inchiesta parlamentare
sull’agricoltura, diretta da Stefano Jacini e pubblicata nel 1886, rivela nel
meridione il ripiegamento generalizzato sulla vecchia associazione tra
allevamento e cerealicoltura estensiva. In Val Padana, invece, il
fenomeno critico della crisi segna il punto di svolta nella direzione della
“nuova agricoltura” di modello anglosassone, ormai da un secolo
propagandata dagli agronomi.
Nel 1913 la Pianura Padana assicura quasi il 60% del prodotto
agricolo lordo nazionale con meno del 20% della popolazione agricola
attiva. I rendimenti di grano e di granoturco sono doppi rispetto all’Italia
meridionale
7
. La rivoluzione agronomica (e in parte agraria) che ha
investito le campagne padane a cavallo tra Otto e Novecento
conducendole a questi risultati rappresenta nella sostanza l’oggetto di
questa tesi.
La rivoluzione agronomica riguarda i mutamenti di carattere
tecnologico, quali nuove colture, nuovi avvicendamenti e rotazioni,
meccanizzazione delle operazioni agricole, uso di fertilizzanti e controllo
genetico delle sementi. La rivoluzione agraria è invece relativa a nuovi
rapporti produttivi in agricoltura, in conseguenza dei quali si trasforma il
mondo contadino: in ultima analisi comporta il passaggio a forme di
agricoltura capitalistica e il tramonto di forme di agricoltura associata –
colonia parziaria, mezzadria – a vantaggio di forme di conduzione diretta
da parte dei proprietari, o attraverso grandi affittuari, di aziende di vasta
superficie con salariati
8
.
Il punto di vista delle innovazioni, la cui introduzione ha
concretamente ha segnato questa trasformazione, rimane centrale nello
svolgimento di questa ricerca, anche quando ci si riferisce all’ampia
7
PIERRE LEON, Storia economica e sociale del mondo, Il Capitalismo 1840-1914, tomo II,
Laterza, Roma - Bari 1980, pp. 508-509.
8
FRANCESCO CAFASI, Ricordi di un mondo che fu. Il lavoro contadino nella pianura Padana
dell’Ottocento. Una struttura rurale industrializzata: “la cascina Lombarda”, in “Rivista di Storia
dell’Agricoltura”, XXIX, n. 2, 1989, p. 45, nota 2.
10
storiografia politica e sociale sulle campagne padane tra Otto e
Novecento, o al dibattito agronomico del tempo.
La prima parte della trattazione è dedicata al mutamento degli
indirizzi colturali dettato dalla congiuntura economica degli ultimi
vent’anni del XIX secolo. Particolare attenzione è riservata al settore
padano sud-orientale dove più visibile fu la trasformazione. Al centro di
questo processo sta l’introduzione della barbabietola da zucchero e più in
generale il nesso tra agricoltura e industria agro-alimentare di
trasformazione. È attraverso questa via che in Val Padana vengono
sanciti il definitivo superamento della crisi agraria e la penetrazione del
capitalismo nelle campagne.
Proseguendo, si tratta delle innovazioni in campo genetico e
chimico che resero possibili i nuovi orientamenti colturali attraverso
l’introduzione dei concimi artificiali. I fertilizzanti sono una tipica
innovazione land saving, particolarmente adatta all’Italia di fine secolo
XIX, in cui il fattore di produzione lavoro certo non scarseggiava
9
. In
questo scenario un ruolo chiave è giocato anche da un ulteriore fattore di
novità nel contesto dell’agricoltura padana: il sorgere di nuove forme di
associazionismo contadino e padronale. In particolare le associazioni dei
proprietari terrieri nei primi anni del Novecento compiono precise scelte
politiche nella direzione del superamento dell’assetto tradizionale delle
campagne. La posizione padronale non è tuttavia univoca: a Bologna
troviamo schierati da un lato i settori più dinamici legati alla conversione
agro-industriale, dall’altra le antiche famiglie custodi dell’assetto
tradizionale della pianura del Reno. La questione del mantenimento della
pace sociale garantita dalla conduzione a mezzadria dei poderi è infatti
connessa alla resistenza all’introduzione delle innovazioni. Orientamenti
conservatori o solo cautamente riformatori rappresentano una costante
dell’atteggiamento di parte della proprietà bolognese, specie d’estrazione
nobiliare.
9
GIOVANNI FEDERICO, L’agricoltura italiana: successo o fallimento?, in PIERLUIGI
CIOCCA, GIANNI TONIOLO, Storia economica d’Italia. 3. Industrie, mercati e istituzioni. 1. Le
strutture dell’economia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 125.
11
Anche all’interno di ciascuno di questi due schieramenti sono poi
riscontrabili atteggiamenti contraddittori: non manca una certa
“curiosità” davanti alle innovazioni anche da parte della nobiltà più
cauta, mentre dall’altra parte, davanti alle ripercussioni della crisi
agraria, non si esita a fare fronte compatto a favore di una politica
protezionistica o ad accantonare le tentazioni di dare vita a un vero e
proprio partito agrario sul modello tedesco.
La ricostruzione del dibattito interno alla classe proprietaria, per
quanto riguarda il Bolognese, passa attraverso la lettura dei periodici
delle principali istituzioni agrarie locali: gli “Annali” della Società
agraria, il “Bullettino” e “L’Agricoltura Bolognese” del Comizio agrario
e il “Bollettino” del Consorzio agrario. Lo scopo che ci si propone è
quello di comprendere la dinamica con cui si compie questa rivoluzione
e fare emergere i nessi che intercorrono tra innovazione contrattuale e
tecnologica. Da questo punto di vista, la Val Padana ha da sempre
attirato l’attenzione degli studiosi come terreno di sperimentazione
empirica. Da una parte sono stati costruiti modelli sociologici che hanno
opposto modernità e aristocrazia. Tutti gli elementi di questo modello
interpretativo trovano qui posto: l’importanza strutturale dell’agricoltura
fino alla metà del XX secolo, il perdurare della proprietà nobiliare anche
all’indomani della dominazione napoleonica, un processo di sviluppo
agricolo di lungo periodo, una conflittualità rurale di dimensioni tali da
indurre parte dei ceti agrari ad abbracciare posizioni reazionarie. D’altra
parte questo schema è stato ribaltato attraverso lo studio di numerosi casi
di assunzione di posizioni apertamente reazionarie nel sostegno allo
squadrismo fascista proprio da parte di imprenditori agrari borghesi
10
.
10
L’abbinamento delle proteste bracciantili e di quelle mezzadrili dell’inizio del nuovo secolo
assume caratteri dirompenti in area bolognese. Un’ampia storiografia ha messo in luce il ruolo
cruciale assunto nelle primissime fasi dello squadrismo fascista dal finanziamento degli
imprenditori agrari bolognesi e ferraresi. Per spiegare la precocità dell’adesione al fascismo dei
conduttori delle grandi aziende della pianura bolognese, Manuela Martini aggiunge una specificità
legata all’ordinamento culturale. I notevoli capitali investiti nella bieticoltura intensiva rendevano
ancor più temibile per i conduttori delle grandi aziende capitalistiche della pianura la perdita dei
raccolti. I poderi mezzadrili della proprietà aristocratica al contrario avrebbero in questo modo
risentito meno della congiuntura politico-sociale, permettendo alla nobiltà bolognese di rimanere
su tradizionali posizioni conservatrici senza divenire protagonista della prima ora del nuovo
assetto autoritario. Cfr. MANUELA MARTINI, Fedeli alla terra. Scelte economiche e attività
politiche di una famiglia nobile bolognese nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1999, 398-399.
12
L’ultima parte della ricerca è riservata alla meccanizzazione dei
lavori agricoli. Quest’aspetto dell’innovazione tecnologica riveste
particolare interesse perché coinvolge diversi aspetti della vita
economica e sociale delle campagne. L’introduzione delle macchine in
agricoltura non significa solo maggiore produttività, ma segna anche un
diverso rapporto tra il lavoratore e l’oggetto del suo lavoro, nascita di
nuove professioni e nuovi conflitti. Emblema di questa fase della
meccanizzazione è la trebbiatrice a vapore. Essa testimonia tra l’altro che
i nessi tra innovazione tecnologica e contrattuale si pongono a volte in
rapporti di causa-effetto di non univoca interpretazione. Va rilevato
infatti che anche all’inizio del Novecento, quando la penetrazione dei
nuovi mezzi di produzione fu più marcata, essa non incise
immediatamente sulla trasformazione dei rapporti produttivi in senso
capitalistico. Al contrario proprio la prospettiva contrattuale di tipo
prevalentemente mezzadrile in cui si inserirono le trebbiatrici a vapore
finì col condizionare pesantemente il potenziale d’innovazione di queste
macchine.
Le migliori lavorazioni sono anche una necessità imposta
dall’impiego dei concimi chimici, perché essi siano efficaci. Le
macchine per la preparazione del terreno, per la semina, per la raccolta e
per la preparazione dei prodotti agricoli sono infatti indispensabili per
trarre un reale profitto dalla maggiore produttività della terra. Si
intrecciano così i diversi momenti della modernizzazione dell’agricoltura
padana: nuove colture, nuovi concimi, nuove macchine e, sullo sfondo,
nuovi rapporti contrattuali e nuove forme associative tra lavoratori e tra
proprietari.
L’innovazione tecnica si inserisce nei processi di modificazione
ambientale e di specializzazione funzionale come un fattore
determinante. La diffusione delle macchine agricole e dei fertilizzanti
artificiali accompagna e anticipa gli esiti della grande trasformazione che
investe le campagne padane nel secondo dopoguerra, decretando da
ultimo la scomparsa del mondo contadino com’era stato fino
all’Ottocento e, per molti versi, dello stesso ambiente, che ne era stato il
teatro.
13
CAPITOLO 1
GEOGRAFIA E ISTITUZIONI AGRARIE
PADANE. LE INNOVAZIONI COLTURALI
1.1 Introduzione: geografia padana
Con i suoi 46.000 km², la Val Padana è la maggiore pianura
alluvionale dell’Europa continentale e rappresenta il 13% dell’intera
superficie coltivabile nazionale
11
.
Il territorio padano si divide in tre zone: quella della pianura
irrigua, quella delle terre asciutte (o vecchie) e quella delle terre di
recente bonifica (o nuove). La pianura irrigua si estende prevalentemente
tra Lombardia e Piemonte e comprende le province di Milano, Lodi,
Pavia, Novara, Vercelli e parte del cremasco e del cremonese. La bassa
pianura lombarda già dalla prima età moderna con un sistema di
irrigazione artificiale dei campi si era avviata a diventare una delle aree
ad agricoltura più prospera e avanzata d’Europa. Il modello si estende
solo successivamente alla pianura piemontese, dando vita a una forma di
agricoltura intensiva fondata prevalentemente sulle foraggere e sul riso.
Questa fascia padana diventa così la terra delle marcite e delle risaie, dei
pioppeti e del gelso. Il paesaggio tipico è quello della “larga”: ampia
distesa contornata da pioppi con al centro la cascina lombarda, il grande
fabbricato curtense, chiuso da tre lati e col quarto aperto verso i campi
12
.
Tra Otto e Novecento la valle del Po è al centro di un grandioso
processo di trasformazione dei suoi assetti territoriali e del suo paesaggio
agrario. L’impiego delle idrovore a vapore e l’impegno finanziario dello
stato unitario in seguito alla promulgazione della legge Baccarini del
1882 consentono di realizzare quelle bonifiche che dall’età moderna
erano state tentate con risultati solo parziali nel suo versante sud-
orientale.
11
Cfr. www. regione.emilia-romagna.it/geologia
12
F. CAFASI, Ricordi di un mondo che fu..., cit., p. 45, nota 1.
14
La modificazione ambientale che interessa la Bassa padana,
specialmente emiliana, con questo processo rappresenta la prima e
fondamentale innovazione delle campagne padane, in seguito alla quale
saranno possibili quelle trasformazioni colturali e tecnologiche che sono
l’oggetto di questa tesi.
La legge Baccarini segna una frattura coi precedenti modelli di
intervento nella regolazione del regime delle acque. Con al suo centro la
lotta alla malaria e l’intervento dello Stato, la legge sembrava essere
orientata ad affrontare i mali del Sud, ma in realtà i principi tecnici
ispiratori dell’azione di bonifica erano il tipico prodotto di una
concezione “padanista”, non in grado di affrontare e governare la
specificità della disgregazione idrogeologica meridionale. Al contrario,
al Nord l’azione di bonifica si poneva a integrazione della già
consolidata tradizione di sistemazione idraulica. Codificando queste
pratiche, la legge Baccarini finì per isolare la bonifica da ogni altra opera
di difesa e di utilizzo delle acque. Essa contemplava, infatti, una pura
opera di prosciugamento, nel presupposto che la bonifica agraria
(colonizzazione) seguisse tramiti i meccanismi spontanei dell’iniziativa
privata
13
.
Per questa via, in Val Padana alla soglie della prima guerra
mondiale si sono già ottenuti risultati rilevanti. È il caso della provincia
di Ferrara che, nel 1915, su una superficie complessiva di 264.000 ettari
ne conta 100.000 bonificati, coltivati a frumento, canapa, barbabietola da
zucchero e a prati artificiali. La stessa cosa si ripete per la bassa pianura
bolognese (86.000 ettari) e ravennate (67.000 ettari) che dopo secoli di
sconvolgimenti idraulici trovano un assetto definitivo
14
.
Nel Bolognese, ai Consorzi di scolo, in cui era stata divisa la
pianura tra i proprietari in età napoleonica, si sostituisce una visione più
organica, in cui vaste estensioni di terreno potevano appunto essere
riscattate per nuove colture.
13
ALDINO MONTI, Le politiche nazionali agricole dal 1900 al 1945, in AA.VV., L’Italia
agricola nel XX secolo. Storia e scenari, Meridiana libri, Corigliano Calabro (Cs) 2000, pp. 68-69.
14
GIORGIO AMADEI, Bonifica, colonizzazione e riforma nel XX secolo, in Ivi, p. 179.
15
Questa più ampia prospettiva, assieme a larghi finanziamenti
pubblici, porta a un abbandono delle pratiche tradizionali di
manutenzione idraulica dei campi, con ricadute a breve termine anche
dal punto occupazionale
15
.
Gli investimenti che arrivano in provincia sono cospicui: in base
al riordinamento delle disposizioni in materia di bonifica, col testo unico
del 1900, sono compresi nelle bonifica di prima categoria ben 6 dei 7
circondari in cui era suddivisa la provincia
16
. L’impatto è di grandissima
portata: Porisini calcola che nel 1909 i rendimenti del frumento per
ettaro nelle maggiori aziende di bonifica superino i 20 quintali, contro
una media nazionale di circa la metà
17
.
Inoltre, attraverso la bonifica, si era realizzato un capovolgimento
nelle gerarchie nazionali dei rendimenti unitari del grano, di cui fu
protagonista l’Emilia Romagna. Con una resa di 35 quintali ad ettaro,
Ferrara passa dal terzo al primo posto scalzando Milano. Segue Bologna,
fino ad allora al quarto posto, che soppianta Pavia, mentre Ravenna da
ventinovesima nella fase precedente la bonifica diventa quattordicesima
e Rovigo dal decimo raggiunge il quinto posto
18
.
15
IGNAZIO MASULLI, Crisi e trasformazione: strutture economiche, rapporti sociali e lotte
politiche nel Bolognese (1880-1914), Istituto per la Storia di Bologna, Bologna, Grafiche Galeati,
Imola,1880, pp. 65-66.
16
Ivi, p. 66, nota 27.
17
BRUNA BIANCHI, La nuova pianura. Il paesaggio delle terre bonificate in area padana, in
PIERO BEVILACQUA (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. 1,
Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, p. 476.
18
Inoltre, nel corso dell’età giolittiana, oltre al testo unico del 22 marzo 1900 sui nuovi criteri di
classificazione delle opere, ben 23 interventi legislativi arrivarono a stanziare oltre 200 milioni di
interventi pubblici per le bonifiche. Questo ingente investimento statale consentì nel medio
periodo un parziale rimodellamento idrogeologico dell’area. Cfr. GIUSEPPE BARONE, La
modernizzazione italiana dalla crisi allo sviluppo, in GIOVANNI SABBATUCCI, VITTORIO
VIDOTTO (a cura di), Storia d’Italia, 3. Liberalismo e democrazia 1887-1914, Laterza, Roma -
Bari, 1995, p. 315.
16
1.2 La nuova agricoltura: il modello inglese
Nel XVIII secolo in Inghilterra, se non altrove, una rivoluzione
agraria ha per molti aspetti posto le premesse della rivoluzione
industriale. Nuovi metodi e nuove tecniche di coltivazione hanno
assicurato un forte aumento dei rendimenti. In un primo tempo
l’industrializzazione e la connessa urbanizzazione non sottraggono però
all’agricoltura importanti quote di manodopera: anche in Gran Bretagna
la nuova agricoltura labour intensive, rimane fin verso gli anni Quaranta
una forte consumatrice di lavoro umano
19
.
L’Inghilterra raggiunge, verso il 1780, una densità di 50 abitanti
per km². Per la prima volta un uomo è in grado di nutrirne tre altri, un
lavoratore della terra riesce a fornire cibo a dodici o quindici suoi simili.
Ma il grano è solo un aspetto del problema, i progressi dell’allevamento
sono ancora più rapidi e più significativi. La produzione di carne ovina e
di lana aumenta più velocemente della produzione cerealicola, mentre
quella di carne bovina più lentamente. Solo a partire dal XIX secolo sono
possibili lo sviluppo sostenuto e l’esplosione demografica.
Più che di innovazione in senso stretto, in un primo tempo sembra
essersi trattato di trasmissione delle conoscenze. Si considerino le rape:
gli agronomi e i grandi proprietari inglesi sono stati indotti a utilizzarle
dall’esempio fiammingo. Ma è stato necessario circa un mezzo secolo di
tentativi prima che trovassero ampia diffusione. La grande rivoluzione
deve essere cercata nel prato artificiale, doppio produttore di proteine:
fornitore d’azoto al suolo e di nutrimento per il bestiame.
La nuova tecnica ha progredito lentamente nell’Inghilterra del
XVII secolo, poi è esplosa nel XVIII. Se l’Inghilterra è il motore
dell’Europa agricola, il Norfolk ne è il modello, come ha ripetuto il
grande agronomo Arthur Young. Nel 1794 il Norfolk esportava, infatti,
più grano di tutto il resto dell’Inghilterra.
Verso la metà del XVIII secolo anche l’Europa continentale
scopre il Norfolk.
19
LEON, Storia economica e sociale del mondo..., cit., p. 479.
17
La prima descrizione entusiasta di questo tipo di agricoltura si
legge, in Francia, nell’Encyclopédie (1754). Da allora le innovazioni
giungono sempre più a interessare tutta l’agricoltura del continente.
Nella seconda metà del XIX secolo si completa l’arretramento definitivo
del maggese: in tutta l’Europa centrale si diffonde la barbabietola da
zucchero, coltura che non esaurisce il suolo, gli dà aria per le frequenti
sarchiature che richiede, e assicura un completamento dell’alimentazione
del bestiame con i suoi sottoprodotti. Per tutte queste virtù essa diventa
la base delle rotazioni scientifiche dapprima in Germania e nell’Europa
nord-orientale (Russia meridionale compresa). Se in Francia nel 1882 il
maggese, pur ridotto della metà dal 1840, resta pari a un quinto delle
terre coltivabili, ciò dipende anche dalla più lenta diffusione della
barbabietola per gli interessi dei piantatori coloniali di canna da
zucchero. La diffusione dell’erba medica sui suoli calcarei e del trifoglio
su quelli silicici introduce la rivoluzione foraggera nelle rotazioni e
completa il “sistema di colture alternate” (secondo la definizione del
1829 dell’agronomo francese Roville Mathieu de Dombasle), realizzato
in tutta l’Europa centro-occidentale sul modello inglese
20
.
Le trasformazioni del Norfolk si spiegano con un lungo passato.
La spiegazione principale di questa importante mutazione tecnologica è
di ordine sociale. È impossibile non accennare alla famosa questione
delle enclosures. Il diritto di recintare, che si accompagna a una
suddivisione dei terreni comunali, segna la fine di un’età agricola, l’età
dell’openfield e della rotazione triennale
21
, che era stata la grande
conquista, nell’Europa occidentale, del Medio Evo.
20
Ivi, p. 484.
21
L’openfield è un sistema di organizzazione dello spazio agrario “a campi aperti”. Questo forma
di agricoltura estensiva caratterizzava vaste regioni dell’Europa centro-occidentale e si associava
a forme di proprietà collettiva della terra e di insediamento accentrato in villaggi. L’openfield ebbe
origine nei luoghi in cui i suoli erano poco fertili ed avevano bisogno di un’abbondante
letamazione. Intorno ai villaggi si estendevano terre comuni, suddivise in strisce allungate,
assegnate in lavorazione alle famiglie. I campi erano coltivati col sistema della rotazione triennale
(colture cerealicole e maggese). Nei campi a riposo si faceva pascolare il bestiame,
prevalentemente ovino. La rotazione triennale, detta anche a “tre campi”, prevedeva una divisione
del terreno in tre parti, su cui si succedevano, nell’arco di tre anni, il grano autunnale, il grano
primaverile (oppure l’orzo) e il maggese, passando dal cereale più esigente ad uno meno bisognoso
di sali nutritivi ed infine al riposo. Cfr. B. H. SLICHER VAN BATH, Storia agraria dell’Europa
occidentale (500-1850), Einaudi, Torino 1972, pp. 77-78.
18
Il nuovo assetto agrario delle campagne inglesi è caratterizzato dal
bocage, un sistema di organizzazione dello spazio agricolo “a campi
chiusi”.
Il primo timido avvio delle enclosures si colloca tradizionalmente
nel XVI secolo. Esso è strettamente legato a processo socio-religioso che
porta a una diminuzione del peso del regime signorile. Il movimento
prosegue sin verso il 1580, poi ricomincia all’inizio del XVIII secolo.
Nel 1850 il paesaggio agrario inglese è ormai completamente cambiato.
Per questa trasformazione, che è considerata una condizione
imprescindibile del progresso tecnico, la classe dei grandi proprietari
beneficia dell’appoggio dello Stato, grazie a ripetuti interventi legislativi
del Parlamento in favore delle recinzioni.
La scomparsa della “classe media contadina”
22
, la crescita di una
classe di affittuari capitalisti che, accanto ai grandi proprietari, sono
estremamente attenti al progresso tecnico, concepito come fonte di
profitto, sono i segni sociali più evidenti del cambiamento.
Le enclosures nel Norfolk cominciarono prima che altrove. Come
nel resto dell’Inghilterra, verso la metà del XVI secolo nel Norfolk la
proprietà nobiliare inizia a percepire dalla sua terra una rendita in denaro.
Questa evoluzione favorì indubbiamente un nascente individualismo
agrario, che spinse verso “produzioni commerciabili”
23
. Le costrizioni
comunitarie sono rotte.
La centralità del Norfolk nell’economia agraria inglese ha dunque
origini antiche: sin dal XVI secolo dalla produzione del Norfolk
dipendeva l’approvvigionamento di Londra. I miglioramenti tecnologici
importanti si pongono tra il 1660 e il 1680. Essi consistono nella
marnatura e nella concimazione sistematica con letame ben conservato,
che mantiene il proprio potere fertilizzante; nell’inserimento nelle
rotazioni di colture in grado di assicurare una abbondante alimentazione
al bestiame durante l’inverno; nel precoce abbandono nelle grandi
aziende agricole del Norfolk della rotazione triennale.
22
In inglese yeomanry
23
In inglese money crops.
19
In più, il clima umido e la particolare conformazione geo-
podologica del terreno giocano certamente in questa evoluzione un ruolo,
il cui peso emergerà dal confronto col caso padano.
A questa situazione privilegiata vengono ad aggiungersi le
influenze esterne, legate a un intenso sistema di comunicazioni
marittime. Le Fiandre e l’Olanda avevano realizzato delle trasformazioni
locali senza mai ottenere un effetto generalizzato di trasmissione. Queste
esperienze conosciute, imitate e reinterpretate in Inghilterra si allargano a
macchia d’olio in un’Europa privilegiata che costeggia il mare del Nord:
Norfolk, Suffolk, Kent, Fiandre, Olanda, ma anche Hannover,
organicamente legato all’Inghilterra dall’avvento della dinastia di
Hannover nel 1714. Da lì Charles Townshend diffonde la rapa, che, con
il trifoglio e il prato artificiale, è il “vangelo” della nuova agronomia
24
.
“Nuova agricoltura” diventa così sinonimo di “rotazione di
Norfolk”. L’ avvicendamento colturale previsto era di questo tipo:
1. Pascolo annuale. Il pascolo annuale è quello seminato a erba e
trifoglio per un periodo temporaneo. Il foraggio veniva brucato dal
bestiame e aveva lo scopo di accrescere la fertilità del terreno grazie
all’azoto fissato dai noduli delle radici del trifoglio, al letame degli
animali al pascolo e infine alla massa di vegetazione sovesciata
dall’aratro che rivoltava la terra e seppelliva le radici e gli steli brucati
del foraggio, durante il dirompimento.
2. Il periodo delle bietole. Le derrate potevano essere rape o rape
svedesi per l’alimentazione dei bovini, degli ovini e dei suini, patate per
l’alimentazione umana, bietole da foraggio, e vari tipi di cavolacee, che
non sono vere e proprie bietole, ma che hanno lo stesso posto nella
coltura. L’effetto di questo periodo era quello di accrescere la fertilità del
terreno, perché quasi tutto il concime di fattoria prodotto nell’azienda
veniva versato nel terreno, e perché durante la coltivazione si
provvedeva anche alla ripulitura dell’appezzamento dalle erbe infestanti.
24
PIERRE CHAUNU, La civiltà dell’Europa dei lumi, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 275-308.
20
Le coltivazioni a bietole sono coltivazioni di pulizia, perché,
piantate in riga, richiedono un lavoro ripetuto di sarchiatura.
Il terzo effetto era quello di produrre derrate che consentivano di
immagazzinare i raccolti estivi per l’alimentazione invernale.
3. La fase a cereali. Questa cominciava in autunno, con la semina
di frumento, leguminose, orzo, avena e segale. Beneficiava della fertilità
del terreno ottenuta con la fase a foraggio e la fase a bietole e della
pulizia del terreno dopo la fase precedente. Costituiva il raccolto
principale per il coltivatore, quello che gli permetteva un guadagno. Le
leguminose, per lo più fave cavalline, venivano utilizzate per
l’alimentazione dei cavalli e del bestiame.
4. La fase dei cereali di primavera. Poteva trattarsi di grano a
semina primaverile, ma era più spesso orzo. Assieme all’orzo, si
sottoseminavano erba e trifoglio. Man mano che l’orzo cresceva,
crescevano anche erba e trifoglio, e quando l’orzo veniva raccolto,
restava un tappeto d’erba e di trifoglio da pascolare in primavera e in
estate, o da falciare per farne fieno, o anche per il pascolo invernale.
L’orzo serviva soprattutto per l’alimentazione del bestiame, ma la parte
migliore veniva trasformata in malto per la produzione della birra. La
paglia dell’avena e dell’orzo era somministrata al bestiame, la paglia del
grano veniva messa nelle lettiere per ottenere tonnellate di concime da
fattoria (la migliore composta che sia mai stata inventata), la paglia della
segale era utilizzata per le stuoie, mentre i tuberi venivano dati per lo più
in pasto al bestiame bovino od ovino; grano, orzo e malto, carne bovina e
lana erano destinato ai mercati urbani.
Verso la fine del XVIII e nel XIX secolo un appezzamento del
Norfolk coltivato in questa maniera forniva spesso fino a quattro
tonnellate di frumento per ettaro, senza l’impiego di sostanze chimiche.
Ciò stimolò negli agricoltori più avanzati l’illusione dell’universalità del
modello inglese e di una sua facile trasposizione in ogni contesto
geografico.
21
Come l’accusa di non avere imitato l’high farming inglese – cioè
la stretta integrazione tra produzione cerealicola ed allevamento
attraverso l’uso di piante da foraggio in rotazione – è un topos nella
letteratura agronomica ed economica tra Otto e Novecento, così oggi la
tendenza storiografica prevalente è su questo punto decisamente
“revisionista”. Si sostiene, infatti, che al posto delle foraggere era stato
introdotto in Italia il mais, più adatto al regime di scarsa irrigazione delle
campagne italiane e coltura che richiede un impiego di manodopera
molto maggiore
25
.
Ciò può essere vero dal punto di vista dell’abolizione del
maggese. Ma nell’Ottocento non era più questo il problema. Già da
tempo il mais era, infatti, entrato in rotazione nella Padana asciutta non a
specializzazione canapicola. Ma, come vedremo, a fare la differenza per
la modernizzazione dell’agricoltura italiana nel periodo in esame sarà il
collegamento con la nascente industria di trasformazione delle nuove
colture che si andranno a introdurre. E questo nesso non si dava certo
con il granoturco.
La contestazione dell’assunzione del livello di produzione
granaria e della dotazione di bestiame delle aziende agricole come unici
rivelatori di sviluppo agrario può essere dunque utile a comprendere la
razionalità di forme produttive pre-capitalistiche (come l’equilibrio
dell’abbinamento tra agricoltura estensiva e transumanza nel latifondo
meridionale), ma certo non a spiegare la dinamica del mutamento in
senso agro-industriale dell’agricoltura italiana a partire dagli anni Ottanta
dell’Ottocento.
25
G. FEDERICO, L’agricoltura italiana..., cit., pp. 122-124.