IV
Il primo capitolo del lavoro è incentrato sulla complessità del processo di produzione
e distribuzione del prodotto moda e su una definizione delle strategie che ogni impresa
operante nel settore potrebbe implementare per una sua gestione ottimale.
Il secondo capitolo fornisce un quadro generale dell’apparato distributivo dei
prodotti d’abbigliamento nel Sistema Moda italiano e le sue tendenziali linee di
sviluppo, derivanti da due fattori rilevanti quali l’ingresso delle grandi catene
internazionali nel contesto distributivo nazionale e gli effetti dei nuovi orientamenti
della legislazione commerciale, con riferimento al decreto Bersani del 1998.
Il terzo capitolo affronta il tema della competizione sul tempo che investe tutte le
imprese del Sistema Moda e che impone una ridefinizione delle logiche di gestione
improntata alla riduzione dei tempi di risposta al mercato e all’ottimizzazione delle
scelte di logistica distributiva, in considerazione dell’estrema transitorietà dei vantaggi
competitivi realizzabili.
Nel quarto capitolo si procede ad una duplice analisi: l’una a livello macro, sui
rapporti verticali di canale e sulle modificazioni che verosimilmente potrebbero subire,
in funzione dell’evoluzione che interessa il contesto competitivo; l’altra a livello micro,
sul nuovo ruolo che è chiamato a ricoprire il punto vendita, oramai non più inteso
unicamente come luogo destinato all’acquisto, ma anche e soprattutto come contesto di
fidelizzazione del cliente.
Il quinto capitolo tratta il caso Cisalfa Sport, una catena distributrice operante nel
segmento dell’abbigliamento sportivo che ha fatto registrare negli ultimi anni una forte
crescita e che mostra come i rapporti privilegiati con i grandi marchi industriali e il
modello distributivo a succursale siano due elementi cardine per il successo nel rapporto
con la domanda finale.
1
Capitolo I
Il prodotto moda e il suo essere “complesso”
1.1. Introduzione
La complessità del prodotto moda deriva essenzialmente da tre aspetti, tra loro
interdipendenti: il primo fa riferimento alla necessità di gestire efficacemente la varietà
e la variabilità dell’offerta, intesa in termini quantitativi e qualitativi; il secondo è
relativo alla rilevanza strategica della marca, che assurge, in questo contesto più che in
nessun altro, a veicolo cardine dell’immagine e del prestigio dell’impresa; il terzo è
relativo alla crescente sofisticatezza del consumatore, che, con i suoi gusti e preferenze,
sancisce con il comportamento d’acquisto il successo o l’insuccesso degli articoli
lanciati sul mercato.
In questo capitolo sono delineati i principali caratteri dei tre suddetti aspetti, con
considerazioni legate alle strategie che ogni impresa impegnata nel settore potrebbe
implementare.
Complessità del
prodotto moda
2
1.2. La gestione della varietà e della variabilità
1.2.1. L’aumento della complessità e le sue cause
Nel comparto moda, il sistema d’offerta è da sempre stato incentrato sul prodotto.
Questo ha saputo mantenere nel tempo un ruolo cardine, cosicché ancor oggi la
percentuale più rilevante degli investimenti di un’impresa del settore sono relativi alla
creazione e allo sviluppo del prodotto e alla sua promozione. Negli ultimi anni però, a
seguito dell’allargamento dello scenario competitivo su scala globale, le imprese hanno
dovuto spostare sempre più l’attenzione sulla razionalizzazione dei processi interni di
progettazione e sviluppo e sulla ricerca di significativi miglioramenti nella qualità, nei
tempi e nei costi.
La scelta, quanto mai necessaria a fini competitivi, di seguire pedissequamente
l’evoluzione dei gusti e delle preferenze dei consumatori finali, aveva portato molte
imprese ad allargare fortemente la gamma dei prodotti offerti, generando una forte
complessità a seguito dell’ampliamento della varietà e della variabilità.
Per varietà si intende la numerosità dei codici relativi ad un singolo prodotto, quindi
sia in termini di prodotto finito che di singole componenti (modelli, tessuti, accessori,
taglie), presenti all’interno di una collezione.
Per variabilità si intende il grado di innovazione dell’offerta, rilevato nel passaggio
da una stagione ad un’altra.
Oggi molte imprese si trovano a dover gestire questa complessità, con vincoli che
spesso non è semplice contemperare; “una riduzione del numero di varianti modello o di
varianti tessuto potrebbe essere interpretato, da un lato, come la rinuncia a servire i
clienti più esigenti, o, dall’altro, come la volontà di porre un freno all’innovazione
stilistica delle collezioni”
1
.
Importante risulta rilevare che gran parte della complessità che le imprese si trovano
a dover gestire deriva da fasi successive a quelle di sviluppo delle collezioni e si genera
allorché queste entrano in contatto con i propri clienti, siano consumatori o distributori.
Le collezioni sono infatti “il risultato dell’incontro tra la sensibilità stilistico-creativa,
fonte dell’innovazione di prodotto, e le competenze di mercato, necessarie per un
1
SCIUCCATI, F.M. e VARACCA CAPELLO, P. [1999], Il sistema moda e la gestione della varietà, in
«Economia e Management», n.5, (pag. 59).
3
corretto equilibrio tra creatività e aspettative dei consumatori”
2
. Le imprese sono spesso
vincolate a «customizzare» la propria produzione, pena la mancata considerazione
dell’offerta da parte dei consumatori o la difficoltà a veder inseriti i propri prodotti negli
assortimenti commerciali. Sebbene questa logica sembri adattarsi principalmente a
piccole e medie imprese, anche imprese produttrici molto note quali Nike e Arena
hanno, negli ultimi anni, progettato e sviluppato collezioni ad hoc per le catene
distributive più importanti, come ad esempio il gruppo Coin.
Altri aspetti fondamentali che accrescono il grado di complessità da gestire sono la
stagionalità dei capi e il riassortimento delle collezioni garantito ai distributori.
L’orizzonte annuale di un’impresa produttrice di capi d’abbigliamento è diviso
generalmente in due stagioni, primavera-estate e autunno-inverno. Esiste perciò una
netta suddivisione e differenziazione tra le modalità di approvvigionamento, in virtù dei
differenti tessuti che verranno impiegati nelle due stagioni, e tra le modalità di
lavorazione, poiché il taglio, il finissaggio e il trattamento dei tessuti variano in
funzione delle loro caratteristiche tecniche.
La politica di riassortimento prevede la fornitura ai distributori in corso di stagione di
un numero ridotto di capi, relativi ad una determinata taglia o colore, laddove questi
siano andati esauriti a seguito degli acquisti della clientela.
Si tratta sicuramente di iniziative importanti per la fidelizzazione e la soddisfazione
del distributore e dei clienti, ma altresì rilevanti nella generazione di ulteriore
complessità (occorre una gestione accurata delle scorte per quei capi attorno ai quali
ruota l’intera collezione).
Un altro aspetto chiave da considerare è relativo al grado di innovazione di una
collezione. Più una collezione introduce elementi nuovi rispetto al passato e maggiori
saranno i costi che l’impresa dovrà sostenere per la sua gestione
3
. Spesso i designer
orientano la propria attività alla proposta di innovazioni stilistiche tali da assecondare le
più svariate istanze del mercato, pensando unicamente al loro impatto in termini di
esclusività e immagine di qualità dell’offerta e senza tenere in debito conto le
ripercussioni in termini di costi di gestione.
2
CAVENAGHI, S. e SECCHI, R. [1998], Razionalizzare lo sviluppo delle collezioni.Risultati di
un’indagine nel tessile-abbigliamento, in «Economia e Management», n.3, (pag. 111).
3
Si pensi allo sviluppo delle taglie con riferimenti diversi rispetto a collezioni passate, alla
documentazione necessarie all’industrializzazione dei modelli, alla messa a punto dei nuovi metodi di
produzione, al controllo qualità dei nuovi modelli, ecc.
4
1.2.2. Il VRP (Variety Reduction Program)
Uno strumento interessante per gestire la varietà è il VRP (Variety Reduction
Program). Sviluppato nelle aziende giapponesi a metà degli anni settanta, esso è oggi
applicato da molte imprese del settore per contenere i costi legati alla complessità.
Esso consta di due differenti approcci, l’uno top-down e l’altro bottom-up. Il primo
consiste in una razionalizzazione della gamma prodotti, che viene focalizzata attraverso
il taglio dei prodotti a scarsa redditività; il secondo invece, mantenendo inalterata
l’articolazione della gamma produttiva, si propone di rilevare quegli attributi (fissi), non
percepibili al consumatore finale e di provvedere ad una loro standardizzazione.
La logica top-down risponde a due obiettivi principali: un aumento di efficacia della
collezione e un miglioramento dell’efficienza ad essa connessa.
La prima dimensione si ricollega agli effetti positivi riscontrabili in una
focalizzazione della gamma prodotti; una razionalizzazione dell’offerta potrà
certamente comportare la perdita di alcuni segmenti di clienti, ma potrebbe altresì
permettere all’impresa di ottenere performances migliori attraverso la sua
focalizzazione sui prodotti core.
La seconda dimensione si riferisce ai miglioramenti ottenibili attraverso il
conseguimento di maggiori economie di scala e di esperienza, legate alla minore varietà
da gestire.
Un approccio di questo tipo dovrebbe essere seguito da un’impresa che presenta una
collezione per così dire «ridondante». Il numero di articoli offerti da un’impresa è
eccessivo nel momento in cui si creano problemi nella commercializzazione (aumento
del tempo medio di visita degli agenti presso i clienti e rischio di subire
«personalizzazioni»), o nella distribuzione (laddove si generino effetti di
cannibalizzazione tra prodotti percepiti in maniera similare). Questi effetti possono
essere chiaramente valutati attraverso la consultazione dei dati di vendita (raffronto tra
dati di sell in e di sell out, determinazione delle quote di invenduto), o attraverso
ricerche di marketing presso i target cui l’impresa si rivolge.
5
Per ciò che concerne la logica bottom-up, essa mantiene inalterata la ricchezza
dell’offerta e introduce uno schema che suddivide il capo d’abbigliamento in due parti,
l’una fissa e l’altra variabile.
La parte fissa è rappresentata da tutti quegli elementi che è possibile variare il meno
possibile tra i differenti modelli di una stessa tipologia di capo (si pensi alle fodere delle
tasche o alle spalline di una giacca); la parte variabile è invece
data da tutti quegli elementi che conferiscono un certo valore aggiunto al capo, vantano
una visibilità maggiore e sono quindi maggiormente percepibili al consumatore (si pensi
al tessuto, ai bottoni, alle finiture esterne di una giacca). L’impresa che applica questa
logica, otterrà una riduzione dei costi connessi al prodotto, che risulterà semplificato
nella sua struttura, e tenterà di recuperare la massima efficienza possibile in termini di
produzione ed approvvigionamento per quelle parti identificate come fisse.
In conclusione, la gestione della varietà risulta oggi sempre più importante per le
imprese del settore. Un approccio miope al mercato e alla sua accentuata dinamica
competitiva può portare molte imprese ad allargare a dismisura l’offerta di prodotti, con
conseguenze che solo a prima vista possono sembrare funzionali all’ottenimento di
migliori risultati reddituali. La necessità di introdurre programmi per la riduzione della
varietà è oggi sempre più sentita tra le imprese del sistema Moda. Queste devono
necessariamente essere guidate da un vertice aziendale capace di traghettare
l’organizzazione nel cambiamento e abile nell’ottenere il coinvolgimento nell’iniziativa
di tutti gli operatori.
Siffatti interventi non rilevano solamente in termini di costi di gestione, ma risultano
altresì importanti per impostare le attività dell’organizzazione in modo diverso, tarando
in modo migliore gli interventi per gestire una complessità coerente con le esigenze del
mercato.
6
1.3. La rilevanza strategica della marca
Oggi la marca rappresenta sempre più il fulcro delle strategie nella moda; nell’ultimo
decennio è passata dal ricoprire un ruolo di mero attributo del prodotto alla funzione di
accrescimento e continua generazione di valore per l’intero sistema d’offerta.
Il concetto di marca si può suddividere in due categorie di elementi, l’una materiale e
l’altra immateriale.
La prima fa riferimento al sistema dei segni tangibili legati alla marca (nome, logo,
colori), che risultano funzionali al suo riconoscimento da parte dei consumatori. La
seconda fa riferimento alle valenze intangibili che ogni singola marca riesce ad evocare
nel consumatore, al suo valore semiotico. Soprattutto nel caso dei prodotti moda,
l’enfasi sugli elementi immateriali si è profondamente rafforzata negli ultimi anni, a
scapito dell’attenzione agli elementi tecnico-funzionali.
Il prodotto moda è per sua natura estremamente mutevole e soggetto ad
un’obsolescenza molto rapida. La marca, la sua identità, i valori che essa può
racchiudere possono invece sfuggire alla rapida evoluzione del prodotto e al passare del
tempo; “nella moda si assiste quindi ad una forte dissociazione tra prodotto e marca,
laddove il primo è ciò che l’impresa produce, mentre la marca è ciò che il consumatore
compra” [Saviolo e Testa, 2000, 156].
Attraverso la valorizzazione della marca, l’impresa tenta di veicolare al cliente un set
di significati inizialmente percepibili materialmente, ma atti poi nel tempo ad essere
interiorizzati, memorizzati e riconosciuti.
Come rilevato in precedenza, la crescente competitività del settore ha reso il prodotto
di per sé sempre meno connotante e caratterizzante e le imprese sono costrette a
ripensare il proprio posizionamento sul mercato in funzione di elementi intangibili che
possano permanere nel tempo, al di là delle evoluzioni dei gusti e delle preferenze.
Nello scenario attuale, le imprese del settore devono proporre un “prodotto che, oltre
ad essere ineccepibile dal punto di vista qualitativo e tecnico, deve raccontare una
«storia», deve dimostrare una sua personalità fatta di prestazioni e di artigianalità, di
conformità agli standard e di unicità”
4
.
4
CODA SPUETTA, M. [1994], La marca nel sistema moda. Una variabile fondamentale per un
marketing di successo, in «Economia e Management», n.4, (pag. 108).
7
La definizione di un’accurata politica di marca riguarda principalmente la decisione
riguardante quale o quali nomi di marca utilizzare.
In questo senso è possibile scegliere tra nome dell’azienda o nomi individuali di linea
o di prodotto. Per i prodotti moda, il nome aziendale è generalmente applicato a prodotti
intermedi derivanti da fasi produttive realizzate più a monte lungo la filiera (tessuti ad
es.), o a prodotti più classici legati a realtà aziendali medio-piccole. Le marche
individuali legate al singolo prodotto o alla singola linea si riscontrano invece nelle
scelte delle realtà aziendali dalle dimensioni più ampie, laddove l’articolazione della
gamma in più linee di prodotto, non sempre strettamente omogenee, ne suggerisce
l’utilizzo.
Spesso si riscontra poi nella realtà l’affiancamento di nomi di linea, generalmente
originali e a forte contenuto moda
5
, a nomi aziendali più tradizionali e consolidati che
possano conferire ai primi una certa legittimazione agli occhi del consumatore.
Il nome aziendale infatti, soprattutto per i prodotti italiani, ha sempre veicolato
un’immagine di cura artigianale dei dettagli e di ricerca profonda finalizzata alla qualità
e allo stile. Molte imprese hanno per diversi anni fatto leva sulla forza del made in Italy
che però, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha cominciato a perdere
progressivamente e inesorabilmente parte della propria forza. Sono emerse infatti nello
scenario competitivo delle nuove realtà (la Cina su tutte) capaci di coniugare una
profonda cura del design e dei particolari e un rapporto qualità/prezzo difficilmente
sostenibile.
Nonostante l’evoluzione dello scenario in questa direzione, è importante ricordare
che si tratta di un processo che non ha interessato da vicino le grandi griffes dell’alta
moda, che godono di una rinomanza e di una legittimazione oramai riconosciute e
celebrate a livello globale (si pensi allo stile di Armani, Versace o Valentino). Queste
saranno semmai interessate, come conseguenza indiretta della loro rinomanza e
dell’impossibilità di sviluppare nei loro confronti una competizione basata sul rapporto
qualità-prezzo, da fenomeni di contraffazione già oggi particolarmente estesi
6
.
5
Giuridicamente si possono assimilare ai cosiddetti «marchi forti».
6
Questi sono sostenuti da organizzazioni che spesso, sfruttando i vantaggi legati ad una legislazione
internazionale ancora poco attenta alla tutela dei valori legati ai marchi, organizzano la «riproduzione»
dei capi griffati in Estremo Oriente per poi importarli, sfuggendo alla tutela nazionale.
8
Oggi la politica di marca deve essere specificatamente misurata sull’ampiezza
dell’assortimento, sulla dimensione dell’azienda e sulla tipologia di prodotto.
Politiche di estensione della marca troppo spinte possono infatti causare difficoltà al
consumatore nella comprensione di quei valori cardine che ogni impresa lega alla
propria offerta.
D’altro canto però, un’estensione dell’utilizzo della marca per più prodotti anche non
strettamente collegati al core business tipico dell’impresa, può anche risultare
funzionale alla trasmissione di un messaggio più completo sulla filosofia che la
contraddistingue. Ad oggi è quindi sempre più necessario trovare l’estensione ottimale
che consenta di contemperare le due esigenze; l’impresa, da un lato, non deve temere di
tornare sui propri passi a fronte di politiche di estensione di marca troppo estese, e
viceversa, non deve rigettare l’ipotesi di concedere in licenza la marca laddove ciò
possa essere funzionale al miglioramento della sua immagine percepita dal
consumatore. Quest’ultimo deve infatti poter decodificare correttamente i valori
associati al marchio, poiché ciò gli permette di attribuire all’offerta un valore maggiore,
che va poi a giustificare il premium price riconosciuto.
In questo contesto la marca diviene un segno distintivo per un profilo tipico di
acquirenti, che in esso si riconoscono, si identificano e sviluppano una propria fedeltà
nei suoi confronti. In particolare, l’identità di marca ha subito un’evoluzione
sintetizzabile in tre fasi
7
:
ξ Fase 1: marca come sintesi di attributi. In questo senso la marca è intesa come un
“nome, termine, simbolo, disegno o una combinazione di questi, che mira ad
identificare i beni o i servizi di un’impresa o di un gruppo d’imprese, e a differenziarli
da quelli dei concorrenti” [Kotler, 1992, 633]. La marca quindi garantisce il prodotto
agli occhi del consumatore e partecipa alla sua fidelizzazione.
ξ Fase 2: marca come sintesi di benefici. L’identità di marca comincia in questa fase
a formarsi attorno ad una personalità che va oltre gli attributi di prodotto.
7
SAVIOLO, S. [1997], Gestire l’identità di marca nella moda, in «Economia e Management», n.5, (pag.
52).
9
ξ Fase 3: marca come vettore di sviluppo. In questa fase la marca si stacca
completamente dal prodotto avendo sviluppato un’identità che sussiste pur se slegata
da una determinata categoria di prodotto cui in precedenza era intimamente legata. Si
tratta di un processo che porta la marca ad estendere la sua valenza, sia a livello di
linea che di business, siano questi più o meno correlati. Si pensi in questi casi a
Benetton (abbigliamento, sport, automobilismo) o a Virgin (discografia, linee aeree,
soft drink).
Nel caso delle imprese del Sistema Moda risulta fondamentale monitorare l’identità
di marca. Questa è caratterizzata da tre elementi che devono risultare fortemente
coerenti tra loro a livello di singola impresa [Saviolo e Testa, 2000, 161]: l’identità
stilistica, l’identità di immagine e l’identità distributiva.
La prima fa riferimento a quegli elementi di stile e design caratteristici di ciascuna
impresa e che permangono nel tempo, indipendentemente dall’evoluzione delle
collezioni. La seconda si collega all’attività di comunicazione sviluppata dall’azienda e
finalizzata a caratterizzare quest’ultima in modo particolare rispetto ai concorrenti.
L’identità distributiva fa riferimento al modo in cui la gamma dei prodotti
dell’impresa è presentata sul mercato.
Essa si risolve quindi in una struttura di scelte relative a diversi aspetti, quali la scelta
del canale, la gestione degli spazi di vendita, lo studio dell’assortimento, le iniziative di
supporto al sell out, ecc.
Per ciò che concerne la fedeltà nella marca, essa è alquanto sostenuta nel caso dei
prodotti moda. Il consumatore arriva talvolta ad “associare ad una determinata marca
una serie di attributi in modo scontato, visto che ha avuto modo di riscontrarli in più di
un’occasione: valenza moda, styling, alto livello qualitativo, durata, ecc.” [Foglio, 2001,
202]. Un atteggiamento di questo tipo nei confronti della marca “consente di
minimizzare il numero di dati necessari per finalizzare il processo di interpretazione e di
scelta” [Busacca, 2000, 36]. Il singolo individuo, avendo una certa fiducia nella marca,
può rinunciare alla complessa procedura di raccolta e vaglio delle informazioni sulle
differenti marche.
10
Disporre di un marchio riconosciuto come portatore di una serie di significati e
caratteristiche rilevanti per un determinato target è fondamentale per ogni impresa
operante nel settore.
Tuttavia, la creazione di una forte identità di marca, da cui poi segue necessariamente
la fedeltà di un determinato target è un processo lungo e oneroso e che tendenzialmente
non prevede un termine preciso.
L’impresa deve infatti poter verificare continuamente il posizionamento della marca,
intervenendo per correggere eventuali distorsioni o per perfezionare l’immagine. A
questo proposito risulta necessaria una taratura ottimale delle campagne promozionali e
dell’attività di gestione dei punti vendita, che oggi sempre più, a seguito dell’evoluzione
del ruolo delle marche, stanno divenendo «distributori di concetti».
11
1.4. Il ruolo del consumatore
1.4.1. Lo shopping esperienziale
Soprattutto per prodotti problematici
8
come quello moda è fondamentale per le
imprese comprendere a fondo le determinanti che influenzano il comportamento
d’acquisto e le variabili che possono essere attivate per modificarne le tendenze.
L’estrema rilevanza della dimensione semiotica nella moda si rileva nell’evoluzione
del comportamento d’acquisto dei consumatori; le imprese sono sempre più consapevoli
che il processo decisionale si allontana progressivamente dai canoni della razionalità
assoluta, per assumere i contorni di approcci sempre più legati a condizioni
circostanziali e a pulsioni emotive ed inconsce relative all’individuo stesso.
Da questa convinzione muovono gli studi sullo shopping ricreativo, edonistico ed
esperienziale, che vanno a configurare un modello in cui una forte importanza è assunta
dalle emozioni, dalle percezioni e dalle dimensioni sensoriali dell’individuo. Da queste
considerazioni è relativamente semplice comprendere il ruolo fondamentale svolto dal
punto vendita: il suo layout, l’organizzazione degli spazi espositivi e la possibilità di
interazione con il personale di vendita sono caratteristiche che influenzano fortemente le
decisioni e il processo d’acquisto del consumatore. Proprio questo ruolo cardine del
punto vendita è il primo elemento da considerare per arrivare ad una definizione
compiuta di shopping esperienziale.
Un secondo elemento importante è dato dalle caratteristiche del consumatore
ricreativo. “Quest’ultimo non si comporta in modo meno razionale rispetto al
consumatore economico (colui per il quale lo shopping si risolve in un’attività volta a
minimizzare i costi di approvvigionamento), ma apprezza e risulta particolarmente
attratto dagli aspetti del punto vendita che possono rendere l’acquisto più piacevole e
divertente”
9
. Questo tipo di consumatore, nelle sue continue visite ai punti vendita,
ricerca anche quella mole di informazioni necessarie per ottimizzare la sua decisione di
acquisto.
8
Per un approfondimento ulteriore della distinzione tra beni banali e beni problematici si veda
PELLEGRINI, L. [1990], Economia della distribuzione commerciale, Milano, Egea, (pag. 60-62).
9
CASTALDO, S. e BOTTI, S. [1999], La dimensione emozionale dello shopping. Una ricerca
esplorativa sul ruolo del punto vendita, in «Economia e Management», n.1, (pag. 19).
12
L’ultimo elemento che merita attenzione è rappresentato da un’altra tipologia di
consumatore, che per certi versi differisce da quello ricreativo, quello «edonistico».
“Questo si slega completamente da qualsiasi schema decisionale fondato sulla
razionalità per dare un peso esclusivo alle emozioni come motivazioni fondamentali del
processo d’acquisto”
10
: la scelta dei prodotti e la loro valutazione nel consumo sono
legate alla capacità di questi di suscitare emozioni nell’acquirente. Questo nuovo
concetto di consumo è particolarmente importante per quei prodotti, come quello moda,
che vengono selezionati non tanto per le loro caratteristiche funzionali, quanto per le
loro valenze estetiche e simboliche.
Figura 1. Le determinanti dello shopping esperienziale
FONTE: a cura dell’autore
In misura diversa, ma pur sempre in azione congiunta, gli elementi finora citati
contribuiscono a determinare il concetto di shopping esperienziale.
10
HIRSCHMANN, E.C. e HOLBROOK, M.B. [1982], Hedonic Consumption: emerging concepts,
methods and propositions, in «Journal of Marketing», vol. 46, Summer, (pag. 92-101).
Shopping esperienziale
Shopping esperienziale
Stimoli del punto vendita
Stimoli del punto vendita
Emozioni provate
nell’acquisto
Emozioni provate
nell’acquisto
Elementi ludici e ricreativi
Elementi ludici e ricreativi