Inoltre, questa espansione occupazionale ha una caratterizzazione prettamente
femminile: più del 70% della crescita occupazionale totale ha investito infatti le donne.
Cifre, queste, che non potevano non avere ripercussioni positive, oltre che sulle
dinamiche del tasso di occupazione (passato dal 50,9% del 1996 al 56% del 2003),
sull’andamento del tasso di disoccupazione e del tasso di attività. Il primo negli 8 anni
considerati si è ridotto dall’11,6% al 8,7%, mentre il tasso di partecipazione al mercato
del lavoro è passato dal 57,7% al 61,4% (Istat). L’andamento positivo dei principali
indicatori del mercato del lavoro non è stato, tuttavia, sufficiente a colmare il cronico
divario tra Centro-Nord e Sud, sebbene il fenomeno abbia avuto un ridimensionamento.
I tassi di attività, di occupazione e di disoccupazione si sono attestati nel 2003,
rispettivamente, al 66,5%, al 64,7% e al 3,9% al Nord; al 63%, al 59% e al 6,5% al
Centro; al 53,7%, al 44,8% e al 17,7% al Sud
4
.
Oltre a presentare questa lacuna, l’Italia si caratterizza per la persistenza della
disoccupazione di lunga e di lunghissima durata. In questo ambito l’espansione
occupazionale ha avuto conseguenze modeste e tardive. Dal 1995 al 2001 le persone
disoccupate da 12 o più mesi sono passate dall’8,6% al 5,9% del totale delle forze di
lavoro
5
e rappresentavano nel 2003 il 57% del totale dei disoccupati
6
. Inoltre,
nonostante il tasso di disoccupazione nel 2001 sia tornato al livello del 1992, la durata
media della disoccupazione è passata da 23,6 a 37,4 mesi nello stesso arco temporale
7
.
Al di la di questi aspetti, gli indicatori di un mercato del lavoro caratterizzato sempre
più da una diffusione dei lavori atipici non possono essere interpretati asetticamente.
4
Cfr., Istat, op. cit..
5
Cfr., Cnel, Rapporto sul mercato del lavoro 1997-2001, Roma, luglio 2002.
6
Cfr., Istat, op. cit..
7
Cfr., Cnel, op. cit..
II
Le trasformazioni dell’ultimo decennio impongono una lettura delle dinamiche
occupazionali anche da un punto di vista qualitativo. Per molti dei circa 5 milioni di
lavoratori atipici stimati dall’Istituto per le Ricerche Economiche e Sociali (IRES) la
deregolamentazione del mercato del lavoro ha probabilmente fornito delle chance
occupazionali aggiuntive, ma li ha anche resi fortemente vulnerabili sotto diversi punti
di vista. L’ultima riforma del mercato del lavoro operata dal D.lgs. n. 276/2003, che
peraltro ha introdotto nuove forme d’impiego flessibile quali il lavoro intermittente, il
lavoro ripartito e la somministrazione a tempo indeterminato di manodopera
8
, si
propone di amplificare lo scenario sopra descritto.
Nei paragrafi che seguono verranno presi in considerazione i principali aspetti
giuridici e socio-economici delle forme d’impiego flessibili più diffuse nel nostro
mercato del lavoro.
ξ Il reddito e le future pensioni dei co.co.co.
Anche sul piano delle stime dei redditi dei collaboratori il quadro dei dati non è ancora
esauriente. Le fonti principali sono rappresentate dai dati dell’Inps e dalle elaborazioni
dell’Istat sui dati dell’Agenzia delle Entrate. Le ultime rilevazioni dell’Inps risalgono al
1999 e fanno luce sulla distribuzione dei collaboratori nelle classi di reddito medio-basse,
8
Il lavoro intermittente o a chiamata ha ad oggetto lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo
o intermittente, che il lavoratore può essere chiamato a fornire con un preavviso non inferiore ad un
giorno e dietro un’indennità di disponibilità integrativa della retribuzione, pari ad almeno il 20% di
quest’ultima, per il periodo in cui si è obbligato a mettersi a disposizione dell’impresa. Il lavoro ripartito
presuppone, invece, che 2 lavoratori si obblighino in solido ad eseguire un’unica prestazione lavorativa.
Le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori comportano l’estinzione dell’intero vincolo
contrattuale. Per la somministrazione di lavoro si rimanda al paragrafo 2.3. ss.
III
ma non in quelle medio-alte, essendo l’ultima classe di reddito rappresenta da coloro che
guadagnavano più di 7.500 euro annui
9
.
Dal quadro dei dati emerge che il 50% dei contribuenti guadagnava non più di 5.000
euro l’anno, ossia un valore al di sotto della “soglia di povertà”
10
. (Figura 1)
Figura 1 - Distribuzione percentuale per classe di reddito dei co.co.co.
(Anno 1999)
Fonte: elaborazione su dati Inps, 1999
50,0%
8,9%
41,1%
0-5000 €
5000-7500 €
7500 € e oltre
Il reddito medio annuo dei collaboratori risulta pari a 11.589,75 euro lorde annue, con
una forte disparità tra maschi e femmine: rispettivamente circa 14.700,00 euro lorde
l’anno contro 6900,00 euro
11
. Tuttavia, è plausibile che buona parte dei collaboratori
con livelli di reddito molto bassi percepiscano anche redditi da lavoro dipendente o da
pensione. Certo è che per un altrettanto cospicua fetta di contribuenti il basso compenso
rappresenta l’unica fonte di reddito.
Per quanto riguarda l’elaborazione dell’Istat condotta sui dati rilevati dall’Agenzia
delle Entrate dalle dichiarazioni Irpef 2000, si assiste ad un quadro della distribuzione
del reddito dei co.co.co. che si discosta notevolmente da quello che emerge dalle
rilevazioni dell’Inps e che risulta, tuttavia, inficiato dalla probabile mancata
9
Dalla rilevazione sono esclusi i professionisti che nel 1999 rappresentavano il 10,77% dei contribuenti.
10
Nel 1999 era definito “povero” chi guadagnava fino a 5.549 euro l’anno.
11
Cfr. G. Altieri e C. Oteri, op. cit.
IV
contabilizzazione dei redditi di buona parte di coloro che sono esonerati dalla
presentazione della dichiarazione stessa.
Dall’analisi dell’Istat nel 2000 la distribuzione dei redditi è caratterizzata da una
profonda asimmetria in relazione al sesso, all’età e alla residenza dei collaboratori
12
.
In particolare emerge che poco meno della metà dei collaboratori maschi ha un reddito
annuo superiore a 18 mila euro e il 30,6% ha un reddito superiore a 2.500 euro mensili;
viceversa le donne che superano i 1.500 euro mensili sono solo il 27,4% e quelle che
superano i 2.500 euro al mese sono circa il 14%. Inoltre, il 73,3% dei giovani fino a 29
anni non percepisce più di 1000 euro al mese e solo il 14,2% di essi supera la soglia dei
1500 euro mensili; mentre il 35,4% dei collaboratori di età compresa tra i 50 e i 64 anni e
il 34,5% degli ultra sessantacinquenni guadagnava nel 2000 più di 30 mila euro annui.
Infine, il 47,5% e il 45,4% dei collaboratori residenti, rispettivamente, nel Nord-Ovest
e nel Nord-Est del Paese guadagnava più di 18 mila euro, contro il 35,6% del Centro e il
23,3% del Sud.
Il livello di reddito percepito, unitamente al livello di contribuzione previsto, si
ripercuote sul grado di copertura che la Gestione separata è in grado di garantire ai propri
iscritti. All’inizio dello scorso anno è stato pubblicato dal Center for Research on
Pensions and Walfare Policies (CeRP) un rapporto sulla previdenza dei parasubordinati
13
che delinea un quadro drammatico delle stime sulle future pensioni dei co.co.co.,
soprattutto per coloro i quali l’iscrizione alla Gestione separata rappresenti l’unica forma
di accantonamento previdenziale della loro vita lavorativa. Dalle stime effettuate dal
12
Cfr. Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2002, Roma, 2003, p. 228.
13
Cerp, La previdenza dei parasubordinati: situazione attuale e prospettive, gennaio 2003.
V
Cerp, partendo dai dati disponibili dell’Inps, si evince che l’ammontare della pensione dei
parasubordinati non raggiungerà, in quasi tutte le situazioni contemplate dalla ricerca,
l’importo dell’assegno sociale
14
. In particolare risulta che chi si è iscritto al fondo Inps
nel 1996 all’età di 14, 19 o 24 anni percepirà, con 35 anni di anzianità contributiva e in
base all’aliquota prevista a regime (20%), rispettivamente, una pensione di 898 euro,
1.903 euro e 3.196 euro annui. Nel caso il lavoratore possa vantare 40 anni di anzianità
contributiva le stime risultano, rispettivamente, di 1.091 euro, 2.441 euro e 4.537 euro
annui
15
. La situazione non è molto più rosea per chi al momento dell’iscrizione aveva
32 anni (5.560 euro annui) e 42 anni (4.977 euro annui), ne tanto meno per chi aveva 52
anni (2.904 euro annui)
16
. Dunque, solo in 2 casi considerati la pensione dei
parasubordinati privi di altra copertura previdenziale supera l’importo dell’assegno
sociale, pari a circa 4.966 euro all’anno per il 1999. (Figura 2)
Figura 2 – Stime sulla pensione dei parasubordinati privi di altra copertura a seconda
dell’età d’iscrizione.
0
800
1600
2400
3200
4000
4800
5600
P
e
n
s
i
o
n
e
a
n
n
u
a
14 anni 19 anni 24 anni 32 anni 42 anni 52 anni
Età d'iscrizione nel 1996
Anzianità 35
Anzianità 40
Anzianità 33
Anzianità 23
Anzianità 13
Fonte: elaborazione su dati Cerp, 2003
14
Va segnalato che in base all’attuale sistema contributivo introdotto dalla legge n. 335/1995 l’importo
della pensione dovrà essere pari ad almeno 1,2 volte quello dell’assegno sociale. In caso contrario il
lavoratore dovrà vantare almeno 40 anni di anzianità contributiva o aver compiuto 65 anni di età.
Tuttavia superati i 65 anni se l’importo risulta essere inferiore alla suddetta soglia è prevista
un’integrazione a carico della fiscalità generale, fino ad eguagliare l’importo dell’assegno sociale.
15
Gli importi sono calcolati sulla base dei prezzi del 1999.
16
In questi 3 casi si ipotizza che il lavoratore vada comunque in pensione a 65 anni e l’anzianità è posta
ad un livello pari alla differenza tra 65 e l’età d’iscrizione.
VI
Altre stime sono, inoltre, state effettuate ipotizzando che per un ventiquattrenne la
collaborazione rappresenti un’opportunità per transitare nel più tutelato settore della
subordinazione oppure una forma di uscita graduale dal mondo del lavoro, quando si
troverà in prossimità dell’età pensionabile. In particolare è emerso che un
ventiquattrenne che ha iniziato nel 1996 la sua carriera lavorativa passando al lavoro
dipendente dopo 10 anni di lavoro parasubordinato percepirà una pensione di 10.815 euro
annui nel caso vanti 35 anni di anzianità contributiva e di 15.895 euro nel caso ne vanti
40. Nelle ipotesi, invece, di un ventiquattrenne che dopo 25 anni o dopo 30 anni di
lavoro dipendente concluda gli ultimi 10 anni della sua vita lavorativa nelle vesti di
collaboratore, percepirà una pensione, rispettivamente di 12.763 euro e 18.482 euro
annui. (Figura 3)
Figura 3 – La pensione di un parasubordinato che nel 1996 aveva 24 anni in 3 ipotesi distinte
0 2000 4000 6000 8000 10000 12000 14000 16000 18000 20000
Parasubordinato tutta la
carriera
Parasubordinato i primi 10
anni
Parasubordinato gli ultimi
10 anni
Anzianità 35 Anzianità 40
Fonte: elaborazione su dati Cerp
Le stime del Cerp risentono indubbiamente di un forte grado di approssimazione ma
costituiscono un ulteriore indice del grado di precarietà e di protezione, sia durante la vita
VII
lavorativa che post-lavorativa del complesso ed eterogeneo universo della
parasubordinazione.
ξ Tutela reale e crescita dimensionale delle imprese
Nell’ambito delle politiche del lavoro il tema sulla libertà di licenziamento è
indubbiamente quello maggiormente intriso di contenuti meramente ideologici,
indipendenti da qualsiasi analisi empirica fondata. In questo quadro si cerca di
dipingere il nostro Paese come quello nel quale il regime di protezione degli occupati
permanenti impedisce l’espansione dimensionale delle piccole imprese. Inoltre alla
legislazione protettiva si aggiungerebbe una casistica giurisprudenziale sfavorevole al
datore di lavoro che lo indurrebbe a non superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti per
evitare il rischio di sopportare onerosi costi processuali, oltre che di dover accettare il
reintegro nella propria azienda del lavoratore licenziato. Ed è in questo contesto che il
Governo in carica si è sentito legittimato ad intervenire, sia pure in via sperimentale,
con un disegno di legge caratterizzato dall’esclusione della tutela reale per i neo assunti
a tempo indeterminato. La tesi che il “nanismo” imprenditoriale vada ascritto alla
difficoltà di licenziare si basa su valutazioni meramente deterministiche, basate sulla
constatazione che nella classe dimensionale 10-19 addetti oltre i 2/3 delle imprese si
colloca nella fascia sotto i 15 dipendenti e che sotto questa fascia l’occupazione è
doppia rispetto alla classe 16-19 addetti. Eppure già nel 1999, l’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), da sempre alfiere della flessibilità più
spinta, ha asserito che “la legislazione a tutela dell’impiego ha un effetto scarso o nullo
VIII
sul tasso generale di disoccupazione”
17
. Affermazioni queste che nascono da analisi
bivariate e multivariate condotte dalla stessa OCSE in vari Paesi, che vanno, tuttavia,
considerate con estrema prudenza a causa della quasi totale assenza di correlazioni nette
tra i vari parametri considerati
18
. La stessa prudenza che ha accompagnato gli autori
delle (poche) ricerche volte a fornire un’evidenza empirica sulle correlazioni tra
dinamiche dimensionali delle imprese e regolamentazione sulla protezione dei
lavoratori permanenti. La complessità della legislazione sul lavoro, unita a fattori
esogeni difficilmente rilevabili, non consente, infatti, di isolare agevolmente l’influenza
che la variabile rappresentata dalla tutela reale dei lavoratori esercita sul comportamento
delle imprese in prossimità della soglia dei 15 dipendenti. Sebbene la letteratura
empirica incontri forti difficoltà nel fornire in questo ambito un quadro esauriente, le
analisi condotte negli ultimi anni da vari studiosi consentono quantomeno di trarre
importanti approssimazioni sull’argomento in esame, che portano ad escludere
l’equazione che mette in relazione le restrizioni ai licenziamenti e l’occupazione.
Equazione che viene esclusa, peraltro, anche a livello teorico. Da quest’ultimo
punto di vista merita di essere segnalato lo schema teorico elaborato dal Servizio Studi
della Banca d’Italia
19
, che ipotizzando la presenza di salari fissi e domanda esogena
(equilibrio parziale) esamina la domanda di lavoro di 2 imprese rappresentative di 2
Paesi identici in tutti gli aspetti, eccetto quello relativo alle restrizioni ai licenziamenti.
17
OECD, Employment Outlook, Parigi, giugno 1999.
18
Cfr. P. Minguzzi, Deregolazione del mercato del lavoro e occupazione: i nuovi dubbi dell’Ocse, in
www.ipielle.emr.it.
19
F. Schivardi, Rigidità nel mercato del lavoro, disoccupazione e crescita, in Banca d’Italia – Temi di
discussione del Servizio studi, n. 364, dicembre 1999.
IX
Nel primo si ha completa libertà di licenziare, nel secondo vi è il divieto assoluto di
licenziare. A fronte di ciò si dimostra che l’occupazione media (e quindi la
disoccupazione) è la stessa nei 2 Paesi, per cui le restrizioni ai licenziamenti non hanno
alcun effetto sul livello medio di disoccupazione, in quanto la più bassa occupazione nei
periodi di alta produttività è compensata dalla più alta occupazione nei periodi di bassa
produttività. Per quanto riguarda invece le analisi empiriche, oltre a quella già citata
dell’Ocse, vale la pena segnalare i risultati di uno studio condotto dall’Istituto di Studi e
Analisi Economica (ISAE), che seguendo diversi approcci ha cercato di stimare
l’impatto della regolamentazione pubblica del lavoro sulla crescita dimensionale delle
imprese
20
. In primo luogo nel Rapporto Isae del 2003 è stata presentata un’analisi
sulla dinamica della distribuzione delle imprese, che ha evidenziato, a distanza di 4 anni
(1996-2000), un maggior addensamento delle stesse in prossimità della classe 13-15
addetti, non necessariamente dovuta al subentrare delle restrizioni ai licenziamenti oltre
questa soglia. Successivamente, per cercare di dare un’interpretazione a queste
dinamiche, è stata effettuata un’inchiesta ad hoc su 2572 piccole imprese, i cui
comportamenti si riferiscono al periodo 1999-2002. Al fine di attenuare alcuni limiti
metodologici sono stati utilizzati 2 approcci distinti: nel primo si suppone che le unità
produttive modifichino la propria dimensione non solo al verificarsi di eventi interni ed
esterni (ad es. variazione della domanda), ma anche tenendo conto del regime
vincolistico sui licenziamenti individuali; nel secondo approccio il posizionamento delle
20
Isae, Rapporto. Priorità nazionali: Dimensioni aziendali, Competitività, Regolamentazione, Roma,
giugno 2003.
X
imprese rispetto alla soglia dei 15 dipendenti è ipotizzato in maniera del tutto
deterministica, ossia dipendente esclusivamente dall’applicazione della normativa.
Sul piano dei risultati ottenuti, in base al primo approccio le imprese che nel 1999
occupavano meno di 15 dipendenti a tempo indeterminato presentavano nel 2002 un
differenziale medio di crescita dimensionale compreso tra il 5 e il 7,6 % rispetto a quelle
con più di 15 dipendenti permanenti. Limitando l’osservazione alle imprese che
occupavano nel 1999 14 e 15 addetti tale differenziale si riduce al 4,3%, con un effetto
scoraggiamento del 3,3%. In base all’approccio che presuppone un’allocazione
deterministica delle imprese, il differenziale di crescita passa dall’1,8% allo 0,2% in
corrispondenza dei 14 addetti; dall’1,7% allo 0,9% in corrispondenza dei 15 dipendenti
e dal 3,5% all’1% per le imprese con 14 e 15 addetti. L’effetto di scoraggiamento al
passaggio della soglia è dunque più contenuto rispetto al primo approccio. In entrambi
i casi si tratta di risultati statisticamente significativi, ma che dal punto di vista
quantitativo hanno una portata limitata
21
.
Risultati analoghi a quello dell’Isae erano già stati ottenuti in precedenza nell’ambito
di un’analisi condotta da Borgarello, Garibaldi e Pacello, che, servendosi di matrici di
transizione basate su dati longitudinali di fonte Inps, relativi ad un campione di circa
1000 imprese con un organico prossimo alla soglia dei 15 dipendenti, hanno ottenuto 2
importanti risultati
22
. Nel periodo 1986-1996, rispetto ad un modello teorico di
riferimento, le imprese con un organico prossimo alla soglia dei 15 dipendenti hanno
una probabilità maggiore di 1,5-2 punti percentuali di mantenere lo stesso organico.
21
Cfr., Isae, op. cit.
22
A. Borgarello, P. Garibaldi e L. Pacelli, Employment Protection Legislation and the size of firms: a
close look at the Italian case, Mimeo, 2002.
XI
Inoltre, le imprese con 15 dipendenti hanno una maggiore probabilità di ridurre
l’organico piuttosto che di aumentarlo. Queste anomalie comportamentali, per quanto
significative dal punto di vista statistico, coinvolgono, tuttavia, un esiguo numero di
posizioni lavorative, essendo gli occupati in imprese di 15 dipendenti circa 130 mila
23
.
Una conferma autorevole dell’inesistenza di un effetto soglia derivante
dall’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori arriva anche dall’Istat, che
nel Rapporto annuale del 2002 ha riconosciuto che dall’osservazione delle dinamiche
occupazionali nel biennio 1998-1999 non emergono apprezzabili elementi di
discontinuità nella propensione delle imprese con 15 dipendenti ad incrementare
l’occupazione
24
.
ξ Costo del lavoro e produttività nelle diverse aree geografiche
Da più parti si ritiene che i ritardi del Mezzogiorno possano essere attutiti facendo
leva sul costo del lavoro, ossia adeguando questo indicatore ai livelli di produttività
delle imprese. Il significativo divario, in termini di costo del lavoro, tra le diverse
ripartizioni, non riflette, infatti, il valore aggiunto per addetto, che nel Mezzogiorno
presenta valori cospicuamente inferiori rispetto al resto delle ripartizioni e, in particolare
rispetto al Nord-Ovest. Tuttavia, considerato che il costo del lavoro italiano si
presenta già piuttosto basso, i margini di intervento appaiono esigui.
Considerando il quadro dei dati, dalla tradizionale indagine sui bilanci delle famiglie
condotta dalla Banca d’Italia, emerge che la percentuale delle retribuzioni nette
23
Cfr. P. Garibaldi, Dall’ideologia ai fatti. Le anomalie nel comportamento delle imprese intorno alla
soglia dei 15 dipendenti, in www.lavoce.info , 13.01.2003.
24
Cfr., Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2001, Roma, 2002
XII
dell’insieme dei lavoratori dipendenti del Sud, rispetto a quella dei lavoratori del
Centro-Nord, è passata dal 92,9% del 1995 all’86,4% del 2000. Questo divario si
registra, seppure in minor misura, anche circoscrivendo il confronto ai soli lavoratori a
tempo pieno, per i quali i differenziali retributivi si attestavano, nel 2000, intorno
all’11,7%
25
. Anche sul piano della distribuzione dei lavoratori a bassa retribuzione
26
il
divario territoriale è notevole: nel 2000 costituivano il 26,2% del totale al Sud, contro il
13,2% del Centro-Nord
27
.
Dai dati Istat emerge un quadro delle differenziazioni territoriali ancora più marcato.
Per quanto riguarda il costo del lavoro per dipendente, le imprese del Mezzogiorno
presentavano, nel 1999, valori inferiori del 16,5% rispetto a quelle del Nord-Ovest, del
6,8% rispetto a quelle del Nord-Est e del 10,5% rispetto a quelle del Centro
28
.
I differenziali di produttività risultano, invece, superiori a quelli del costo del lavoro.
Il valore aggiunto per addetto delle imprese del Sud risulta, infatti, inferiore del 31,4%
rispetto a quelle del Nord-Ovest, del 19,7% rispetto a quelle del Nord-Est e del 19,1%
rispetto a quelle del Centro
29
. (Figura 1)
25
Cfr., Banca d’Italia, Relazione del Governatore sull’esercizio 2001, Tav. B24, p. 138.
26
L’Ocse definisce bassa la retribuzione corrispondente a meno di 2/3 del valore mediano della
retribuzione dei lavoratori a tempo pieno.
27
Cfr., Banca d’Italia, op. cit..
28
Cfr., Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2001, Roma, 2002, p. 67.
29
Ibidem.
XIII
Figura 1 – Differenziali di costo del lavoro e produttività per area geografica.
Anno 1999. (Nord-Ovest = 100)
50
60
70
80
90
100
Nord-Est Centro Sud
Costo del lavoro per dipendente Valore aggiunto per dipendente
Fonte: elaborazione su dati Istat, 2002
Un quadro, questo, fortemente condizionato dalla cospicua presenza di micro
imprese, che nel Mezzogiorno operano prevalentemente in settori a bassa produttività.
Confrontando le imprese con meno di 20 dipendenti con quelle con un organico
superiore, si osserva che, nel Sud, le prime presentano un divario di produttività del
31,2% rispetto al Nord-Ovest, del 20,2% rispetto al Nord-Est e del 14,9% rispetto al
Centro, laddove per le seconde lo scarto si riduce, rispettivamente, al 18,3%, al 3,7% e
al 12,9%. (Figura 2)
Figura 2 – Differenziali di costo del lavoro e produttività per area geografica e
dimensione delle imprese. Anno 1999. (Nord-Ovest = 100).
60
70
80
90
100
Nord-Est Centro Sud
V.A. nelle imprese con meno di 20 dipendenti
V.A. nelle imprese con più di 20 dipendenti
C.D.L. nelle imprese con meno di 20 dipendenti
C.D.L. nelle imprese con più di 20 dipendenti
Fonte: elaborazione su dati Istat, 2002
XIV
Il divario tra micro imprese e imprese medio-grandi risulta ancora più accentuato se
si considera la sola industria in senso stretto, dove le imprese meridionali con più di 20
dipendenti presentano livelli di produttività non dissimili da quelli delle altre aree del
Paese, a fronte di un costo del lavoro inferiore
30
.
In questo quadro, considerando l’andamento complessivo del costo del lavoro negli
ultimi anni e i significativi differenziali tra il Mezzogiorno e le altre aree, appare
velleitario pensare che l’ampio divario, in termini di produttività, tra il Sud e il resto del
Paese possa essere colmato per mezzo di un ulteriore abbattimento del costo del lavoro.
ξ Precarietà: una costante del mercato del lavoro spagnolo
Il modello spagnolo è stato spesso oggetto di apprezzamenti da parte di numerosi
policy-makers dei Paesi dell’Europa del Sud per l’eccezionale performance ottenuta
negli ultimi 10 anni, in termini di tasso di disoccupazione. Tuttavia, le politiche del
lavoro adottate per combattere la disoccupazione hanno sortito anche un effetto
tutt’altro che invidiabile: il più alto livello di precarietà in Europa. Ultimamente, la
stessa Ocse, per voce di uno dei responsabili della divisione “analisi e politica per
l’impiego”, ha sostenuto che l’elevato tasso di occupazione temporanea produce effetti
deleteri, non solo per i lavoratori coinvolti, ma anche per le imprese, in termini di
professionalità e di produttività
31
.
L’adozione di forti sgravi contributivi tesi ad incentivare le assunzioni a tempo
indeterminato ha prodotto risultati poco significativi. Secondo gli ultimi dati
30
Cfr., Istat, op. cit..
31
Cfr., R. Torres, La precariedad en el empleo es una perdida de capital humano, in El Pais, 22 agosto
2003.
XV
dell’Instituto Nacional de Empleo (I.N.E.M.), riferiti al primo semestre 2003, su
7.128.858 contratti registrati, 6.456.139 (90,6%) erano a carattere temporaneo. Di
questi il 36,4% ha una durata compresa tra 1 e 6 mesi, il 22,7% si conclude in un
periodo compreso tra 1 e 7 giorni e il 22% nell’arco temporale 7-30 giorni
32
. Peraltro,
l’occupazione temporanea rappresenta tutt’altro che un trampolino di lancio verso
l’occupazione stabile. Da un’analisi condotta dall’Ine, riferita al periodo 1997-2001,
emerge, infatti, che la probabilità di transitare dall’occupazione temporanea
all’occupazione permanente oscilla dal 4% del primo trimestre 1997 al 4,83% del quarto
trimestre 2001, con punte del 6,41% nel periodo compreso tra il quarto trimestre del
1998 e il primo trimestre del 1999
33
.
Ne deriva che il mercato del lavoro spagnolo si presenta molto più segmentato di
quello italiano. La disparità di trattamento tra occupati permanenti e occupati
temporanei risulta molto più marcata in virtù della pressoché stazionaria condizione di
precarietà di questi ultimi, laddove nel mercato italiano le probabilità di stabilizzare il
proprio rapporto di lavoro precario sono, mediamente, molto più alte.
L’elevato turnover occupazionale ha, da una parte, prodotto benefici in termini di
riduzione del tasso di disoccupazione di lunga durata, ma, d’altra parte, ha contribuito
ad incrementare il dualismo che caratterizza il mercato del lavoro spagnolo e potrebbe
aver avuto un impatto negativo sulla crescita della produttività
34
.
32
Per un maggior dettaglio si veda la pubblicazione dei dati in www.inem.es.
33
Cfr., Ine, Anàlisis de flujos del mercato laboral a partir de datos de la Encuesta de Poblaciòn Activa
(EPA), 4 agosto 2003.
34
Cfr., S. Bentolila and J. J. Dolado, Labour flexibility and wages: lessons from Spain, Economic Policy,
Vol. 18, Great Britain, April 1994, p. 53-100.
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