Premessa
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mercato, socialmente mutevole, instabile, e culturalmente diversificato, e soprattutto
incapace di gestire i conflitti scaturiti dalla crescente richiesta dei cittadini di una
maggiore considerazione delle proprie opinioni sulle iniziative politiche di cui saranno i
destinatari. La crisi di legittimazione del consolidato modello di pianificazione sembra
dunque frutto di un più diffuso malessere, individuabile nell’elevata diffidenza e
sfiducia nei confronti degli organi rappresentativi del governo, che porta alcuni ad
affermare di essere di fronte ad una crisi dell’attuale sistema democratico.
Partendo da queste considerazioni generali, dapprima è stata affrontato il tema
della "democrazia", attraverso la ricostruzione dei suoi diversi significati storici e della
loro evoluzione: dal concetto classico di "demokratia" fino ad arrivare alla concezione
moderna (capitolo 1), che oggi è messa fortemente in discussione dalla crisi di
legittimazione della politica, fenomeno presente non solo nel nostro paese. La crescente
disaffezione nel sistema politico (talvolta attribuibile ad un reale disinteresse degli
elettori) e la diffusa sfiducia verso le istituzioni, possono anche tradursi nella richiesta
di una maggiore partecipazione, soprattutto nei casi in cui i cittadini desiderino non
delegare totalmente la responsabilità decisionale ai propri rappresentanti. Tale necessità,
sentita in particolar modo nell’ambito della gestione del territorio (elemento forse più
vicino e quindi più sentito dalla popolazione che si è rivelata capace di attivare proteste
anche molto intense e durature) e oggi agevolata dallo sviluppo delle nuove tecnologie,
ha portato alla formulazione di nuovi approcci di stampo argomentativo e partecipativo,
in grado di restituire un ruolo centrale ai cittadini attraverso una serie di tecniche
sperimentali che si adattano al contesto in cui si sta operando e al tipo di comunicazione
che si vuole instaurare (cap. 2). In seguito, l’analisi sull’evoluzione della pianificazione
partecipata dagli anni settanta ad oggi, e sulla tendenza assunta nell’ultimo decennio
dalle politiche internazionali e italiane, hanno reso necessario approfondire cosa si
intenda per "partecipazione", esplorandone le caratteristiche e le ragioni a favore e
contro (cap. 3), e come possa concretizzarsi nei processi di pianificazione, presentando
le principali tecniche partecipative (cap. 4).
La descrizione di come il coinvolgimento attivo dei cittadini nei processi di
trasformazione urbana possa assumere distinti gradi di intensità e di influenza, consente
infine di introdurre una particolare tipologia di strumenti partecipativi, i giochi di
simulazione, ed in particolare di presentare le caratteristiche, gli obiettivi, i pregi e i
difetti di GioCoMo (GIOco COmo MObilità).
INTRODUZIONE
La crescente complessità delle moderne società industriali, caratterizzate dalla
convivenza – talvolta forzata – di molteplici razze e culture, dalla presenza di interessi
corporativi che possono sfociare in aspri conflitti e dall’impossibilità delle fasce più
deboli della popolazione di intervenire nel processo decisionale, associata alla sempre
maggiore sfiducia nei confronti dell’elitaria rappresentanza politica, ha condotto
progressivamente la pratica urbanistica tradizionale alla crisi. L’incapacità nel gestire
comunità «sempre più differenziate e in rapido mutamento», ha infatti portato la
pianificazione «dirigista e autoritaria» a rivendicare solo «più autorità, più poteri, spesso
peggiorando la situazione»
1
, ossia accrescendo il divario tra sfera pubblica e privata,
indotto dalla mancanza di comunicazione e di fiducia. Si è reso quindi necessario
individuare e promuovere un alternativo approccio progettuale e comunicativo – la
pianificazione partecipata e condivisa – che prevedesse la collaborazione dei cittadini
alla costruzione di politiche pubbliche, in particolare urbanistiche, di cui saranno poi i
destinatari. Negli ultimi anni, queste pratiche "innovative" stanno diventando sempre
meno sporadiche, grazie anche all’iniziativa di alcuni istituti culturali (come l’INU) e
universitari (come il "Laboratorio Ombrello" dello IUAV e il "Laboratorio di
progettazione ecologica degli insediamenti" dell’Università di Firenze) che hanno
sollecitato un dibattito costruttivo attorno a questi temi, e incoraggiato l’attuazione di
processi di partecipazione nelle politiche urbane, come confermano le numerose
rassegne sulle esperienze partecipative presenti nella letteratura di settore.
La partecipazione, che sarà analizzata in seguito più dettagliatamente, può
avvenire in diversi modi, a seconda del grado di coinvolgimento effettivo: «Ci sono i
casi, più semplici, di consultazione, in cui i cittadini sono chiamati a esprimere il loro
punto di vista sul progetto predisposto dall'amministrazione, come avviene nelle
inchieste pubbliche (public inquires) britanniche. Ci sono esperienze più complesse in
1
Balducci A., (1996), "L’urbanistica partecipata", p. 18
Introduzione
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cui viene riconosciuto ai cittadini il potere di discutere il merito del progetto e a
negoziarlo con l'amministrazione o in cui il compito di definire l'intervento pubblico
viene interamente delegato alle comunità destinatarie. Esistono anche esperienze in cui
una specifica politica locale è affidata alla discussione e alla valutazione di un gruppo di
«cittadini comuni» o di utenti di un servizio (citizens panels o citizens juries).»
2
.
La scelta di ricorrere a pratiche partecipative di questo e di altro tipo è dettata
dalla necessità di costruire quadri di significato condivisi – attraverso un «processo di
reframing, cioè di de–costruzione delle immagini conflittuali e di ricostruzione di
possibili prospettive condivise»
3
– che consentano di ridurre i conflitti ideologici e
sociali, e di prevenire, o almeno mitigare, l’opposizione delle comunità direttamente
coinvolte negli interventi pubblici. È dettata inoltre dalla volontà, sia di rendere la
cittadinanza maggiormente consapevole e informata, sia di fornire uno strumento –
alternativo a quello del voto – che permetta di esprimere consenso (o eventualmente
dissenso) sull’operato pubblico.
Il passaggio dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa indotto
anche dalla presenza, nei moderni Stati democratici, di popolazioni sempre più
numerose e disperse sul territorio – ha reso le periodiche elezioni (e gli occasionali
referendum e plebisciti, adatti solo in casi particolari) gli unici mezzi legittimi di
espressione della volontà popolare.
«Dall’antichità classica al diciassettesimo secolo, la democrazia è stata
largamente associata con la riunione assembleare dei cittadini e con i luoghi
pubblici dedicati a tali incontri. Alla fine del diciottesimo secolo essa cominciò ad
essere pensata in termini di diritto della cittadinanza a partecipare alla
determinazione della volontà collettiva tramite la mediazione di rappresentanti
eletti.» (Held,1997)
Anche se «tutte le democrazie funzionanti» autorizzano, oltre al voto, «anche
l'espressione extraparlamentare del dissenso (marce, dimostrazioni di piazza, scioperi di
ogni specie)», eccetto, com’è ovvio, qualsiasi forma di violenza o di «altro atto che
costituisca reato»
4
, queste manifestazioni di malcontento godono sempre meno di una
2
Bobbio L., (2002), I governi locali nelle democrazie contemporanee, p. 192
3
Balducci A., (1995), "Progettazione partecipata fra traduzione e innovazione", in Urbanistica,
n.103, p. 116
4
Luttwak E. N., Creperio Verratti S., (1996), Che cos’è davvero la democrazia, p. 56
Introduzione
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effettiva considerazione da parte dei governanti che scelgono di non "cedere alla
piazza", cercando di mantenere il processo decisionale il più possibile al di fuori della
sfera pubblica, e quindi di negoziare le decisioni politiche "dietro le quinte". Delegando
l’esercizio del potere, i cittadini hanno perso il controllo sulle decisioni politiche,
ovvero la possibilità di sollevare problemi, proporre soluzioni alternative, intervenire
sull’agenda del governo, «devono limitarsi ad attendere le elezioni successive per
giudicare se [il leader eletto] ha governato bene o male» [perché] ogni altro
atteggiamento altererebbe la logica maggioritaria» (Rodotà, 2002). Dato che ciò «può
trasformarsi, e sovente si trasforma, in alienazione del potere decisionale, comportando
l'annullamento di fatto dei controlli democratici», e vi è il rischio che «i bisogni
concreti» siano «manipolati dalle interpretazioni di mediatori avulsi dalle contingenze
della vita quotidiana», «sembra imporsi la necessità di superare la democrazia
rappresentativa per realizzare una democrazia diretta» (Bobbio, 1981; Dahl, 1987).
Per questo motivo, di fronte ad una «"democrazia senza popolo"», determinata
non solo da una crescente astensione elettorale, ma anche dalla presenza di «assemblee
elettive [che] si svuotano di senso e di potere; diventano luoghi di registrazione
meccanica della volontà di maggioranze "blindate"», e ad un trasferimento della politica
«nel sistema dei media», molti cittadini, spinti dal «bisogno di vivere collettivamente la
politica», sono tornati ad occupare le piazze per far sentire la loro voce
5
. Appare quindi
necessario rispondere a questo «bisogno di autorappresentazione» derivante alla scarsa
fiducia dell’opinione pubblica per i politici, offrendo ai cittadini una partecipazione che
vada oltre la scelta elettorale o la consultazione attraverso referendum elettronici che
riguardano proposte elaborate senza la loro presenza. In tutto ciò, le tecnologie, spesso
già sperimentate a livello locale, avranno un ruolo determinante nel consentire alla
cittadinanza di intervenire effettivamente nelle diverse fasi del processo decisionale.
Da quanto detto, si evince che democrazia e pianificazione partecipata sono
strettamente interconnesse. Non è quindi possibile approfondire il tema della
partecipazione nell’ambito della pianificazione urbanistica, senza prima aver presentato
almeno una rapida rassegna dei modelli di democrazia presenti nella letteratura
(ponendo particolare attenzione alla legittimazione del potere, la formulazione delle
decisioni, la regolamentazione della partecipazione di base).
5
Rodotà S., (2002), "Democrazia senza popolo", in La Repubblica, 8 aprile 2002
CAPITOLO 1
LA DEMOCRAZIA
Una necessaria rassegna dei modelli di democrazia
La difficoltà di racchiudere la questione della "democrazia" in una definizione che
sia sufficientemente esaustiva e universalmente riconosciuta, è da attribuire alle
ambiguità e alle contraddittorietà prodotte dalle diverse nozioni teoriche sviluppate nel
corso della storia.
«Paradossalmente, il semplice fatto che la democrazia abbia una storia così lunga
ha prodotto in concreto confusione e disaccordo, poiché la stessa parola
"democrazia" ha assunto significati diversi per persone diverse, a seconda delle
epoche e dei luoghi. In effetti, per lunghe fasi della storia umana, essa è scomparsa
dalla prassi, restando viva solo come idea o retaggio nell’ambito di una preziosa
minoranza.[…] Persino nei rari casi in cui una "democrazia" o una "repubblica"
esistevano realmente, la maggioranza dei cittadini adulti non aveva il diritto di
partecipare alla vita politica» (Dahl, 2000, p. 5)
Malgrado tutti concordino nell’identificare la "democrazia" con quel sistema di governo
in cui il potere politico (cratos) è del popolo (demos), e nel contrapporla all’oligarchia
(governo di pochi) e alla monarchia (governo di uno), le diverse forme che ha assunto
nei secoli, hanno condotto a diverse modalità di rappresentazione delle preferenze
popolari, a differenti interpretazioni del ruolo dei cittadini nel processo decisionale.
«Storicamente il conflitto delle diverse concezioni è stato anche una lotta per
determinare se la democrazia significa un qualche tipo di potere popolare (una
forma di vita in cui i cittadini sono impegnati nell’auto–governo e nell'auto–
regolamentazione) oppure uno strumento utile al processo decisionale (un mezzo
per legittimare le decisioni di coloro che di volta in volta sono stati eletti alle
posizioni di potere, cioè i "rappresentanti".» (Held, 1997, pp. 15-16)
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
- 10 -
Chiaramente Held fa qui riferimento ai due principali modelli di democrazia: la
democrazia diretta o assembleare – nata tra VII e V secolo a.C. in molteplici pòleis, tra
cui Atene che ebbe una costituzione democratica dal 508 a.C. – e la democrazia liberale
o rappresentativa – sviluppata nel diciottesimo secolo a seguito delle vicende
rivoluzionarie americana e francese.
La concezione classica di "demokratia" e di "res publica"
La parola 'demokratia' fu coniata venticinque secoli fa in Grecia per definire un
sistema di governo basato sulla libertà, sull’uguaglianza dei cittadini, sul rispetto per la
legge e la giustizia, in cui «il demos deteneva il potere sovrano, cioè la suprema autorità
di esercitare le funzioni legislative e giudiziarie»
6
.
«… ad Atene con la parola demos ci si riferiva in genere all’intero popolo
ateniese, anche se, qualche volta, essa indicava soltanto il popolo comune o
addirittura i poveri. Così la parola "democrazia", a quanto pare, venne usata
talvolta dagli aristocratici in un’accezione critica, come una sorta di epiteto, per
esprimere il disappunto verso il popolo comune che aveva loro tolto il controllo
del governo.» (Dahl, 2000, p. 14)
La definizione di 'demos' ora citata può essere però fonte di malintesi perché, malgrado
la democrazia ateniese fosse definita "un governo dei molti" (Pericle) o "un governo dei
poveri" (Aristotele)
7
, in realtà, il privilegio di essere di volta in volta "governanti" e
"governati", non era concesso a tutta la popolazione: da essa venivano esclusi gli
"immigrati" «le cui famiglie si erano stabilite in Atene da molte generazioni», gli
schiavi, i minori e le donne. Pertanto, la cittadinanza attiva era costituita unicamente
dagli uomini sopra i vent’anni che avevano il diritto, e soprattutto il dovere, di
partecipare alla vita politica nelle assemblee perché, come afferma Tucidide
8
, chi si
astiene dall’adempiere agli incarichi pubblici, anteponendo ad essi i problemi personali,
non è da considerare "tranquillo", bensì superfluo
9
.
6
Held D., (1997), p. 32
7
Citato in Bobbio N., Lombardini S., Offe C., (1981), Democrazia, maggioranza e minoranze,
p. 16
8
Citato in Held D., (1997), Modelli di democrazia., pp. 31 e seg.
9
Held D., (1997), Op. Cit. pp. 40-41
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
- 11 -
Il luogo principe della democrazia ateniese era dunque l’assemblea (ecclesia), nella
quale, oltre a discutere e decidere con uguale potere di voto le questioni più importanti, i
cittadini divisi in demes (distretti locali) "eleggevano" dei candidati, precedentemente
sorteggiati, a rappresentarli nel Consiglio dei 500 (commissione esecutiva e
organizzativa dell’assemblea), nei Tribunali (in particolare nelle giurie popolari), nel
Consiglio dei 10, e nella Commissione dei 50 (incaricata di fare proposte al consiglio).
Le cariche, affidate in seguito ad un ulteriore sorteggio, erano di breve durata (nel caso
del Presidente della Commissione un giorno), e spesso potevano essere esercitate una
volta sola nella vita. L’impegno richiesto da queste attività era tale, da rendere
necessario il pagamento di uno 'stipendio', che li ricompensasse di eventuali danni subiti
durante l’adempimento del loro dovere civico
10
. Va però segnalato che i cittadini della
polis avevano anche la possibilità di affidarsi, «per un parere più oculato e per le
decisioni più accorte», al buon senso di persone ritenute più esperte o sagge, limitando,
di fatto, la loro partecipazione «alle votazioni e alle manifestazioni di approvazione o di
sdegno per le osservazioni di qualche oratore»
11
.
Ora resta da chiarire come abbia fatto Atene a diventare la pòlis egemone nel
mondo ionico–attico, la culla della democrazia partecipativa. Tra i fattori artefici di
questa unicità si possono annoverare: l’indipendenza militare ed economica; la presenza
di comunità con poche migliaia di abitanti, la cui vicinanza e coesione ha fatto sì che «le
notizie» circolassero «velocemente» e che «l’impatto degli ordinamenti economici e
sociali» fosse «quasi immediato»
12
; la possibilità dei cittadini «di militare a tempo pieno
nella politica», garantita sia dal lavoro di donne e schiavi nei campi, sia dalla
«specializzazione nelle colture della vite e dell'ulivo, meno esigenti di manodopera a
tempo pieno»
13
.
Tuttavia, l’incondizionata dedizione del cittadino agli affari pubblici che ha
caratterizzato la democrazia antica – assieme all’aumento della popolazione che ha
ridotto in modo considerevole la possibilità concreta di partecipare e intervenire
direttamente nell’agorà – è stata anche una delle cause del suo successivo declino nel
quarto secolo (Held, 1997).
10
Held D., (1997), pp. 36-40
11
Dahl R.A., (1987), Democrazia o tecnocrazia? Il controllo delle armi nucleari, p. 26
12
Held D. (1997), Op. Cit., p. 29 e seg.
13
Luttwak E.N., Creperio Verratti S, (1996), Op. Cit., p. 53
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
- 12 -
«L'assoluta politicità richiesta dalla conduzione in proprio dei pubblici affari crea
un profondo e instabile equilibrio tra le varie necessità e funzioni dell'esistenza
associata, perché a una ipertrofia della vita politica corrisponde inevitabilmente
l'atrofia della vita economica. Quanto più questa democrazia si perfezionava, tanto
più i suoi cittadini erano quindi destinati a diventare più poveri. La polis greca
non poteva dunque sfuggire al circolo vizioso, nel quale si aggirava, che era quello
di cercare un rimedio politico al malessere economico, di provvedere con la
confisca delle ricchezze alla insufficiente produzione di ricchezza. Perciò la
democrazia antica era fatalmente destinata a naufragare nella lotta di classe tra
ricchi e poveri, proprio perché allevava solo un animale politico e non anche un
homo oeconomicus.» (Bobbio, Lombardini, 1981, p. 17)
Nonostante il diritto di partecipare attivamente alla vita politica fosse riservato ad
una minoranza del popolo, Atene resta il primo e il più famoso esempio di democrazia
diretta – a detta di tutti, la maggiore conquista e innovazione della civiltà greca – e
come tale ha inevitabilmente influenzato il pensiero politico nel corso dei secoli.
Tra le diverse obiezioni rivolte agli ideali democratici, la più importante e la più
citata è quella esposta da Platone ne La Repubblica. Secondo la tesi del "governo dei
guardiani", i comuni cittadini non possiedono la competenza o la maturità sufficiente a
governarsi da sé, mentre esiste un’élite di esperti – i Custodi – che, sapendo individuare
il bene comune e conoscendo i mezzi migliori per raggiungerlo, sono più adatti degli
altri a gestire il potere
14
. Tale capacità deriva dal fatto che i guardiani, non avendo una
famiglia privata (il Socrate platonico ne ipotizza l’abolizione nel V libro della
Repubblica), considerano la polis come la loro famiglia, identificando così i loro
interessi con gli interessi dell’intera città.
Questa tesi, sebbene sia stata formulata nel lontano 390 a.C., è ancora molto
attuale: utilizzata «sotto le vesti dell'ideale tecnocratico», serve a giustificare la
mancanza di controllo democratico negli ambiti decisionali più complessi. A sostegno
del principio di meritocrazia, «le tecnostrutture» (composte dai 'competenti' tecnici e dai
burocrati) asseriscono che «i governanti dovrebbero prima di tutto avere la capacità di
prendere decisioni sagge e virtuose e […] non possono farlo se sono soggetti al
controllo democratico»; ne consegue che «il criterio di saggezza dovrebbe avere la
precedenza su quello di democrazia» (Dahl, 1987, p. 8)
14
Dahl R.A., (2000), Sulla democrazia, p. 75
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
- 13 -
All’incirca nello stesso periodo in cui apparve e si sviluppò la 'demokatia' nelle
pòleis greche, in Italia, e precisamente a Roma, nacque la 'repubblica' (509 a.C.),
strutturata anch’essa in un’assemblea popolare, formata in questo caso da comizi
centuriati, il cui compito era eleggere i magistrati supremi, e approvare o respingere le
leggi da loro proposte. A dispetto del suo significato in latino ("cosa che appartiene al
popolo"), questa forma di governo permise soltanto ai capi delle famiglie più antiche e
nobili della città di accedere alle cariche più elevate dello Stato. Ciò condusse,
ovviamente, ad uno scontro politico e sociale tra coloro che, essendone esclusi,
volevano conquistare l’accesso al governo (i plebei) e coloro che invece volevano
mantenere il potere per sé (i patrizi). Dopo due secoli, questi conflitti si risolsero
progressivamente a favore della classe sociale meno privilegiata, dapprima con
l’istituzione dei tribuni militari (445-444), poi con l’accesso al consolato (367) e infine
con il riconoscimento della validità dei plebisciti anche per i patrizi (287 a.C.).
Con la trionfale espansione militare, che rese Roma padrona indiscussa del
Mediterraneo, l’impero si trovò in una situazione analoga a quella greca: le istituzioni
politiche si rivelarono inadeguate a gestire un territorio sempre più vasto e una
popolazione in continua crescita. L’analogia tra Atene e Roma prosegue con la crisi
degli ideali democratici e repubblicani: nella prima ciò fu determinato dal dominio
oligarchico di Sparta e di Filippo di Macedonia, mentre nella seconda, grandi generali e
uomini politici (tra tutti Cesare), approfittando dei contrasti tra senatori e cavalieri, e
della crisi economica e produttiva causata dal prolungarsi delle campagne militari,
riuscirono ad instaurare dei regimi monarchici (dal I secolo a.C.), mantenendo intatte le
istituzioni repubblicane solo dal punto di vista formale.
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
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Il passaggio dagli ideali classici ad un nuovo sistema di governo
Con il declino della democrazia e della repubblica, si dovrà attendere un migliaio
di anni prima di veder comparire nuovamente il governo popolare, all’inizio in alcune
città del nord Italia, successivamente in molte città–repubblica rinascimentali
15
. Gran
parte di queste città preferirono instaurare un sistema di governo che si richiamasse agli
ideali repubblicani (libertà, virtù, gloria, potere militare), piuttosto che alle idee
democratiche dell’antica Grecia, colpevoli, a loro avviso, di non perseguire l’interesse
pubblico, di permettere alla «gente comune» una gestione tirannica del potere che
appiattisce «ogni distinzione sociale e privilegi di guadagno», nonché di essere «incline
all’instabilità, al conflitto civile ed alla debolezza» (Held, 1997, pp. 64-66).
Queste critiche sono facilmente riconducibili alla definizione aristotelica di democrazia:
«… la giustizia, nella concezione democratica, consiste nell’uguaglianza secondo
il numero e non secondo il merito, con la conseguenza che la folla sarà sovrana e
che fine della città e giusto sarà quello che sarà parso ai più. Poiché questa
concezione sostiene che ogni cittadino deve avere quanto qualsiasi altro, nelle
democrazie saranno più potenti i poveri dei ricchi, perché i primi sono in numero
maggiore, e fa la legge il parere dei più. […] Ora, poiché l’oligarchia si definisce
per nobiltà, ricchezza ed educazione e poiché le istituzioni democratiche
presentano caratteri opposti a quelli oligarchici, la democrazia sarà definita dal
predominio di persone di umili natali, della povertà e dell’esercizio delle arti
meccaniche.» (Aristotele, 1984, pp. 107-109)
Le città–repubblica, quindi, più che favorire il suffragio universale, il diritto di
opporsi al potere e l’accesso alle cariche pubbliche, promuovono i principi della
sovranità popolare e dell’auto–governo: i cittadini, non più sottomessi al «potere
arbitrario dei tiranni», ma unici detentori della sovranità (amministrata dai governanti
che garantiscono sicurezza e rispetto della legge), possono «svolgere i propri affari
pubblici partecipando attivamente al governo», e perseguire il bene comune,
anteponendolo agli «interessi propri e della famiglia»
16
.
15
Dahl R.A. (2000), Op. Cit., p. 17
16
Held D., (1997), Op. Cit., pp. 65-66
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
- 15 -
La rielaborazione degli ideali 'classici' nel pensiero politico rinascimentale ha dato
vita a rilevanti innovazioni istituzionali, e ha prodotto un’ampia letteratura sulla
strutturazione e regolamentazione di questi nuovi sistemi di governo, che può essere
distinta in due differenti correnti, denominate da Held, «repubblica di sviluppo» e
«repubblica protettiva».
Il «repubblicanesimo di sviluppo» rievoca l’importanza che ebbe il ruolo della polis
greca nell’auto–realizzazione dei cittadini – nonostante la «connotazione peggiorativa»,
assegnata da Aristotele e riproposta poi nel tredicesimo secolo, della parola 'democrazia'
– e sottolinea il «valore intrinseco della partecipazione politica per rafforzare il processo
decisionale e lo sviluppo della cittadinanza», definendola «un aspetto necessario della
buona vita».
Il «repubblicanesimo protettivo», invece, prendendo ad esempio la Roma repubblicana,
focalizza l’attenzione sulla tendenza della «virtù civica» di diventare faziosa,
corruttibile, se si coinvolge politicamente solo uno degli attori sociali tra popolo,
aristocrazia, monarca. Ecco perché propone un «bilanciamento di poteri» tra queste tre
forme politiche, un governo misto che attribuisce a ciascuna forza sociale «un ruolo
attivo nella vita pubblica». Diversamente dalla precedente teoria, qui si evidenzia
«l’importanza strumentale» della partecipazione – espressa mediante l’elezione di
rappresentanti – per la protezione degli interessi dei cittadini
17
.
Due figure chiave della tradizione repubblicana rinascimentale
I principali rappresentanti delle due accezioni di repubblicanesimo che,
influenzando il pensiero di Rousseau e Marx da una parte, e di Madison dall’altra,
ispirarono il «dibattito politico nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo», sono
rispettivamente Marsilio da Padova (1275–1342) e Nicolò Machiavelli (1469–1527).
Marsilio da Padova, in Defensor Pacis – trattato politico che gli costò la condanna
di eretico per aver dichiarato che la pace è costantemente insidiata dalla «pretesa
ecclesiastica di dominio temporale» – attribuisce all’imperatore il compito di garantire il
benessere dei cittadini, definendolo appunto «Difensore della pace»
18
.
Se da un lato, l’esercizio «dell’autorità coercitiva» è essenziale per mitigare gli
inevitabili conflitti tra gli uomini, ed ottenere così pace e prosperità, dall’altro, il
17
Tratto da Held D., (1997), pp. 67-69, 82, 90
18
D’Addio M., (1992), Storia delle dottrine politiche, p. 196
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
- 16 -
governo dev’essere legittimato dal consenso popolare, ed impiegare il potere soltanto
sulla base di tale volontà. Spetta, infatti, alla cittadinanza stabilire ed imporre le regole
di comportamento e le sanzioni in caso di disobbedienza perché, come scrisse lo stesso
Marsilio, la legge è «osservata di più da ogni cittadino se ognuno è coinvolto
nell'imporla a se stesso», essendo il risultato di un confronto e di una mediazione tra
punti di vista e scopi eterogenei
19
.
Per il portavoce della «repubblica di sviluppo», quindi, ciò che rende democratico
un sistema di governo è la partecipazione della comunità al «processo di formazione
della volontà politica e delle leggi»
20
, da cui sono però esclusi – come nel pensiero
classico – gli schiavi, gli stranieri, le donne. Il coinvolgimento nel processo decisionale
è riservato soltanto agli «uomini con proprietà tassabile, nati o residenti per un lungo
periodo nella città» perché, nel rinascimento, il governo popolare era considerato «una
forma di auto–governo» volta a rafforzare «gli interessi (basati sulla proprietà) nella
comunità locale»
21
. Nonostante l’innovativo contributo del pensiero di Marsilio a questa
corrente, il modello di partecipazione politica proposto non è concepito per essere
attuato in vasti territori, mentre
si
rivela adatto nelle piccole comunità come le «città–
repubblica autogovernate».
Già al tempo in cui Marsilio scrisse Defensor pacis (1324), molte comunità – tra
cui quella patavina – assistettero al declino del governo elettivo e alla conseguente
ascesa del governo ereditario
22
. Nel secolo successivo, nacquero e si svilupparono
diversi Stati italiani, spesso fra loro in conflitto, che troppo gelosi della propria
autonomia politica, affrontarono le «mire egemoniche ed espansionistiche» dei due
nascenti Stati–nazione (Francia e Spagna) con mezzi inadeguati rispetto al periodo
storico: «una raffinata arte diplomatica» ed «un sistema di alleanze» ormai fittizio
23
.
Con i mutamenti socio–economici, culturali, e soprattutto politici, che
determinarono la crisi degli Stati italiani alla fine del Quattrocento, e ne furono il
conseguente prodotto nel corso del Cinquecento, nacque la necessità di definire una
forma di governo capace di gestire le instabilità e i conflitti, e di mantenere allo stesso
19
Held D., (1997), Op. Cit., pp. 71-72
20
D’Addio M., (1992), Op. Cit., p. 198
21
Held D., (1997), Op. Cit., p. 74
22
Held D., (1997), Op. Cit., p. 75
23
D’Addio M., (1992), Op. Cit., p. 284
Capitolo 1 – LA DEMOCRAZIA
- 17 -
tempo la propria indipendenza.
Nicolò Machiavelli, tra i primi ad intraprendere questa ricerca, analizzò nelle sue
opere più importanti (Il Principe e i Discorsi) due tipologie di Stato molto differenti: nel
1513, si occupò del principato, ordine politico in cui il comando è affidato ad un solo
individuo (ma che poteva assumere anche forme diverse dal governo assoluto), e sei
anni più tardi, esaminò la repubblica, forma di Stato in cui il popolo, quale garante della
libertà e nemico dell’oligarchia, «può partecipare al governo della cosa pubblica»
24
.
Tale partecipazione, così com’è formulata nei Discorsi (1519), non è però una
prerogativa esclusiva del popolo perché l’autore, rievocando il modello dell’antica
Roma repubblicana – «fondata sulla compartecipazione al potere politico del principe,
degli ottimati e del popolo» – propone una forma di governo misto, che combini
monarchia, aristocrazia e democrazia
25
. Strutturato «per compensare i difetti delle
singole forme costituzionali» – in particolare l’elevata instabilità e la tendenza a
degenerare in tirannia, oligarchia, anarchia –, un governo di questo tipo ha il pregio di
«bilanciare gli interessi di gruppi sociali contrapposti» e di «promuovere una cultura
dalla quale discenda la virtù»
26
.
Se per Marsilio da Padova il conflitto costituisce un ostacolo alla mediazione dei
diversi interessi, perché solo in un regime di auto–governo, in cui pace e benessere
favoriscono la partecipazione politica, la volontà popolare si esprimerà in una «legge
buona ed effettiva», per Machiavelli è proprio attraverso il disaccordo fra le parti sociali
che si possono promuovere e difendere gli interessi dei cittadini. Il dissenso non è
quindi un ostacolo, bensì la condizione necessaria ad ottenere una legge più giusta ed
equa. Infatti,
«Se i ricchi ed i poveri possono essere inseriti contemporaneamente nel processo
di governo, ed i loro interessi trovano una strada legittima di espressione tramite
una divisione delle cariche, allora essi saranno costretti a cercare una qualche
forma di reciproco accomodamento. Come guardiani delle rispettive posizioni, essi
dovranno produrre grandi sforzi per garantire che le nuove leggi non incidano
negativamente sui loro interessi. Il risultato di tali sforzi sarà probabilmente un
corpo di leggi che ogni parte finirà per accettare.» (Held, 1997, p. 78)
24
D’Addio M., (1992), Op. Cit., pp. 288-289
25
D’Addio M., (1992), Op. Cit., p. 289
26
Held D., (1997), pp. 76-78