1
1-Cenni Storici
Accanto alla Proprietà, che costituisce il diritto reale
per eccellenza, il nostro Ordinamento conosce altre
forme tradizionali di diritti reali cd. limitati quali
l’Usufrutto, l’Uso, la Superficie, l’Enfiteusi,
l’Abitazione e la Servitù, le quali, a differenza del
diritto di proprietà, che ai sensi dell’art. 832 del Codice
Civile attribuisce al proprietario “……il diritto di
godere e disporre delle cose in modo pieno ed
esclusivo….”, in misura diversa l’una dall’altra
comprimono il diritto del proprietario. Grazie a tale
prerogativa già il diritto romano aveva avvertito
l’esigenza di creare il principio del numerus clausus
dei diritti reali; il relativo istituto è stato scoperto e
regolato dal diritto romano e la sua attuale disciplina
risale proprio alla giurisprudenza del periodo romano
classico e di quello giustinianeo. Tuttavia, nell’antico
diritto romano, le servitù non erano considerate come
iura in re aliena, ma come domini su porzioni di
terreno (per esempio della striscia di passaggio); fu
solo successivamente, in relazione alle esigenze dell’
2
agricoltura e dello sviluppo edilizio, che cominciò a
delinearsi la differenza tra le “servitù personali”, quali
l’usufrutto, l’uso o l’abitazione, dove manca il rapporto
tra due fondi, e le “servitù prediali” dove invece è
presente solo il suddetto rapporto. Però, pur subendo
un notevole ampliamento, le servitù riconosciute
rimasero sempre fissate in schemi tipici, corrispondenti
alle utilità e necessità per le quali si riteneva giusto il
sacrificio della libertà naturale dei fondi; questa regola
trovava la sua giustificazione nella tendenza romana ad
ammettere solo in via eccezionale la restrizione degli
ampi poteri del proprietario.
1
Tuttavia, fu proprio
attraverso l’elaborazione dei singoli tipi di servitù, che
la giurisprudenza romana giunse a delineare i caratteri
comuni dell’istituto e l’idea di servitus quale categoria
di carattere generale. Proprio basandosi su tali
progressi, il diritto giustinianeo potè pervenire
all’opposta concezione dell’atipicità delle servitù,
riconoscendo cioè che le parti fossero libere di
determinare il contenuto specifico di tale diritto reale.
1
A.Burdese, in Noviss. Dig. It., XVII. Torino, 1970, p.119 e
seg..
3
Più precisamente, come è stato opportunamente
sottolineato da alcuni autori
2
, la dottrina romana delle
servitù sembrava oscillare tra due opposti punti di
vista: da un lato, essa avrebbe conosciuto solo una
serie, sia pur molto ampia, di tipi di servitù, individuati
nel loro contenuto, dall’altro, essa avrebbe conosciuto
anche la categoria generale delle servitus, definita nei
suoi caratteri e requisiti, con libera determinazione del
contenuto da parte dei privati. Rispondeva a tale
esigenza la necessità di evitare che la proprietà, il
diritto reale a contenuto più ampio, fosse vanificata da
un indiscriminato proliferare di altri diritti reali creati
dalla volontà dei privati. Fu solo col regime feudale,
ben lontano dai principi ispiratori di un’economia
liberale, che si accentuò fortemente la tendenza a
racchiudere la volontà dei contraenti in schemi tipici;
d’altro canto quel regime, che si caratterizzava per il
proliferarsi dei privilegi e della suddivisione della
società in classi, non poteva certo non considerare che
2
Grosso e Dejana, in Trattato Vassalli, Le Servitù Prediali,
Utet,1963; P.Vitucci, Utilità e interesse nelle servitù prediali.
La costituzione convenzionale delle servitù, Milano, Giuffrè,
1974, p.23 e ss.
4
tutto ciò che attenesse alla sfera di limitazione dei
diritti del proprietario latifondista dovesse racchiudersi
in rigidi schemi chiusi. Fu solo grazie alla rivoluzione
francese che venne sancito il trionfo della libertà
politico-economica e si avvertì l’esigenza di concrete
riforme, dirette ad abolire ogni sorta di diritto e di
privilegio, a ridistribuire le proprietà immobiliari
confiscate ai nobili e agli enti ecclesiastici e ad abolire
la figura delle servitù personali; in sostanza si è cercato
di ostacolare la formazione di una nuova manomorta.
A seguito di tali eventi storici la proprietà, divenuta
sacra e inviolabile, cominciò a rappresentare il diritto
fondamentale sui beni; d’altronde, per ragioni di utilità
economico-sociali, il legislatore del “Code Napoleon”
non poté non essere cauto nei riguardi del
riconoscimento di talune figure di diritti su cosa altrui,
per la paura di imporre dei vincoli al diritto
fondamentale di proprietà. Di conseguenza furono
ridotti al minimo gli schemi ammessi, ritornando a quei
pochi previsti dal diritto romano: l’Usufrutto, l’Uso,
l’Abitazione, le Garanzie reali e le Servitù.
5
Sull’onda di questa riforma anche il legislatore italiano
del 1865 optò per il principio romanistico del numerus
clausus dei diritti reali.
Giova ricordare come nell’attuale disciplina del Codice
Civile del 1942 parte della dottrina civilistica continua
ancora ad essere favorevole a tale principio di origine
romanistica, adducendo una serie di argomentazioni
sicuramente valide; d’altro canto c’è anche chi
sottolinea come l’incessante dinamismo dei rapporti
economico-sociali dell’ultimo secolo abbia bisogno di
schemi tipici (numerus clausus), ma ha anche bisogno
di adeguare il contenuto degli accordi negoziali alle
esigenze dei privati (“atipicità”)
3
.
3
Per la differenza tra il principio del numerus clausus e il
principio della “tipicità dei diritti reali” si rimanda ai § 5 e ss.
6
2 – La nozione di servitù
Il Codice Civile vigente definisce, all’art. 1027, la
servitù come “… peso imposto sopra ad un fondo per
l’utilità di un altro fondo appartenente a un diverso
proprietario”. La servitù consiste, quindi, in un “diritto
reale minore di godimento di un predio …. su un altro
predio ….”
1
che si concretizza nel peso imposto su un
fondo, avente un contenuto speciale di utilizzazione
parziale e determinata. Dalla nozione, che ci viene data
dal legislatore, la Dottrina, oramai consolidata, ritiene
che un diritto di servitù può essere vantato
esclusivamente su un bene immobile, il quale,
interpretando letteralmente l’art. 1027, dovrebbe essere
il cd. fondo servente
2
. Un altro interessante aspetto è
costituito dal rilievo che il legislatore, non solo nell’art.
1
Voce Servitù, in Enc. Dir., XLII, Milano, Giuffrè, 1990, p.277;
2
Branca, Servitù prediali, in Commentario Scialoja e Branca,
(artt. 1027 – 1099), Zanichelli-Foro it., 1987; P.Vitucci, Utilità
ed interesse nelle servitù prediali. La costituzione convenzionale
delle servitù, Milano, Giuffrè, 1974; Biondi, Le servitù, Milano,
1967; A. Burdese, Servitù prediali, Milano, 1960.
7
1027, ma anche nel successivo art. 1028, si è
preoccupato di dare una definizione all’utilità che
deve accompagnare il contenuto di qualsiasi servitù. Al
riguardo, quindi, essa può “consistere anche nella
maggiore comodità o amenità del fondo dominante”.
Da ciò si evince che il godimento e i vantaggi, che
spettano al fondo dominante, devono derivare
dall’utilità che può o che deve fornire il fondo
servente; a maggior ragione, il beneficio che viene
concesso da un soggetto ad un altro, o più
precisamente, dal titolare del fondo servente al titolare
del fondo dominante, dovrebbe avere un contenuto che
può essere determinato solo attraverso la cd. funzione
strumentale fondiaria.
Quindi, uno dei primi aspetti peculiari della servitù è
che essa resta indissolubilmente legata al diritto sul
fondo; per cui, il “rapporto di servizio” riguarda (o
almeno dovrebbe riguardare) solo i fondi, non anche i
soggetti proprietari
3
, con la conseguenza, quindi, che il
peso ha natura reale e non personale.
3
Consiglio di Stato, sez. IV, 15 luglio 1999, n° 1246, in Rep.
Foro it., 1999, p. 2060.
8
Il carattere specializzante lo si coglie all’interno stesso
dei diritti reali: nel diritto di proprietà, per esempio,
esso si concretizza con il potere di signoria sulla cosa
nei confronti di chiunque, ai sensi dell’art. 832 del
Codice Civile; nell’usufrutto c’è una partecipazione
congiunta al godimento della “res”, anche se i poteri
del “nudo proprietario” sono compressi poi a tutto
vantaggio dell’usufruttuario. Nelle servitù, invece, non
si verifica l’“annientamento” dell’interesse di un
soggetto a favore di un altro, ma c’è una vera e propria
distribuzione di utilità che si evidenzia con lo scopo,
ovvero con la cd. “collaborazione fondiaria”. Difatti,
l’interesse di un soggetto, titolare di un fondo, è
ovviamente legato al fondo e ai suoi bisogni; corollario
di questa affermazione è che alla base di ogni servitù vi
è un “principio di collaborazione fondiaria”. Ecco
perché il legislatore ha posto l’accento sul “peso
imposto al fondo”, piuttosto che sul rapporto tra i
soggetti titolari. Sottolinea ancora il suo carattere di
“realità” l’impossibilità di alienare il diritto
separatamente dal fondo dominante; tant’è vero che,
spesso, nei contratti di compravendita di beni
9
immobili, viene inserita una clausola di stile: “vendo
… con tutte le relative servitù attive e passive”.
L’interesse, che sta alla base di ogni diritto soggettivo,
in tal caso assume un particolare vigore: mentre negli
altri diritti patrimoniali è sufficiente che vi sia al
momento della nascita, nelle servitù esso deve
accompagnare l’intera vita del rapporto giuridico, visto
che ne costituisce, secondo la stessa definizione
legislativa, un elemento fondamentale. Quindi, se
manca quel particolare interesse, vale a dire l’utilità
fondiaria, la servitù non nasce, e, se viene meno
l’utilità, essa si estingue dopo venti anni. È quanto si
ricava dal combinato disposto degli artt. 1074 e 1073
del Codice Civile, in base al quale “… il venir meno
dell’utilità non fa estinguere la servitù, se non è
decorso il termine di prescrizione di venti anni (art.
1073)”.
10
2.1 – La servitù come diritto reale di
godimento.
La servitù appartiene alla categoria dei diritti reali di
godimento su cose altrui. Autorevole Dottrina
1
ha
evidenziato i caratteri che appartengono ad essa:
l’immediatezza, intesa come diretta utilizzazione del
bene da parte del proprietario del fondo servente,
l’assolutezza, intesa come opponibilità nei confronti di
chiunque, ed infine l’inerenza (attiva e passiva), per cui
il trasferimento del fondo dominante implica anche il
trasferimento delle relative servitù. L’opinione
dominante, quindi, le inquadra nell’ambito dei diritti
reali di godimento, intendendosi, però, il godimento
sotto una luce particolare; proprio perché si parla di un
godimento, in relazione ad un diritto reale (e non ad un
diritto di credito), esso deve intendersi come il diritto
di ricavare dal fondo quell’utilità che può o che deve
fornire.
1
M. Comporti, Servitù (diritto privato), in Enc. Dir. XLII, Milano, Giuffrè,
1990, p.274; Grosso, in Grosso e Dejana, Le servitù prediali, Torino, Utet,
1963, p.23.
11
A ben guardare, l’istituto della servitù, più di ogni altro
istituto di diritto reale, rappresenta la stretta relazione
che intercorre tra la situazione “reale” e la cosa, invece
di focalizzare l’attenzione sul rapporto soggettivo tra i
titolari del diritto.
Ancora oggi la più incisiva individuazione della
struttura delle servitù è data dalla formula che
evidenzia l’inerenza di essa sul fondo servente, per
l’utilità del fondo dominante. Dal particolare rapporto
di assoggettamento di due fondi, si ricava una duplice
considerazione: dal lato passivo il peso si incorpora sul
fondo servente, seguendolo in tutti i suoi passaggi, dal
lato attivo, invece, il diritto compete solo a quel
soggetto che sia proprietario del fondo dominante
2
.
Essendo inquadrato nella categoria dei diritti reali di
godimento, almeno secondo l’opinione
2
Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, I diritti reali, Utet,
1988, p.236.
12
dominante
3
, si caratterizza per attribuire al
proprietario del fondo l’immediato godimento sulla
cosa, senza alcuna necessità che vi sia
l’intermediazione di un altro soggetto, cioè del
proprietario del fondo servente. Queste caratteristiche
distinguono nettamente il diritto di servitù da un diritto
di credito, che si concretizza, invece, quando il
proprietario del fondo si obbliga, “a titolo personale”,
nei confronti di un altro soggetto, ad eseguire una
prestazione nel suo interesse.
3
Non sembra essere d’accordo Biondi, in Le servitù, Milano,
1965, p.7, per il quale nelle servitù positive non c’è godimento,
dato che “chi esercita un passaggio …. non gode del fondo
altrui, …. ma ha soltanto il potere di operare su di esso”.
13
2.2 - Le principali distinzioni relative alla
servitù.
Nel Capo dedicato alle servitù prediali il legislatore ha
fornito la distinzione tra servitù affermative e negative,
continue e discontinue, apparenti e non apparenti,
cosiddette legali e coattive .
Per quanto riguarda la distinzione tra le servitù
affermative e quelle negative, argomentando dall’art.
1073 comma 2 del Codice Civile quella negativa è
quella che si limita a considerare la pretesa, da parte
del titolare, nei confronti di tutti i terzi, ad un
comportamento negativo di non facere. Sarà invece
affermativa quella che attribuisce al titolare la facoltà
di esplicare ingerenze positive sul fondo servente: in
particolare, attraverso l’obbligo gravante sui terzi di
non impedire quelle ingerenze. Al riguardo, una parte
della dottrina,
ha obiettato che non si potesse
considerare la servitù come un diritto reale di
godimento, proprio in relazione alle servitù negative; in
particolare, secondo tale autore, la servitù negativa
14
consisterebbe in un’obbligazione negativa
1
. Ma,
secondo altri autori, “l’idea secondo la quale la servitù
negativa consisterebbe in un rapporto obbligatorio urta
contro…l’osservazione che……la servitù comporta un
dovere di non ingerenza da parte di chiunque possegga
o si trovi a qualsiasi titolo nel fondo servente. Ad
escludere l’ipotesi del rapporto obbligatorio manca
quindi il presupposto della determinatezza del soggetto
passivo”
2
.
E’ la stessa norma, quando parla di “servitù per il cui
esercizio non è necessario il fatto dell’uomo”, a
presupporre, come sottocategoria delle servitù
affermative, la distinzione tra servitù continue e
servitù discontinue: ma, bisogna specificare che, tale
distinzione, è utile al fine di determinare l’inizio del
non uso, che è un atteggiamento che porta
all’estinzione del diritto.
E’ stato invece il diritto intermedio a contribuire alla
distinzione tra le servitù apparenti e quelle non
1
Biondi, ivi cit., p.7;
2
C. Massimo Bianca, “Diritto Civile”, Tomo VI, La Proprietà,
Milano, Giuffrè, 2001, p.643.