Introduzione II
Questa neo visione della risorsa “conoscenza”, che viene a plasmarsi ed a
predominare sempre più sui mercati internazionali, invade ormai anche settori che
in precedenza erano estranei a tali metodologie come appunto quello della ricerca.
A dimostrazione di ciò, anche il Consiglio Europeo, nella riunione straordinaria di
Lisbona tenutasi nel marzo 2000, ha sancito la necessità, per il sistema della
ricerca dell’UE, di fronteggiare le sfide che la globalizzazione dell’economia
impone, fissando come obiettivo il portare l’Europa ad avere un’economia “basata
sulla conoscenza”, in grado d’essere competitiva nei confronti dei colleghi d’oltre
oceano.
Gli interventi che si dovrebbero apportare negli Enti di ricerca, non riguardano
solo gli investimenti pubblici o privati, ma anche e soprattutto attività di
gestione/organizzazione e organizzazione manageriale delle risorse umane
(reclutamento, mobilità, formazione, incentivazione ecc.), vero patrimonio da
valorizzare.
Partendo da tali presupposti si è pensato di sviluppare un lavoro che analizzasse la
fattibilità di esaminare gli Enti Pubblici di Ricerca (EPR) secondo una prospettiva
aziendale, cercando di stimare l’opportunità di implementare, all’interno di una
realtà così diversa da quella tipica aziendale, un sistema informativo di supporto
alla gestione della conoscenza.
In collaborazione con l’ENEA è stato possibile dare vita ad un lavoro che si
proponeva di addurre ragioni sulla possibilità di gestire gli Enti Pubblici di
Ricerca come un’azienda e, nello specifico, valutare l’eventualità di applicare in
essi sistemi di gestione della conoscenza in grado di migliorarne le performance.
Dopo un primo incontro con l’ENEA, nella figura dell’Ing. M. DI Marco
(responsabile dei sistemi informatizzati dell’ENEA) avuto a Roma presso la sede
centrale dell’Istituto, è nata la motivazione che ha poi spinto alla realizzazione di
questo studio, ovvero, la sfida di costruire una visione degli EPR che riflettesse la
tipica struttura organizzativa aziendale, dove implementare un sistema di gestione
della conoscenza in grado di far competere con successo l’Ente, mobilitando le
differenti conoscenze sedimentate tramite l’esperienza.
Introduzione III
L’obiettivo appare chiaramente interessante se si considera che si vuole applicare
una metodologia organizzativo/aziendale ad un Ente governativo che risulta essere
quasi totalmente allo scuro di tali pratiche.
Per raggiungere lo scopo si è pensato, quindi, di suddividere il lavoro in varie fasi
così composte: nel primo capitolo si descrivono le modalità con cui lo studio della
conoscenza si è imposto negli anni quale tema tra i più dibattuti nelle discipline
aziendali, fino ad individuare nella conoscenza la risorsa primaria
dell’organizzazione, concetto che ha portato, con il tempo, alla nascita di nuove
pratiche manageriali, evolutesi in modo indipendente e focalizzatesi di volta in
volta su diversi fenomeni e tecniche, pervenendo alla definizione del Knowledge
management, di cui si cercato di riportare una descrizione abbastanza esplicativa
nel secondo capitolo.
Tutto ciò è servito per dare fondamento teorico al concetto di gestione della
conoscenza, rilevando la sua criticità all’interno dei moderni processi di gestione e
tentando di proporne una possibile applicazione negli EPR.
Il passo successivo è stato quello di inquadrare nel terzo capitolo l’ambiente in cui
operano gli Istituti: si è quindi analizzato il sistema della ricerca italiano
evidenziandone le mancanze, le dipendenze dalle disposizioni statali (Piano
Nazionale della ricerca) ed europee (VI° Programma Quadro) cercando, anche, di
disegnare sinteticamente il quadro complessivo della realtà comunitaria. In tal
modo si è tentato di spiegare come la struttura organizzativa dell’Ente non sia
autonoma, bensì vincolata, nell’applicazione delle decisioni strategiche, ad una
realtà politica nazionale e sopranazionale, quale appunto quell’europea, che
impone di seguire linee di gestione dettate da schemi ben precisi. Linee che sono
di fatto varate in ambiti governati (governo italiano e parlamento europeo) con il
relativo carico d’influenza politica e che, quindi, ben si distaccano da una
mentalità aziendalistica che si prospetta di applicare negli Istituti.
In seguito, per capire a fondo la loro struttura organizzativa e le relative capacità
nascoste, si è analizzata la struttura dei principali Enti di ricerca nazionali quali
ENEA e CNR, focalizzandosi logicamente sul primo.
Introduzione IV
Facendo una panoramica sull’attuale situazione in cui versa il sistema della ricerca
italiano, si è evidenziato che la ricerca si trova in un periodo di gran cambiamento,
in cui il governo tenta di applicare una riforma sostanziale all’intero sistema per
sconfiggerne le mancanze e avvicinarlo a quello dei colleghi europei. Partendo da
ciò si è ritenuto opportuno, nel quarto capitolo, valutare il processo di riforma in
atto, evidenziandone le discrepanze e i benefici che potrebbe apportare, specie in
riguardo al CNR (qui visto come Istituto rappresentativo dell’intero sistema della
ricerca italiana) su cui grava la ristrutturazione più sostanziale, ed analizzando il
tipo di struttura organizzativa che essa si propone di applicare agli Enti nonché la
sua compatibilità con gli attuali canoni di competitività europei.
Infine, avendo chiarito l’affidabilità di un progetto di KM ed esaminato la
struttura del sistema della ricerca che la riforma intende edificare, è stato possibile
analizzare personalmente un prototipo di sistema informativo di gestione della
conoscenza, attualmente in fase di realizzazione presso la sede ENEA di Bologna.
Svolgendo un’intervista al gruppo di lavoro ed in particolar modo al Dott. C. Zini,
amministratore del progetto Minotauro (questo è il nome del prototipo in
applicazione), è stato possibile non solo valutare le effettive intenzioni che
l’ENEA si prefigge di raggiungere con il progetto, le discrepanze, le divergenze
interne dovute alla sua implementazione e gli innumerevoli, giornalieri, problemi
burocratici su cui si scontra, ma anche l’intera infrastruttura (hardware e software)
su cui questo si basa, valutandone la dislocazione sul territorio.
Il bagaglio informativo tratto da tal esperienza ha dato la possibilità di rilevare
come l’implementazione in un Ente di ricerca di un sistema di gestione della
conoscenza, ad immagine di Minotauro, permetterebbe di avere dei
miglioramenti considerevoli nella gestione complessiva dell’Istituto, quindi, non
solamente in termini di economie di costo, ma in termini di miglioramento dei
risultati complessivi prodotti dall’Ente.
Alla fine dell’analisi si è potuto dare una risposta a quello che era l’interrogativo
inizialmente posto dall’ENEA per lo svolgimento del lavoro; si è giunti ad
affermare, di fatto, che gli istituti di ricerca, nella loro accezione più ampia,
Introduzione V
possono essere considerati come delle aziende il cui prodotto finito è costituito
dall’uomo, dal ricercatore in grado di produrre delle eccellenze che costituiscono
la linfa dell’innovazione.
L’ente di ricerca è quindi definibile come un’organizzazione che intende favorire
la creazione e la diffusione della conoscenza per adempiere alla sua mission.
Il tutto porta ad attestare non solo la validità di considerare gli Enti di ricerca sotto
un’ottica aziendale, ma, anche che, l’implementazione in essi di un sistema di
gestione della conoscenza, garantirebbe agli Istituti di ricerca un miglioramento
dei risultati complessivi di gestione, grazie alla possibilità di ottimizzare i processi
aziendali attraverso l’incremento del valore da essi prodotto rispetto al costo
generato.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
1
Capitolo 1 - L’evoluzione delle teorie Knowledge-based -
1.1 La conoscenza da disciplina mentale a teoria economica
Lo studio della conoscenza si è imposto negli anni come uno dei temi più dibattuti
nelle discipline aziendali, abbracciando anche altri settori didattici come la
sociologia, la psicologia, la filosofia, l’ingegneria, l’informatica. In realtà si tratta
di un tema così vasto che dirama le sue radici praticamente in ogni branca del
sapere e che interessa l’umanità da millenni, recando come testimonianza
l’esistenza di una disciplina mentale, nota come filosofia, la cui etimologia
esprime esattamente “l’amore per la conoscenza”. La ricerca filosofica sulla
conoscenza è detta appunto “epistemologia”, il termine indica la disciplina
filosofica che studia la conoscenza individuandone i fondamenti ed i criteri di
validità. In questo periodo in Italia il termine (dal greco episteme, “conoscenza” e
logos, “discorso”) possiede due significati distinti: nel senso più comune,
s’identifica come sinonimo di filosofia della scienza, ovvero di quella branca della
filosofia che ha per oggetto lo studio dei problemi posti dal metodo e dal sapere
scientifico; nel secondo senso, più vicino all’uso del termine inglese
epistemology, è considerato come sinonimo di teoria della conoscenza e
s’identifica con la gnoseologia
1
, ossia lo studio dei limiti e della giustificazione
della conoscenza rispetto ad altre forme d’esperienze umane.
La storia della filosofia fin dalle sue radici più lontane che si diramano nella
Grecia classica di Protagora, Platone ed Aristotale, si prefigge di spiegare la
natura della conoscenza. In seguito, il problema epistemologico, dal XVII° alla
fine del XVIII° secolo, assume un ruolo principale nella filosofia, tant’è vero che
la filosofia occidentale è fortemente segnata dalla ricerca di un metodo capace di
stabilire la verità ultima della conoscenza e di scoprire “la conoscenza
fondamentale che non ha bisogno di prova od evidenza”, ciò ha dato vita a due
1
Gnoseologia: Disciplina filosofica che studia la conoscenza, cercando di darne una definizione e
di indagare la possibilità intrinseca, i criteri e i limiti, ponendosi il problema della sua verità.
Sinonimi di gnoseologia ( dal greco gnosis,”conoscenza” e logos, “discorso”) sono la teoria della
conoscenza e, in particolare nella cultura anglosassone, il termine “epistemologia”.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
2
grandi tradizioni epistemologiche: il razionalismo e l’empirismo. La tradizione
filosofica occidentale è stata a lungo dominata da un concetto predominante la
scissione tra soggetto cosciente (colui che conosce) e oggetto della conoscenza
(ciò che è stato conosciuto) che trova fondamento teorico nelle teorie del dualismo
Cartesiano. Il filosofo francese, più noto in Italia con il nome di Renè Descartes
2
fu il caposcuola dei razionalisti continentali, raccogliendo l’eredità di Platone ed
Aristotele, sostenne che Dio aveva creato due sostanze: la sostanza pensante (res
cogitans), la cui sostanza principale era il pensiero, e la sostanza estesa (res
extensa), la cui caratteristica essenziale è quella di occupare una determinata
estensione fisica; mentre la sostanza pensante si conforma alle leggi del pensiero,
la sostanza estesa si conforma alle leggi meccaniche della fisica, né nasceva il
problema di conciliare l’anima, giacché spirituale ed in estesa, con il corpo, in
quanto realtà materiale ed estesa. La bipartizione della realtà in queste due
sostanze è nota come dualismo cartesiano. Le teorie di Cartesio hanno
influenzato, per non dire dominato, la filosofia occidentale che per secoli si è
basata sul concetto di scissione fra soggetto conoscente ed oggetto della
conoscenza, infatti, la storia della filosofia occidentale degli ultimi due secoli può
essere vista come un continuo sforzo nel superare il dualismo cartesiano, sforzo
che però si è evidenziato nullo.
Risulta evidente valorizzare quest’aspetto storico in quanto la tradizione filosofica
occidentale ha fatto da modello alle discipline economiche, al management e alle
teorie organizzative, che a cascata hanno influenzato il pensiero manageriale per
quanto riguarda la conoscenza e l’innovazione.
Una delle pietre miliari della letteratura manageriale sul knowledge management
(Nonaka 1994)
3
pone la questione fondamentale sul dualismo epistemologico che
permea tutto sul dibattito riguardante la natura della conoscenza. Secondo
Nonaka, da un alto vi è un approccio oggettivista -che ritiene di matrice
occidentale- e che vede il sapere come materia generale ed astratta e pertanto
indipendente dal soggetto conoscitore; dall’altro lato vi è un approccio
2
Cartesio, Discorso sul metodo, Laterza, Roma-Bari 1982.
3
Bonifaccio, Bouquet, Merigliano, “Genesi e caduta del KM”, Economia & Management,
n° 3 Maggio-Giugno 2002, cit. pag. 70.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
3
soggettivista -di matrice tutta orientale- che vede il sapere come materia specifica
e concreta, intimamente legata all’esperienza conoscitiva del soggetto, anche
Nonaka, quindi, evidenzia che l’approccio occidentale considera il sapere come la
descrizione di un oggetto di conoscenza così com’è in sé, indipendentemente dal
soggetto (è qui evidente il richiamo al dualismo cartesiano), dalle sue credenze,
dal suo background culturale e sociale. Per il secondo approccio, sapere è
descrivere la relazione che s’instaura tra un certo soggetto che conosce e l’oggetto
di tale conoscenza, quindi secondo tale punto di vista conoscere vuol dire
influenzare ciò che si conosce e, per certi versi, “produrre” le condizioni della sua
esistenza.
La natura oggettiva del sapere ha spinto la filosofia occidentale a radicare in sé
una concezione “dell’organizzazione vista come una macchina deputata
all’elaborazione d’informazioni”, ciò ha creato una visione della conoscenza come
un evento esplicito ed in qualche misura formale e sistematico, quindi l’approccio
occidentale risulta focalizzato sulla conoscenza esplicita che viene spesso espressa
in forma numerica e verbale e che può essere comunicata e condivisa in forma di
dati grezzi, formule, procedure codificate o assiomi. Essa è spesso assimilata ad
un codice informatico, una formula chimica o un sistema di regole generali
4
.
Questa concezione ha penalizzato le imprese occidentali per anni impedendole di
sfruttare al meglio una risorsa che oggi è definita come critica e che tra l’altro gia
possedevano nel capitale umano a loro disposizione.
In definitiva è possibile verificare che il concetto di conoscenza è un tema
sviluppatosi storicamente dapprima in occidente, ma che negli anni novanta, ha
determinato una vera e propria esplosione di contributi letterari specifici
nell’economica. Il mondo del business ha visto in questi anni l’emergere di un
tema per certi versi già affrontato nel mondo accademico: il sapere come oggetto
d’analisi nelle organizzazioni economiche. Già Penrose (1959)
5
evidenziava che
l’azienda era depositaria di conoscenza e che questa conoscenza costituisce uno
dei principali input del processo produttivo.
4
Nonaka I.,Takeuchi H., “The Knowledge creating company”, Oxford University Press (1995).
5
Penrose E., “The theory of the grow of the firm”, New York, Wiley, 1959.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
4
Nel concreto l’importanza della conoscenza, per assicurare benefici economici e
sociali, non sarebbe affatto una novità, come visto esistono testimonianze già
nella cultura degli antichi Egizi o Greci, inoltre la sua applicazione pratica per la
risoluzione di problemi umani era considerata fondamentale già da Francesco
Bacone (“la conoscenza è potere”) agli inizi del XVII secolo.
La funzione del capitale intellettuale per la creazione di ricchezza non è stata
tralasciata neanche dai primi sostenitori dell’efficienza economica: “ il capitale
intellettuale e morale della Gran Bretagna è di gran lungo superiore al capitale
materiale, non solo per importanza ma anche per produttività” (Senior 1836).
Le generazioni di studiosi, che sono seguite, hanno enfatizzato l’importanza
dell’informazione e della gestione della conoscenza, gli esponenti principali di
tale tendenza, che ha dato il primo impulso al radicamento del concetto nelle
teorie economiche, sono: P. Drucker, Itami, P. M. Romer, Alvin Toffler, James
Brian Quinn, Robert Reich. Ciascuno a modo proprio ha argomentato circa
l’identificazione della conoscenza come nuova base per la competizione nella
società post-industriale: Drucker
6
parla di una “Knowledge society (società della
conoscenza) “distinta dalle precedenti organizzazioni economiche-sociali per il
ruolo centrale dato in esse alla conoscenza stessa”, per Drucker la conoscenza è
l’unica risorsa ed è l’elemento distintivo della nuova società. Itami H.
7
(1987)
definisce la conoscenza come “risorsa invisibile” cruciale per la lotta competitiva.
Romer
8
determina, invece, la conoscenza come l’unica risorsa che non si consuma
(unlimited resource). Toffler
9
con il concetto di “spostamento della capacità
(powershift) “fa eco alle affermazioni di Drucker eleggendo la conoscenza a fonte
d’eccellenza ed a fattore chiave dei cambiamenti di potere che precede”. Quinn
10
,
introducendo il concetto di “impresa intelligente”, condivide la visione di Drucker
e Toffler per cui il potere economico e produttivo di un’azienda risiede nella
capacità intellettuale e di servizio, più che nell’hardware (impianti, tecnologie e
6
P. Drucker, “Post-Capitalist Society”, Oxford, Butterworth-Henemann, (1993).
7
Itami H., “Mobilizing invisibile assets”, Harvard University Press, Boston (1995).
8
P.M. Romer, “An interview with Paul M. Romer” , Strategy and Business, (2001).
9
A. Toffer, Powershift: “Knowledge, wealth and Violence at the Edge of the 21st Century”,
Bantam books, New york (1990).
10
J.B.Quinn, Intelligent Enterprise: “A knowledge and service Based Paradigm for Industry”,
The free Press, New York (1992).
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
5
strutture). Egli afferma che il valore dei prodotti e servizi dipende in maggioranza
dal modo in cui “i beni intangibili fondati sulla conoscenza”, come la
comprensione dei bisogni del cliente, l’immagine di mercato, la creatività
personale e l’innovazione, possono essere sviluppati. Quinn parla di “capitale
intellettuale” ed afferma che la capacità di gestire tale risorsa è divenuta capacità
critica del dirigente. Reicht
11
ribatte che il solo autentico vantaggio competitivo
sarà costituito in futuro dagli “analisti simbolici”, da persone cioè, in grado di
disporre di conoscenze necessarie per identificare, risolvere o mediare i nuovi
problemi.
Agli autori citati se ne possono aggiungere altri ancora come: Peter Senge che con
La quinta disciplina, diffonde con gran successo il messaggio dell’apprendimento
organizzativo coniando la definizione di “learning organization“, Charles Savane
con il suo “Management di quinta generazione”, il modello di “azienda modulare”
proposta da Fortune, "l’azienda virtuale" concepita da Davidoff e Malone ed
infine la gestione innovativa basata sulla “curva a s” sostenuta da Richard Foster.
Appare di dominio comune che al centro dell’analisi vi siano l’acquisizione, la
sedimentazione e l’uso della cultura esistente, venendo purtroppo a mancare la
prospettiva della “creazione di nuova conoscenza”
12
. In sostanza tutti gli autori
riportati vedono la conoscenza come una risorsa cruciale nella competizione, ma
nessuno spiega esaustivamente come tale risorsa debba essere creata e mediante
quali meccanismi e processi. Questa lacuna è alla base di una visione prettamente
occidentale della conoscenza radicata nella sua tradizione intellettuale.
Probabilmente ciò si deve al fatto che gli studiosi non si sono impegnati
nell’investigare sulla natura e sull’essenza del conoscere, impiegando pochi
riferimenti sulla discussione epistemologica ed ontologica, utili per superare il
paradigma cartesiano sul conoscere.
Essi si sono bloccati su una visione tradizionale, statica, in cui la conoscenza
viene vista come un’entità fisica e separata dai processi intellettuali degli esseri
umani.
11
R.B. Reich,” The Work of Nations”, Alfred A. Knopf, New York (1991).
12
Cit. da: Ikujiro Nonaka “Come un’organizzazione crea conoscenza”, Economia & management
n° 3/94, pag. 31.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
6
Il risvolto corporeo ed umano della conoscenza è stato a lungo trascurato, ma
l’interessamento verso tale aspetto si riscopre e s’intensifica verso gli anni
novanta quando il fiorire delle aziende nipponiche, a discapito di quelle
occidentali, ha dato adito a veri e propri studi degli economisti occidentali, che
s’interrogavano sulla loro progressiva ed inesorabile conquista dei mercati
internazionali.
Nel 1995 il già citato Nonaka insieme a Takeuchi pubblica un libro The
Knowledge creating Company
13
in cui sostiene che il successo delle imprese
giapponesi deriva dalla capacità di “creare conoscenza organizzativa”, da questo
punto in poi fioriscono sia l’analisi empirica, sia la letteratura teorica che
sottolineò la differente visione della conoscenza radicata nella visione occidentale
e orientale.
Il testo suddetto insieme con altri come “The Fifth Discipline” di Senge ha
segnato lo sdoganamento di questo tema nel mondo del management, facendo
prendere lo slancio al paradigma della gestione della conoscenza sia attraverso la
creazione di un linguaggio manageriale, in grado di parlare di conoscenza
aziendale (con la diffusione dell’etichetta “Knowledge Management”, sintetizzata
come KM), sia creando i presupposti fondamentali per l’adozione da parte del
management di un nuovo approccio alla gestione d’impresa.
La letteratura che ne deriva si prefigge l’obiettivo di semplificare un tema astratto
per eccellenza e per certi versi ostico, creando i presupposti per la creazione di
tutta quella strumentazione necessaria al manager come il business case, le
success stories, i KPI, le metodologie e i miti
14
.
Il successo di questo paradigma è stato tale che l’etichetta Knowledge
Management (KM), locuzione inglese ormai ricorrente anche nel linguaggio
parlato italiano, è oggi applicata ad un insieme molto eterogeneo d’attività
aziendali.
13
I. Nonaka, H. Takeuchi, “The Knowledge creating company”, New York, Oxford university
Press (1995).
14
Bonifaccio, Bouquet, Merigliano, “ Knowledge e management sono compatibili ? ”,
Economia & Management, Maggio-Giugno (2002).
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
7
L’individuazione della conoscenza quale risorsa primaria nell’organizzazione ha
portato con il tempo alla nascita di nuove pratiche manageriali, evolutesi in modo
indipendente e focalizzatesi di volta in volta su diversi fenomeni e tecniche.
Oggi però è in atto un processo d’integrazione di tali pratiche all’interno di un
paradigma gestionale che è sempre più spesso un presidio organizzativo: il
Knowledge Management. Tale processo sicuramente è stato innescato anche dalla
crescente disponibilità di sempre più nuovi strumenti tecnologici, in realtà, oggi è
quasi una forzatura ritenere che gli attuali sistemi di KM possano essere
l’embrione di una nuova funzione aziendale e che in futuro siano in grado di
acquisire un ruolo centrale nei nuovi processi gestionali dell’organizzazione
15
. Per
cogliere appieno tali affermazioni a conferma dell’evoluzione delle teorie
knowledge-based sviluppatesi nel corso degli anni bisogna prendere in esame i
presupposti fondamentali sulla natura etimologica della conoscenza e sulla sua
origine. Il divario presentato, tra la visione occidentale ed orientale, vede la sua
nascita proprio nella tradizione intellettuale delle due culture, che sono
diametralmente opposte, e che danno vita alle diverse modalità con le quali queste
pensano la conoscenza.
Per questo è stato importante esaminare brevemente la ricerca filosofica sulla
conoscenza, detta “epistemologia”, relativa alle due culture, traendone da essa la
motivazione del diverso percorso di pensiero. Percorso che ha avuto riflesso nelle
teorie economiche e manageriali, in particolare queste ultime verranno analizzate
di seguito.
15
Cit: F. Venier, “ Knowledge Management” , Sviluppo & Organizzazione, n° 178/2000.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
8
1.2 Teorie manageriali ed organizzative della conoscenza
Nel corso degli anni, gli economisti, si sono focalizzati particolarmente sullo
studio della conoscenza esistente, negando la “creazione attiva e soggettiva”
d’ogni soggetto economico, quest’orientamento può essere ricollegato ad una
tendenza marcata verso la scientifizzazione dell’economia ed all’influenza di un
concetto fondamentale per l’economia occidentale: il concetto di dualismo
cartesiano, la scissione tra soggetto economico che produce conoscenza ed
oggetto della stessa che ha influenzato ed influenza ancora tutt’oggi gli
economisti. Tale orientamento ha apportato riflessi anche nelle teorie manageriali
ed organizzative, accompagnate però da una forte tendenza umanistica che
potrebbe derivare dall’emergere dell’interesse dei ricercatori verso l’area del
management per le pratiche manageriali vere e proprie. Per questo si farà una
prima distinzione tra teorie manageriali e teorie sull’organizzazione:
Le teorie più diffuse sull’organizzazione di solito vengono descritte definendo
innanzitutto il paradigma imperante su cui si fonda la teoria: il così detto
“processo informativo” di Herbert Simon, secondo tale concetto l’uomo diventa
un processore d’informazioni che prende decisioni logiche e razionali all’interno
di un recinto costituito dalla propria razionalità, si dà, quindi, molta più
importanza sia al contenuto logico del processo decisionale che al valore ed al suo
significato.
16
Simon si focalizza eccessivamente sull’importanza ai limiti cogniti
dell’essere umano, definendo la funzione della conoscenza come quella di
determinare le conseguenze che scaturiscono dalle diverse strategie. Egli limita il
suo studio dimenticando di contemperare che l’uomo, intento a prendere
decisioni, svolge i suoi processi mentali nel mondo non linguistico, quello che
Barnard definirà, anni dopo, come il “processo mentale non linguistico“ o
“conoscenza comportamentale”, oppure ancora “conoscenza implicita “, così
come la definiva Polany.
16
Cit: Ikujro Nonaka, “Come un’organizzazione crea conoscenza”, Economia & Management,
n°3, 1994, pag. 33.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
9
Questa visione prettamente meccanica lo porta a trascurare il potenziale
dell’uomo nella creazione di conoscenza sia a livello individuale che a livello
organizzativo.
Il modello del “Cestino dei rifiuti” di March e Olsen (1976), a differenza della
teoria di Simon, sottolinea l’importanza, all’interno dell’organizzazione,
dell’ambiguità e del disordine. Secondo tale modello, le “opportunità”
rappresentano la “spazzatura”, mentre i problemi, le soluzioni e i soggetti
decisionali, il “bidone”.
L’organizzazione è qui vista come un sistema di percezione e non di
pianificazione, che assegna un significato a quanto accade solo retrospettivamente
(in contrasto con le concezioni scientifiche). Il limite di tale analisi consiste nel
fatto che non si comprende come si possa sviluppare la conoscenza necessaria per
un’azione organizzativa sistemica, se l’apprendimento avviene solo in maniera
individuale, il soggetto si limiterebbe a crearla nella sua stretta cerchia delle
attività. In tal caso la conoscenza sarebbe utile solo a chi la produce e non ci
sarebbe possibilità di riprodurla in via generale.
Successiva è la nascita della teoria generale della contingenza, che parte dalle
concezioni generali della teoria dell’apprendimento informativo, per affermare
che la funzione primaria dell’organizzazione è quella di formare la capacità
elaborativa delle informazioni in grado di massimizzare il prodotto minimizzando
le risorse impiegate. Osservando in tal modo le cose non si considerano le
caratteristiche dei singoli e l’interazione tra loro e tra i reparti dell’organizzazione,
inoltre, la visione risulta passiva nella sua analisi delle relazioni
dell’organizzazione con l’ambiente esterno, in sintesi, mentre tale teoria si occupa
della singola organizzazione, il modello delle popolazioni proposto da Hannan e
Freeman (1977, 1983) guarda l’andamento d’organizzazioni multiple, ovvero
d’organizzazioni in diversi ambienti, ma anche questa, come la precedente, ha il
limite di non spiegare al meglio il processo d’auto-rinnovamento delle
organizzazioni.
L’evoluzione delle teorie Knowledge based
10
Le teorie manageriali
17
, infatti, si distinguono dalle economiche proprio per
l’attenzione alle suddette pratiche di management che non per lo studio rivolto
alla costruzione di modelli astratti. Nella letteratura manageriale possiamo
distinguere, riguardo allo studio della conoscenza, due distinte linee di sviluppo:
• Un orientamento “scientista" che grazie all’operato d’economisti come
Taylor e Simon si è evoluto fino a configurare l’attuale interesse per la
scientifizzazione della strategia;
Il “management scientifico”, fondato sui principi del taylorismo sviluppati da
Frederick Winslow Taylor
18
, comportò una profonda razionalizzazione
dell'attività produttiva, che fu basata sulla netta separazione tra comando
(progettazione e organizzazione) ed esecuzione.
17
L’evolversi delle teorie manageriali in realtà può essere sintetizzata come una sequenza di
controversie tra i due orientamenti ed un difficile tentativo di sintesi evolutosi con scarsi risultati.
L’orientamento teorico in questione è stato un tentativo di formalizzare le esperienze e le abilità
tacite dei lavoratori traducendole in conoscenza oggettiva e scientifica. Esso però non è riuscito a
vedere l’importanza delle esperienze e delle valutazioni dei lavoratori come fonte di nuove
conoscenze, e di conseguenza ha posto il processo innovativo a carico dei soli manager,
appesantendoli di un gran fardello consistente nella creazione, classificazione, codificazione in
regole e formule della conoscenza e di un processo di controllo quotidiano della sua applicazione.
Sin dalla metà degli anni ottanta tutti gli studi sul management hanno evidenziato l’importanza
della conoscenza nella società e nelle organizzazioni del futuro. La “knowledge society” e “la sfida
produttiva per un lavoro di conoscenza” di Peter Drucker, la definizione di “learning organization”
di Peter Senge, il “”management di quinta generazione” di Gharles Savane, la concezione di James
Brian Quinn di “Impresa intelligente”, il modello di “azienda virtuale” proposto da Davidoff e
Malone e la gestione innovativa basata sella “curva a S” sostenuta da Richard Foster; sono solo
pochi esempi della letteratura che la teoria manageriale ed organizzativa ha realizzato.
18
Taylor, Frederick Winslow (Germantown, Pennsylvania 1856 - Philadelphia 1915), ingegnere
industriale statunitense, considerato il fondatore del metodo dell'organizzazione scientifica del
lavoro da cui nasce una vera e propria corrente di pensiero che prende, appunto, il nome di
taylorismo. Attivo fin dal 1878 nel settore siderurgico, prima come dirigente e poi come
consulente, Taylor si dedicò agli studi concernenti la misurazione della produttività industriale,
sviluppando dei sistemi complessi in grado di ottimizzare il ciclo produttivo e di incrementare la
produttività sfruttando pienamente le potenzialità della forza lavoro e dei macchinari. Alla base di
tali sistemi di riorganizzazione del lavoro, vi furono i suoi "studi sul tempo e sul movimento", un
contributo determinante nell'individuazione dei metodi più efficaci per ottenere la massima
prestazione nel minor tempo possibile. Nel 1898 fu scopritore del processo poi denominato
Taylor-White, un metodo per rinvenire l'acciaio. Consulente di diverse società, Taylor pubblicò le
teorie sulla gestione delle imprese nel libro Criteri scientifici di organizzazione e direzione
aziendale (1911).