V
Il calcio italiano si trova attualmente in una situazione
economico-finanziaria decisamente negativa, se non addirittura vicina
al collasso.
Il calcio, nostro sport nazionale, negli ultimi tempi ha assunto
connotati che vanno ben oltre le semplici sfide sul campo e ha
assorbito gran parte delle ricchezze del nostro Paese.
La situazione attuale è la peggiore che si sia mai vissuta ed è
destinata a peggiorare ulteriormente a meno che non si prendano
ulteriori provvedimenti immediati ed efficaci.
A questo proposito il Governo ha varato il famoso “decreto
spalmadebiti” che prevede l’ammortamento dei costi gestionali in un
piano decennale.
Alla fine della scorsa estate l’organo esecutivo dello Stato ha
stabilito anche l’allargamento della serie B da venti a ventiquattro
squadre, fenomeno che ha incontrato molti ostacoli e che per la
veemente protesta di alcuni presidenti della serie cadetta ha fatto
slittare l’inizio del campionato.
In questa tesi ho cercato di riassumere brevemente la storia della
crisi del calcio italiano cercando si dare una rapida idea circa
l’incredibile evoluzione del business che si è creato intorno al mondo
del pallone.
Data la numerosità degli eventi ho deciso di analizzare solo
quelli che ho ritenuto più rilevanti focalizzando la mia attenzione sui
numerosi avvenimenti della scorsa estate, la più tormentata dalla
nascita del nostro calcio. Ma andiamo con ordine ed analizziamo
l’organizzazione del mio lavoro dall’inizio.
Il primo capitolo tratta le origini della crisi, che ho fatto risalire al
caso Lentini del 1993 che ha messo in moto il sistema tendente alla
bolla degli stipendi.
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La sentenza Bosman del dicembre 1996, tema del secondo
paragrafo, ha poi contribuito ad accelerare tale sistema nel nostro
Paese e ad esportarlo in alcuni campionati europei; il calcio tricolore è
tuttavia rimasto nella situazione economico-finanziaria più critica,
effetto prima che causa dell’impotenza della Covisoc e
dell’inadeguatezza dei controlli contabili sulle società.
Fortunatamente (ma non so quanti presidenti e tifosi concordino
con questa mia espressione) la UEFA ha deciso di prendere in mano la
situazione e dal prossimo giugno potrebbero esserci incredibili novità
quali l’esclusione dalle coppe europee di club illustri quanto
indebitati.
Il secondo capitolo è dedicato all'ingresso della pay tv e alle sue
disastrose conseguenze economiche sui conti delle società.
Il difficile rapporto tra i nostri tre club quotati e la Borsa è il tema
principale del terzo capitolo che rimanda al successivo per un'analisi
economico-finanziaria più dettagliata. In questa sede ho dedicato
molto spazio alla gestione della Juventus, che da sette anni riesce a
produrre utili.
Vengono comunque riportati i conti economici di Milan, Inter e
Parma relativi al 2002 e al 2003.
Il quinto ed il sesto capitolo riassumono i fatti salienti dell'estate
più tormentata del calcio italiano, che hanno portato all'allargamento
della serie B.
Nel fare ciò ho focalizzato l'attenzione sui casi di Cosenza e
Catania, limitandomi ad un semplice accenno del caso fideiussioni,
dato che si è concluso con un nulla di fatto.
Il Governo negli ultimi due anni si è intromesso nel mondo del
pallone per salvarlo da un’imminente crac, ma le soluzioni adottate
non hanno convinto né l’Unione Europea, che sta indagando sulla
VII
regolarità del decreto spalma-debiti, né i tifosi, che non hanno gradito
l’allargamento della serie B ed iniziano a sospettare della credibilità
dei campionati.
Nonostante il mio lavoro abbia dato molto spazio alla cronaca,
non mancano analisi gestionali ed opinioni personali circa le possibili
soluzioni alla crisi. L'ultimo capitolo e le conclusioni ne sono una
testimonianza.
Spero che la lettura di questa tesi possa dare una buona
conoscenza dell’entità del rischio che sta correndo il “campionato più
bello del mondo” e al tempo stesso fornire materiale utile per studi più
approfonditi.
1
CAPITOLO 1
LE ORIGINI DELLA CRISI
2
1.1 Il caso Lentini.
Il 1993 ha segnato una profonda svolta per il mercato calcistico
italiano a seguito del faraonico ingaggio del centrocampista Gianluigi
Lentini da parte del Milan. Il Torino, società di appartenenza del
promettente centrocampista, stava vivendo un difficilissimo periodo
dal punto di vista finanziario ed il presidente Mauro Borsano doveva
fronteggiare un imminente quanto inevitabile crac.
Il presidente del Milan Silvio Berlusconi concludeva
ufficialmente la trattativa per la cifra record di 18 miliardi delle
vecchie lire e offriva a Lentini un ingaggio comprensivo dello
sfruttamento dei diritti di immagine di 4 miliardi a stagione. Tale
somma era davvero spropositata considerando che la Juventus aveva
appena acquistato dalla Fiorentina il “Pallone d’Oro” Roberto Baggio
per 10 miliardi ufficiali e che fonti non ufficiali attribuivano
all’operazione Lentini un valore complessivo di circa 65 miliardi.
Francesco Rutelli, allora capogruppo dei Verdi alla Camera dei
Deputati, manifestava subito la propria indignazione per la
consistenza dell’ingaggio ed i tifosi granata si rendevano protagonisti
di una violenta contestazione.
L’investimento del Milan, oltretutto, si rivelava un fallimento
dato che lo sfortunato giocatore subiva vari infortuni ed era coinvolto
in un tragico incidente stradale con la sua Porsche.
La scorsa stagione Lentini è retrocesso in Serie C1 con il
Cosenza, di cui tratterò la tormentata estate seguente all’arresto del
suo presidente Paolo Fabiano Pagliuso nel quinto capitolo.
Ma il peggio doveva ancora avvenire: Mauro Borsano faceva
bancarotta pochi mesi dopo e dall’indagine sulle sue società spuntava
un giro di miliardi in nero.
3
Questo spingeva l’ex presidente del Torino a confessare alla
magistratura che il gruppo Fininvest gli aveva pagato un acconto
segreto di circa 7 miliardi in Svizzera per l’acquisto di Lentini.
Dall’inchiesta giudiziaria del pool di ”Mani Pulite” emergeva
addirittura il sospetto che durante il campionato 1992-93 il Milan
fosse stato azionista occulto del Torino ma tutto veniva prontamente
archiviato. Mauro Borsano era condannato dal Tribunale di Torino a
40 mesi di carcere per bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e
appropriazione indebita per il crac del suo gruppo finanziario.
Per quanto riguarda le posizioni di Silvio Berlusconi e Adriano
Galliani, amministratore delegato di Fininvest e vice presidente del
Milan, probabilmente non si avrà mai una sentenza visto che nel
maggio 1998 erano rinviati a giudizio per falso in bilancio e che le
nuove norme sui reati societari hanno svuotato i poteri della procura in
quanto di fatto non sussiste più reato.
Nonostante tutti questi interrogativi senza risposta è indubbio che
il caso Lentini abbia profondamente modificato la mentalità
dell’industria del pallone incanalandola sulla strada del gigantismo,
dello spreco insensato di risorse e, infine, della crisi attuale.
La sfida tra presidenti non si faceva attendere più di tanto e aveva
influenze decisamente negative sui bilanci delle società: nel 1994 la
Juventus registrava una perdita di 55 miliardi di lire mentre il Milan
riusciva a limitare il passivo stagionale a soli 4 miliardi grazie a un
doppio assegno di 50 miliardi della Fininvest. A seguito di questi
campanelli d’allarme e del tentativo di varie società di stare al passo di
Juventus e Milan, il calcio italiano iniziò a invocare nuove regole
all’insegna dell’austerità.
1
1
R. Liguori, M. Vincenzi, “Autogol! Il campionato ha fatto crac”, pag. 16.
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1.2 La sentenza Bosman.
Jean-Marc Bosman, un calciatore belga destinato a cadere nel
dimenticatoio per la sua mediocre carriera, si è guadagnato una fama
internazionale facendo pronunciare dall’Unione Europea una sentenza
sulla libertà di trasferimento dei calciatori che ha profondamente
segnato il pianeta calcio.
Nel 1990 il giocatore si era rivolto ai giudici in quanto il suo
contratto con il Liegi era scaduto ma i dirigenti belgi si opponevano al
suo trasferimento alla squadra francese del Dunkerque.
Bosman si appellava al Trattato di Roma del 1957, che aveva
istituito il Mercato comune, e al principio della libera circolazione dei
lavoratori all’interno dell’Unione Europea riuscendo a portare la sua
squadra in tribunale.
La magistratura belga poneva quindi la questione alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea di Lussemburgo che il 15 dicembre
1996 pronunciava il tanto atteso verdetto fissando due principi
fondamentali:
i calciatori sono liberi di cambiare squadra all’interno dei confini
dell’Unione Europea, una volta che il loro contratto con un club è
scaduto e il trasferimento può avvenire senza il pagamento di alcun
compenso alla società venditrice;
viene eliminato il sistema delle quote che limitava la presenza di
giocatori stranieri nell’ambito dei campionati nazionali. In pratica
ogni squadra può tesserare un numero illimitato di calciatori
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provenienti dai Paesi membri dell’Unione e gli “sbarramenti” si
limitano ai calciatori extracomunitari.
La UEFA, la federazione calcistica europea, si sentiva quindi
costretta a rivedere le norme che regolavano il trasferimento dei
calciatori da una squadra all’altra. Lo stesso avveniva per le varie
federazioni nazionali tra cui la FIGC, che, in particolare, aboliva le
indennità di preparazione e promozione, meglio conosciute come
“parametri” e cioè la norma secondo la quale un giocatore in scadenza
di contratto cambiava maglia la società acquirente era obbligata a
riconoscere al venditore un indennizzo, calcolato sulla base di alcuni
criteri economici fissati dalla FIGC stessa, tra cui l’età del calciatore e
l’ammontare del suo ingaggio.
La sentenza Bosman aboliva questo sistema macchinoso creando
una vera e propria rivoluzione nel calcio italiano che si faceva trovare
decisamente impreparato.
I bilanci già negativi di molti club subivano un colpo durissimo
in quanto, nel calcolare il valore patrimoniale dei giocatori, tutte le
società avevano tenuto conto dell’indennizzo da incassare al momento
della vendita; per effetto dei “parametri” era quindi possibile
risparmiare sugli ammortamenti.
La Covisoc, l’organo federale di controllo sulla gestione delle
squadre (tema di discussione del prossimo paragrafo) aveva
raccomandato di basarsi sull’effettiva durata dei contratti senza
considerare gli indennizzi, ma molti presidenti non ascoltavano il
consiglio e andavano incontro ad ulteriori perdite di decine di miliardi
di lire.
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Per evitare il dissesto finanziario ed il crollo del sistema nei primi
mesi del 1996 i vertici del calcio chiedevano un aiuto urgente al
Governo e la coalizione dell’Ulivo, guidata da Romano Prodi,
rispondeva a tempo di record dando la chiara prova della straordinaria
potenza della lobby del pallone. Nel settembre del 1996, infatti,
veniva varato un decreto legge che permetteva alle squadre di
distribuire su tre esercizi le perdite supplementari causate dalla
sentenza Bosman.
A seguito di quanto sopra i presidenti dei club ricominciavano a
programmare acquisti importanti, anche se, purtroppo per loro, i veri e
propri guai dovevano ancora incominciare :
il verdetto della Corte di Lussemburgo ribaltava di fatto i rapporti di
forza nel mondo del calcio dando un’arma contrattuale in più ai
giocatori, liberi di cambiare maglia alla scadenza del rapporto
d’impiego;
tale minaccia in mano ai giocatori spingeva i presidenti ad aumentare
gli ingaggi e faceva crescere la concorrenza fra i club a livello
nazionale e internazionale; i calciatori potevano infatti muoversi con
più facilità e i patron delle squadre iniziavano a contendersi i migliori
giocatori;
tale meccanismo era tuttavia destinato a creare un gap, ormai
pressoché incolmabile, tra poche società dotate di grandi disponibilità
finanziarie e tutte le altre che non potevano partecipare a questa corsa
al rialzo.
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Non è mancato chi ha fatto il passo più lungo della gamba e ne
ha prontamente pagato le conseguenze: il Napoli di Ferlaino e la
Fiorentina di Vittorio Cecchi Gori ne costituiscono due esempi
lampanti. Nel caso del club viola la vicenda è addirittura sfociata nel
fallimento della società e nel successivo declassamento in serie C2
della squadra.
Prima della sentenza Bosman i club minori facevano quadrare i
bilanci cedendo i loro giocatori migliori alle squadre più ricche
creando notevoli plusvalenze; ora persino i presidenti o proprietari
multimiliardari (Berlusconi, Moratti, Agnelli, Sensi, etc.) preferiscono
servirsi di campioni stranieri.
Le società di secondo piano faticano a trattenere i giocatori di
talento e per effetto della sentenza emanata dalla Corte di
Lussemburgo i più promettenti possono liberamente cambiare maglia
alla scadenza del contratto rendendo il calcio di vertice sempre più un
affare per pochi.
Per concludere si può affermare che il rivoluzionario verdetto
della sentenza Bosman del 1996 ha innescato una bomba ad orologeria
che il denaro, in gran parte proveniente dalle pay tv (tema del
prossimo capitolo), ha provveduto a fare esplodere.
Dopo anni di follie i signori del pallone sembrano aver
imboccato la strada della riduzione dei costi e dell’austerità anche se
l’ultima volta che lo hanno fatto, ovvero dieci anni fa, si sono
rimangiati tutto nel giro di due campionati: chissà se questa volta
agiranno diversamente.
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2
V. Malagutti, “I conti truccati del calcio”, pag. 25.
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1.3 L’impotenza della Co.Vi.So.C. e l’inadeguatezza dei controlli sulle
società calcistiche.
La Covisoc (Commissione di Vigilanza delle Società Calcistiche)
veniva istituita dalla illustre legge 91 del 1981 che rifondava su basi
nuove lo sport professionistico italiano, riconoscendo l’autonomia di
gestione alle singole federazioni.
Il suo compito dovrebbe essere, nel mondo del calcio,
l’equivalente di quello che ha la Consob nel mondo borsistico. In
realtà i controllori del calcio-business (cinque commissari scelti tra
professionisti esperti di bilancio e di diritto e un presidente) hanno
compiti più sfumati, appesi all’interpretazione di norme estremamente
labili e confuse, spesso raggirate dalla FIGC stessa. L’unica arma
della Covisoc è in pratica la “denuncia” che viene però spesso
vanificata dal disinteresse dell’opinione pubblica e della politica.
Nel marzo del 1993, periodo sconvolto dallo scandalo di “Mani
pulite”, il professore genovese Victor Uckmar, fiscalista settantottenne
con studi professionali a Genova, Roma e Milano, veniva nominato
presidente della Covisoc e prometteva che avrebbe finalmente fatto
rispettare le regole.
I bilanci delle squadre erano in condizioni critiche e, sebbene
fosse ancora lontana l’enorme bolla finanziaria causata dai soldi delle
pay tv, le perdite registrate nel 1993 mettevano già in serio pericolo la
sopravvivenza di molte società. E pensare che il conto economico
aggregato dei diciotto club di serie A registrava una perdita di “soli”
60 miliardi di lire (30,9 milioni di euro) con debiti per 581 miliardi di
lire (circa 300 milioni di euro).
In quel periodo “Mani pulite” imperversava anche nel mondo del
calcio e il presidene del Torino Mario Borsano, come già accennato
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nel primo paragrafo, era travolto da un crac finanziario e stessa sorte
toccava poco dopo al presidente del Foggia Pasquale Casillo. Il
settimanale economico “Il Mondo” scriveva al riguardo di
un’inchiesta del marzo 1994: “Il deficit del calcio è stato alimentato
con gli stessi sistemi di Tangentopoli, come la bancarotta fraudolenta,
il falso in bilancio, i pagamenti clandestini estero su estero, le
fatturazioni fittizie e le frodi fiscali”.
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Il 6 marzo 1994 la FIGC, presieduta da Antonio Matarrese,
varava un piano di riforma all’insegna dell’austerità stabilendo:
l’obbligatorietà della certificazione dei bilanci delle squadre;
il rafforzamento dei poteri della Covisoc (dotata di nuovi poteri ispettivi);
l’istituzione di un’anagrafe azionaria per evitare il fenomeno di presidenti
proprietari di due o più club;
L’istituzione di un codice di onorabilità per escludere dal pianeta calcio i
dirigenti nei guai con la giustizia.
Purtroppo i buoni intenti della riforma non venivano seguiti dai fatti e la
situazione oggi (gennaio 2004) è di gran lunga peggiorata:
la certificazione dei bilanci è di fatto obbligatoria solo per le società quotate in
Borsa anche se quasi tutti i club di serie A hanno deciso di sottoporsi alla
revisione volontaria dei propri bilanci;
il fatto che un presidente possa controllare più di un club purché questi non
partecipino allo stesso campionato e la liceità della multiproprietà delle
3
“Il Mondo”, 15 marzo 1994, pag. 108, articolo “Il deficit del calcio italiano”.
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squadre aumentano il clima di confusione e sospetto che aleggia nel mondo del
calcio.
Un esempio eclatante era la cessione del Palermo di Franco Sensi
nel luglio del 2002: il presidente della Roma, quotata in Borsa dal
maggio del 2000, si atteneva all’articolo 16-ter delle Norme federali
(che vieta il controllo di due società calcistiche iscritte ai campionati
di serie A o B da parte di uno steso proprietario se una delle due è
quotata in Borsa) e vendeva il Palermo, appena promosso in serie B
dalla C1.
La vicenda si svolgeva secondo le norme ma suscitava un forte
allarme per l’eventuale possibilità che un presidente usasse (e usi) la
sua squadra più debole come serbatoio per quella più forte senza
esborso di denaro svuotando completamente il fine ultimo di una
società, ovvero quello di partecipare al proprio campionato nel miglior
modo possibile. A volte, inoltre, materiale dello scambio tra due
presidenti non era un semplice giocatore ma la società stessa
attraverso la montatura e smontatura di operazioni finanziarie
complicatissime.
Le preoccupazioni aumentano se si considera che i club più
piccoli vengono di solito acquistati da persone dotate di scarsi mezzi
economici e vogliose di farsi pubblicità, come conferma il resoconto
della carriera della dirigenza massima delle serie minori.
La riforma sull’esclusione dei dirigenti con precedenti penali o
sotto inchiesta giudiziaria è stata opportunamente attenuata per evitare
la decimazione dei vertici delle squadre professionistiche. Casi
eclatanti, peraltro già parzialmente menzionati, sono quelli di Sergio
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Cragnotti (Lazio), Vittorio Cecchi Gori (Fiorentina), Giorgio Corbelli
(Napoli) e Adriano Galliani (Milan).
Cragnotti, che nel 1998 tagliava per primo il traguardo della
quotazione in Borsa con la sua Lazio, è stato protagonista di
controverse vicende della finanza italiana tra la fine degli anni ottanta
e l’inizio dei novanta. Uomo di fiducia di Raul Gardini e dei Ferruzzi,
guida dell’Enimont coinvolta in un’inquietante vicenda di corruzione
e finanziamento illecito ai partiti, nel 1998 il presidente della Lazio
patteggiava una pena di un anno e cinque mesi per reati come falso in
bilancio e appropriazione indebita. Ad agosto 2002 l’ormai ex patron
biancoceleste era ancora coinvolto in altri procedimenti giudiziari ed il
crac finanziario della Cirio era alla porta.
Recentissima (11 febbraio 2004) la notizia dell’arresto cautelare
di Cragnotti per bancarotta fraudolenta della Cirio stessa, situazione
analoga a quella di Callisto Tanzi e della Parmalat.
I presidenti nei guai con la giustizia possono dunque conservare
tranquillamente la poltrona anche per anni nonostante il divieto
imposto dai regolamenti della FIGC. L’articolo 22 bis delle norme
federali, infatti, impone il divieto di ricoprire incarichi manageriali o
sportivi nelle società calcistiche ai condannati con sentenza passata in
giudicato per alcuni gravi reati tra cui spiccano associazione mafiosa,
false comunicazioni sociali e violazione delle leggi sulle scommesse.
La regola, severa sulla carta, si infrange però sull’eccessiva lentezza
dei tribunali e su escamotage quali l’affidamento della presidenza a
familiari o persone di fiducia.
Nell’ultimo decennio anche la Covisoc si è vista ridurre
notevolmente il margine di manovra permettendo ai presidenti di
aggirare tranquillamente norme e regolamenti che sembravano
stringenti.