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comunicazione merci, segni e persone – al contrario dovrebbe riuscire ad
usare strumenti anche molto diversi fra loro, sotto il comune
denominatore dell’obiettivo di studio che ci si prefigge di scandagliare.
Una necessità questa che, se valida in molti campi del sapere, risulta
essere decisamente fondamentale per affrontare lo studio dello spazio.
Per quale ragione lo spazio occupa una posizione tanto centrale?
Esso è elemento complesso perché non solo è insieme di coordinate
geografiche – oggettive e quantificabili – ma soprattutto è materia sociale
e culturale, quindi malleabile e modificabile. In esso si trovano a
convivere due approcci alla materia, uno simbolico-rappresentativo che
tende a modellarla da un punto di vista culturale, e uno invece fisico-
costruttivo, che la modifica dal punto di vista delle sue caratteristiche
fisiche. Assieme, si tratta di due processi da sempre attivi, allorché
l’uomo ha iniziato a considerare lo spazio come “suo spazio”, luogo
deputato ad accoglierlo e pertanto modificabile, secondo usi e necessità
umane.
La questione si rende inoltre più articolata nel momento in cui si
cerchi di restituire un quadro del panorama attuale; lo spazio, una volta
abitato, assume caratteristiche precise che differenziano ogni sua
porzione (nasce il concetto culturale-sociale di “luogo”) e la rendono
significativa perché inter-sistemica, facente parte di un insieme spaziale
più largo e in grado di organizzare geograficamente e culturalmente le
parti rispetto al tutto e le parti fra loro. La città è, in prima istanza,
organizzazione di luoghi con caratteristiche proprie (identità del luogo) e
comuni fra loro (identità urbana). Essa, nascendo da esigenze
aggregative, economiche e protettive, si fonda su un patto sociale che le
conferisce anche l’identità, la storia e la tradizione. Oltre che una forma.
La difficoltà di approfondire un discorso coerente in merito alla città
deriva appunto dalla necessità costante di incrociare la forma della città
nello spazio fisico e la forma della città nello spazio culturale. Per non
7
parlare della forma della città nello spazio mentale di ogni singolo
cittadino.
1
Analizzare l’evolvere della città nel tempo è allora operazione
difficile, ma sicuramente affrontabile, muovendo – come si è detto – da
una prospettiva multidisciplinare, incrociando gli strumenti forniti dalla
progettazione architettonica con i concetti approfonditi dall’antropologia e
dalla sociologia, e anche non dimenticando importanti ragioni economiche
e politiche – le quali, sempre centrali in ogni aggregato sociale,
assurgono nel panorama attuale ad una importanza decisamente
notevole.
Lunghissima la letteratura in merito alla città, alla sua origine, alla
sua evoluzione. Altrettanto vasta la trattatistica tesa a sottolineare le
linee del cambiamento, nel bene e nel male, delle sue caratteristiche: in
particolare, è utile distinguere il punto di vista di autori che si muovono
su scala globale con i propri studi o che comunque sono attenti a
prospettive diverse rispetto a quelle puramente euro-centriche, rispetto
ad altri invece più radicati nella sola cultura della città europea: questa
seconda prospettiva conduce spesso ad un eccessivo conservatorismo,
legato a ragioni di eredità storica e culturale che per quanto importanti
nel rappresentare l’identità di una comunità, non devono però impedire
l’evoluzione e la trasformazione. Se una città deve essere anche fonte
identitaria dei propri abitanti, si dovrà procedere con cautela nel limitare
il cambiamento, fossilizzando così la città – alcuni casi sono
sufficientemente eclatanti, come il centro storico di Vienna.
2
1
Gli studi effettuati presso il M.I.T. da Lynch negli anni ’60 e ’70, tesi a evidenziare la percezione dei
cittadini dello spazio geografico. Lo strumento della “mappa mentale” è appunto finalizzato ad
individuare la diversa percezione che gli abitanti hanno di uno spazio: a partire da questa percezione
interiorizzata è possibile agire con interventi rispettosi di tale “mappa” e non fondandosi invece solo
sulle algide coordinate geografiche. Si veda ad es. LYNCH (1964).
2
Vienna rappresenta un caso paradigmatico, soprattutto se confrontata con l’altro grande centro
austriaco, Graz: un’eccessiva tensione al mantenimento del paesaggio urbano identico a se stesso,
per non sfavorire le aspettative dei milioni di turisti che la visitano ricercando un tempo fermo a due
secoli fa, ha generato una cartolina perenne. La “disneyzzazione” della città, paventata da molti per
quanto concerne l’intrusione dello spazio commerciale nello spazio pubblico, può avvenire quindi
chiaramente anche in assenza di un soggetto unico privato: la stessa amministrazione pubblica
contribuisce a questo processo, in modo più o meno consapevole.
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Ai molteplici saggi che illustrano l’evoluzione del fenomeno urbano
nel tempo, si rimanda
3
per un percorso che dalla genesi procede fino alla
messa in discussione operata dalla Modernità di questo oggetto d’analisi.
Proprio in questo punto di cesura storica è interessante sviluppare un
discorso, in questa sede, sulla città: in seguito al periodo Illuminista e
dopo lo scardinamento sociale operato dalla Rivoluzione Francese, si
creano le condizioni per un diverso modo di relazionarsi con lo spazio. Di
fatto, ciò che si è prodotto in quegli anni è esattamente la messa in
discussione critica di uno status quo anche relativo alla spazialità urbana
che prima non era mai stato problematizzato. Questo non significa che
mai prima di allora la forma della città non fosse stata discussa; anzi,
prolifica è la letteratura e il succedersi di diverse concezioni più o meno
“illuminate” di gestire l’evoluzione dello spazio urbano. Ma, e qui sta il
cambiamento, solo allora ha inizio una riflessione veramente collettiva
sulla città. Si può anzi affermare che il proliferare della grande attenzione
alla città e al “discorso sulla città” prende esattamente avvio con il
fervore destabilizzante dell’epoca Moderna. Moderno – concetto che è
approfondito di seguito, nel Par 1.2 – è cambiamento nella concezione
della vita, è trasformazione soprattutto relativa alla produzione delle
merci. Il capitalismo, forma di produzione sorta con i processi di
industrializzazione e meccanicizzazione avvenuti appunto nel corso del
XIX secolo, riesce a permeare talmente a fondo l’ambiente urbano
(dapprima solo l’ambiente urbano, poi evidentemente anche il resto) che
in seguito non sarà più pensabile concepire la città come momento del
commercio e dell’incontro sociale-pubblico.
Ciò che primariamente opera il capitalismo, nella sua forma più
arcaica, è la trasformazione della città in un vero e proprio polo
industriale; le fabbriche, ponendosi inizialmente come miglioramento
Mentre Graz nel 2003 è sede di importantissimi eventi culturali e si prepara trasformando
radicalmente il proprio look di città alpestre, tra l’altro ospitando architetture di grande impatto
supermoderno e colori inizialmente scioccanti, Vienna – come osserva Domusweb in un articolo
[HILLIER] – tende a diventare un monumento a ciò che è stato e che inevitabilmente non può più
essere.
3
Essenziali, fra gli altri, i contributi di Simmel, Weber, Benjamin, Mumford, Gottman.
9
delle attività artigiane, sorgevano naturalmente dentro la città. Lì si
genera la riconversione funzionale del tessuto urbano, cambiamento che
è anche sostituzione sociale, di ceti con altri ceti e di individui con altri
individui. Parallelamente a questa trasformazione sociale, anche la forma
della città comincia a prendere nuovi percorsi evolutivi: nuove modalità di
crescita, nuovi percorsi, nuovi indirizzi progettuali.
In particolare, ciò che avviene in questa fase è la fine di quella
omogeneità che la città sapeva assicurare e che a questo punto non può
più garantire; omogeneità dell’organizzazione spaziale, la quale – anche
nelle città tradizionalmente meno ordinate, meno romane – è data da
zone dentro la città adibite a precise funzioni o quartieri riservati a
cittadini di un certo tipo (ceti, ghetti, etc.). La produzione industriale di
fatto sconvolge tutto ciò, lo rilegge e per questo lo rende per un certo
lasso di tempo incomprensibile agli stessi abitanti.
La città cioè perde omogeneità – intesa come significazione precisa – e
diventa invece multi-semantizzata: ogni gruppo, ogni individuo è
potenzialmente in grado di semantizzarla a suo modo, secondo personali
esperienze e secondo precise necessità oggettive o immateriali. Questo
rende l’identità della città molto più sfuggevole e incoerente. Tra l’altro,
questo stesso fenomeno di illeggibilità può essere applicato all’oggi,
osservando come appunto questa difficoltà interpretativa sia appunto
imputabile a processi economici e sociali in via di ridefinizione che
rendono opaca la città come forma organizzativa e come forma
geografica. Parallelamente a questo processo di rottura dell’omogeneità
del significato della città, interviene un processo opposto – sul piano
formale, propugnato con forza dal razionalismo progettuale del Moderno
– che tende a ricomporre una simmetria e una ricerca della perfezione
geografica.
La città, oggi, non è morta e non mostra particolari segnali di
difficoltà evolutiva; semmai, segna processi che la renderanno
probabilmente irriconoscibile, in pochi decenni, all’occhio di un
osservatore attuale. Inoltre, se sotto la categoria concettuale di “città”
10
intendiamo soprattutto – da un punto di vista culturale e sociale –
un’esigenza diffusa verso una forma aggregativa, allora la città non è mai
stata viva come oggi: anticipando le parole di Amendola, di cui si dirà nel
paragrafo 1.4 - La forma della città, il “desiderio di città” è oggi
fortissimo, testimoniato da un susseguirsi di discorsi su di essa sempre
più frequenti e diffusi (a livello dell’intera popolazione). E forse questo
stesso allarmismo deriva proprio dal timore di perdere un oggetto
fondamentale per la società.
Di seguito si cercherà quindi di analizzare il percorso evolutivo a)
della città come conformazione fisica di oggetti concreti e localizzati e b)
del pensiero critico sulla città, teorie e modelli interpretativi applicati alla
stessa per spiegarla oppure immaginarla utopicamente migliore. Si
propone un percorso che partendo dal Moderno, mostra i segni
fondamentali dello scarto Postmoderno; infine cerca di andare oltre,
segnalando come gli ultimi decenni del XX secolo e l’inizio del XXI
abbiano messo in campo una serie di elementi – sia per quanto concerne
il pensiero critico sia per quanto riguarda la fisicità del costruito urbano –
sostanzialmente differenti rispetto al sentire postmoderno.
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1.2 - La città postmoderna.
Interessante e illuminante, per sarcasmo e taglio critico, la visione
esposta nel manifesto di Koolhaas del 1979, “Delirious New York”
[KOOLHAAS REM (2)], in cui l’architetto esalta il salto enorme compiuto
dalla pratica progettuale e dal pensiero critico sullo spazio dopo la fine del
Moderno. In particolare è la figura di Le Corbusier che viene ora
ridicolizzata e ora esaltata (come maestro indiscusso della modernità),
genio e personaggio ostinatamente convinto delle proprie idee;
l’architetto olandese propone un’analisi che intende ricostruire il
passaggio da un’architettura monotematica, monofunzionale,
monodiretta, verso un’architettura che da questi tratti si svincola con
forza e che cerca invece la re-azione, non seria, non decisa, non
assertiva, non paradigmatica. Il postmoderno.
4
Conviene dunque partire
dal maestro della modernità, per poter comprendere ciò che è seguito.
4
Una riflessione terminologica è essenziale per capire la problematicità esplicativa di un termine che
si fonda su una condizione di successione (il prefisso post) relativamente ad un’epoca culturale,
quella “moderna”. La necessità di ricorrere a tale formula deriva dallo stesso termine “moderno”,
concetto che indica di per sé qualcosa che arriva per ultimo e che subisce lo sdoppiamento semantico
fra linguaggio comune – in cui solo vuol dire “il più nuovo” – e uso nelle discipline storiche e sociali
nelle quali invece racchiude un periodo che prende avvio dalla rivoluzione scientifica e sociale del
700-800 e si conclude nel XX secolo. In questo secondo denotato, che è appunto quello che qui si fa
proprio, emerge allora la necessità – per indicare il superamento – di evidenziare il carattere di
posteriorità. Il post-moderno, o postmoderno.
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Il moderno e Le Corbusier.
5
Il grande architetto è sempre al centro della dialettica
dell’evoluzione del costruire, anche ad anni di distanza dal fulgore della
sua opera. In effetti, la rilettura anche sarcastica e smitizzante che esce
dal Koolhaas di “Delirious New York” ne consacra de facto la rilevanza e
la centralità nel pensiero (non solo architettonico) della prima metà del
XX secolo. Come titola Time in occasione di “Time 100” [TIME], progetto
dedicato a consacrare i 100 personaggi più importanti del secolo – e
uscito in abbinamento al magazine – “egli era convinto che la nuova e
arrogante età industriale avesse bisogno di un altrettanto stile audace in
architettura. E chi meglio di lui per realizzarlo?”: una definizione che
rende perfettamente sia il carattere del personaggio che l’ideale umano
dell’epoca. Al di là di ciò che egli concretamente edificò, interessa
maggiormente il suo pensiero critico, per due motivi: prima di tutto
perché - quando applicato - il suo pensiero è stato per lo più fallimentare
e secondo perché questo stesso pensiero ha avuto però una rilevanza
eccezionale sulla pubblica opinione che seguiva e restava affascinata dal
grandeur delle idee messe in campo.
Di fatto, la Ville Radieuse, progetto urbanistico utopico, propone
una visione della città asettica, ripetitiva, gigante nelle dimensioni,
igienica, perfetta per razionalità e purezza di visione. Inutile sottolineare
la profonda vicinanza di tale concezione con il progetto umano totalitario
ad esso contemporaneo. Ed anche lo stesso destino di insuccesso: in ogni
luogo in cui tale concezione è stata applicata pedissequamente, sia da Le
Corbusier stesso che dai suoi pupilli, ci si è trovati presto di fronte a spazi
ampi e inabitabili, inospitali proprio perché mai a misura d’uomo ma
sempre invece progettati perché la potenza tecnologica fosse l’elemento
centrale e più visibile.
5
Tra l’altro, vi è un altro motivo – se si vuole più futile ma molto evocativo - per cui la figura di Le
Corbusier viene in genere associata al postmoderno: lo studioso Jencks ha datato l’inizio del
postmoderno nel 1972, quando uno dei complessi residenziali utopici dell’architetto furono fatti
saltare, perché ritenuti invivibili dai suoi stessi abitanti. Un evento chiave, diventato una piccola
leggenda nel campo dell’architettura.
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Figura 1 – Schizzo della Ville Radieuse
(fonte: http://www.serial-design.com)
Parallelamente a ciò, altro tratto caratteristico dell’architettura
moderna incarnata da Le Corbusier è il totale disinteresse per il già
costruito: per la nuova era industriale, tutto il passato non va bene e può
essere distrutto senza vincoli morali.
Pari agli smembramenti parigini di haussmaniana memoria, Le
Corbusier ha contribuito alla cancellazione di interi quartieri e allo
sfollamento di abitanti, in nome del progresso e della forma-città
moderna, unica e indifferenziata.
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Figura 2 – particolare della pianta della Ville Radieuse (1931),
in cui regolarità e ripetizione si accompagnano
ad una razionalità funzionale inimitabile.
(fonte: http://www.generativedesign.com/)
La genesi del concetto di postmoderno dovrebbe essere distinto sul
piano teorico e su quello concreto della pratica costruttiva, per due
motivi:
1. per il fatto che presentano differenze;
2. perché, come osserva Koolhaas in più contesti, l’architettura è
incredibilmente lenta nel fare propri i nuovi concetti resi
disponibili dalle riflessioni critiche.
La realtà dei fatti è che in molti casi quella che viene definita
architettura postmoderna non coincide pienamente alla “cultura
postmoderna” sviluppatasi nella seconda parte del XX secolo, e che trova
poi ampio spazio nel dibattito contemporaneo; ma questo,
evidentemente, ha a che fare con i problemi di una disciplina – quella
architettonica, e quella urbanistica – che deve fronteggiare i limiti imposti
dalla materia fisica e dai vincoli dell’esistente. Ad un’analisi che prescinda
da questi elementi, si evince in effetti anche sul piano del costruito un
passaggio assolutamente distinto rispetto all’approccio precedente, il
moderno.
15
Non si cercherà allora, per rinvenire il postmoderno all’interno dello
spazio fisico (della città), la presenza di un certo numero di edifici che ne
rispettino lo statuto teorico, ma piuttosto si metteranno in luce fenomeni
costruttivi impensabili dentro ad un’ottica razionalista moderna e
funzionale. Come il postmoderno è di per sé attento al dettaglio, al
particolare, sono proprio questi stessi elementi minimi che rivoluzionano
la città: il lavoro barocco
6
di ricamo operato dall’architettura postmoderna
emerge con forza e assieme con piccoli interventi.
Sulla scorta del chiaro e lineare testo di Amendola [AMENDOLA
GIANDOMENICO], si osservi che il concetto di postmoderno passato da
neologismo confuso ad abuso terminologico senza approfondimento
critico, aiuta molto nello studio della città contemporanea, soprattutto
perché permette di porre in relazione fenomeni lontani e di collegare lo
sviluppo urbano con i fenomeni sociali (postmoderno è, per sua natura,
ciò che tutto può contenere). Del resto il postmoderno nasce nella città,
nasce anzi proprio dalla sua architettura: non da quella fisica (il
postmoderno costruisce poco) ma dalla stessa “città nuova”, dall’intera
città e non dai suoi edifici.
6
Sull’uso di questo aggettivo (barocco) per descrivere l’architettura postmoderna, si veda anche
oltre, quanto afferma Amendola.
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Il postmoderno complesso e indecidibile.
Il postmoderno è stato via via definito in modo diversi, secondo
l’ambito disciplinare in cui ci si è trovati ad operare; partendo dalle
celebri definizioni di Jameson e di Lyotard, si arriva a specifiche
declinazioni in ogni ambito. Il carattere comunque più generale che
emerge – nello specifico dall’opera filosofica di Lyotard (“La condizione
postmoderna”, titolo assurto a facile slogan) [LYOTARD JEAN-FRANÇOIS]
– è che il passaggio dall’epoca moderna a quella postmoderna è segnato
dal venir meno delle grandi narrazioni, ossia le ideologie condivise dalla
società, la quale da essa veniva regolata e guidata.
Queste grandi narrazioni, che Lyotard chiama metanarrazioni,
hanno segnato il sorgere della modernità, ma sono poi entrate in crisi:
prima con la crisi della stessa filosofia metafisica, quindi riversandosi
sull’intera società. La grande narrazione allora si disperde in frantumi, in
piccoli eroi, piccole situazioni, sempre con valenza pragmatica.
Perciò la società che ne deriva dipende meno dall’antropologia
newtoniana (strutturalismo, la teoria dei sistemi) mentre invece propende
per una pragmatica delle particelle. Nello specifico, questa crisi viene
descritta con dovizia da Lyotard e prende avvio dalla stessa scienza, che
dopo secoli di apparente progresso, impone una riflessione sul proprio
statuto ontologico: la sua condizione di validità dove si trova?
Esattamente all’interno di una narrazione nella quale la scienza parla di
sé e dei propri criteri di valore; ma, la scienza al contempo esclude la
narrazione come forma conoscitiva: la conoscenza scientifica infatti è
quella che restringe gli enunciati a quelli che riguardano oggetti per i
quali sono chiare le condizioni di osservazione che hanno un linguaggio
ritenuto pertinente.
La crisi innescata, del resto connaturata allo stesso procedere
scientifico, ha aperto questa grossa breccia nella sicurezza sociale, nel
mito del progresso – cui erano legate tante “religioni” sociali fra cui lo
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stesso funzionalismo e le teorie sociali di Talcott Parsons – facendo
crollare innumerevoli altri muri granitici. In particolare, la crisi
epistemologica si riversa sulle Istituzioni, incrinando lo status sociale
dello Stato e mettendo anche in discussione lo stesso funzionamento del
contratto sociale, il quale infatti ne esce ridimensionato in una serie di
contratti limitati nel tempo e nello spazio. E’ di fatto la fine dell’epoca
della sicurezza ma anche l’acquisizione di nuovi strumenti critici di
pensiero.
7
Di fronte ad una definizione tanto estesa del concetto di
postmoderno, per quanto riguarda una discussione sulla spazialità
urbana, Amendola isola una serie di punti che permettono di rendere
sufficientemente chiaro che cosa è postmoderno, riducendo la
complessità della definizione. Ricollegandosi a sua volta ad un modello
esplicativo già in parte presentato da Hassan [HASSAN IHAB], Amendola
lo integra, asserendo che il postmoderno è:
- indeterminatezza, ambiguità, fratture;
- frammentazione, differenza, patchwork e bricolage;
- decanonizzazione, niente codici e metalinguaggi;
- crisi del sé e mancanza di profondità;
- edonismo e ricerca della bellezza (al posto dell’utilità emerge
il piacere);
- ironia, ibridazione, parodia, travestimento, pastiche;
7
E’ interessante però aggiungere, a latere, di un grave problema nell’articolazione discorsivo della
“Condizione postmoderna” di Lyotard, così come si evince dai più recenti studi sul testo; in
particolare, appare paradossale – osserva Ben Dorfman (ricercatore presso l’Università di Aalborg,
nel paper “Postmodernism, Knowledge And J-F Lyotard”) [DORFMAN BEN] – che mentre Lyotard
contribuisce con il suo testo a sentenziare la fine delle grandi ideologie della modernità, arrivi a
riproporne immediatamente un’altra: nella parte conclusiva, infatti, Lyotard assegna una grande
fiducia nelle capacità della nuova frontiera dell’informazione e dell’elettronica, di permettere una
distribuzione del sapere su base più egualitaria. Si tratta, a ben vedere, di una nuova grande
narrazione, un mito del progresso tecnologico che evidentemente quando Lyotard scrisse la
Condizione, nel 1979, ancora permaneva radicato a livello sociale. Questo stesso concetto, tra l’altro,
non è morto ma lo si ritrova approfondito e altrettanto ingenuamente espresso - per la sua fede
utopica nella tecnologia dell’informazione - nei testi recentissimi e molto diffusi del francese Pierre
Levy. Il discorso sociale e filosofico che hanno accompagnato la diffusione delle nuove tecnologie
negli ultimi decenni è del resto spesso caduto nella tentazione semplicistica di additare il nuovo come
“la soluzione” definitiva, dimenticando che un’assunzione di tale portata è sempre rivoluzionaria. Altri
esempi di tale approccio si trovano nei testi di Howard Rheingold, noto divulgatore dell’innovazione,
che esalta le virtù prodigiose degli HMD (Head Mounted Display) e della Realtà Virtuale come fossero
la panacea per tutti i mali dell’uomo.
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- presentificazione del tempo;
- carnevalizzazione del quotidiano (vita come gioco);
- protagonismo e partecipazione (la città è un work in
progress);
- soggettivismo, eterogeneità dei punti di vista;
- stocasticità, imprevedibilità, caso.
Se elementi di questo tipo erano tutti considerati patologici dalla
visione moderna della città, nel postmoderno diventano invece non solo
accettabili ma anche necessari ad una vivibilità dello spazio smaliziato e
non viziata da preconcetti ideologici e utopici.
La città diventa bricolage, citazione di citazioni, gioco e sperimentalismo
formale, nonché aspira ad essere simbolo e gioco linguistico, spesso
anche solo auto-referenziale. Le pareti si colorano, perdono la regolarità
e si innestano sulle monosuperfici del moderno.
Osserva Amendola che si arriva al neobarocco. Perché una città
barocca? Perché la città barocca era una città in cui ogni elemento fisico
assumeva un significato preciso di rimando all’immaginario del tempo. La
differenza, però, è che se tale città fondeva la realtà con l’immaginario
solo in pochi momenti dell’anno (il carnevale, la festa) la città neobarocca
istituisce questo gioco come base della sua stessa esistenza, quindi
continuo. E’ la città di Goffman, la città-scena. Tutto diventa spettacolo, e
lo è sempre: è anche difficile parlare di distorsione della realtà a questo
punto (di quale realtà si sta parlando, poi?).
Un paragone cinematografico arricchisce questa visione: mentre la
città moderna è abitata dal robot di Lang, che è indubitabilmente non-
umano, la città di Scott è invece vissuta da essere in decidibili, per i quali
non è più possibile stabilire un confine fra umanità e non umanità. Questo
diverso approccio alla visione del futuro (che, come è evidente, ci insegna
in genere molto più del presente che non del futuro) nelle due diverse
epoche – Metropolis di Lang è del 1927 mentre Blade Runner di Scott è
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del 1982 – rende conto della chiarezza fra realtà e immaginario che il
moderno conserva come necessaria base della propria razionalità, mentre
il postmoderno pende a favore di un gioco fra una rappresentazione che
si priva della referenzialità esterna.
Figura 3 – Il robot di Metropolis e il droide Rachel di Blade Runner. In realtà, anche in
Metropolis il robot assume sembianze umane, quando si sostituisce alla co-protagonista
Maria, ma il processo di trasformazione è spiegato, è evidente. Il mondo inscenato da
Scott, invece, prescinde da questo passaggio: all’occhio dello spettatore – e degli abitanti
del mondo rappresentato – l’umano non è più percepibile rispetto alla macchina.
(fonte: screen captures dei due film)
Se la cultura moderna è intrisa di un immaginario che imita il reale,
con il postmoderno si ribalta dapprima questo concetto: è il reale che
imita l’immaginario. Quindi, da lì il passo è breve perché i due piani si
confondano e non resti più certezza su una “verità” di riferimento sicura.