6
Ma che cosa significa esser capace della morte in quanto morte e morire con-
tinuamente se non precorrere risolutamente il proprio nullo fondamento?
La nostra interpretazione di «Jäh vermutlich» (il mondo mondeggerà «pro-
babilmente in modo repentino», cioè nella risolutezza precorritrice) ci sembra
trovare conferma nella poesia di Trakl, raccolta in Unterwegs zur Sprache, di
cui ci occupiamo verso la fine del lavoro. Questa poesia però, se da una parte
attesta l’Auslegung del non detto in «Jäh vermutlich», dall’altra riapre un di-
scorso, introducendo elementi «psicoanalitici» che ci impongono di sgombrare
il campo dagli equivoci. Nella radura sgombra, risplenderà il verso di Hölder-
lin: «Un segno noi siamo, che nulla indica...». L’altro si manifesta in tal modo,
nel chiaroscurare della teoretica.
Il metodo della ricerca è quello «fenomenologico», nel senso del «lasciar
vedere, mostrando, ciò che si manifesta in se stesso». Abbiamo cioè privilegia-
to la lettura diretta dell’opera heideggeriana, piuttosto che l’uso della critica,
«ascoltando» i testi anche in lingua originale.
7
Capitolo 1
Costruire e abitare
Heidegger domanda che cosa significa «abitare» in una conferenza tenuta il
5 agosto 1951, dal titolo Costruire abitare pensare. La conferenza fu tenuta
nell’ambito di un Colloquio su Uomo e spazio, a Darmstadt. Che le parole
«costruire» e «pensare» accompagnino l’abitare è essenziale, così come non è
un puro gioco del caso che sullo sfondo dominino le parole «uomo» e «spa-
zio». Ma procediamo con ordine e domandiamoci, per prima cosa: qual è il
nesso che lega costruire e abitare?
Comunemente si pensa che l’abitare sia il fine del costruire: si costruisce
una casa per abitarci dentro. Ma non tutte le costruzioni, dice Heidegger, sono
delle abitazioni. Anche l’autostrada è una costruzione; anche il ponte è una
costruzione. Ebbene, il camionista è a casa propria sull’autostrada, eppure non
vi alloggia. L’autostrada, il ponte, sono delle costruzioni che albergano (be-
hausen) l’uomo, il quale le abita (bewohnt) senza, per questo, avervi alloggio.
Egli le abita e tuttavia non abita «in» esse. Il costruire dell’uomo non è sem-
plicemente mezzo (Mittel) che conduce all’abitare, come suo scopo (Zweck); il
costruire è in se stesso già un abitare.
«Chi ci dice questo? Chi ci dà in generale una misura con la quale misurare
in tutta la sua estensione l’essenza dell’abitare e del costruire? La parola che ci
parla [der Zuspruch] dell’essenza di una cosa ci viene dal linguaggio [aus der
Sprache], purché noi sappiamo fare attenzione all’essenza propria di questo.»
1
1
M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954, quarta edizione
(1978), p. 140; trad. it. a cura di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976,
p. 97.
8
Bauen, «costruire», nell’antico tedesco si diceva buan; buan significava «a-
bitare». Una traccia di questo antico significato la troviamo nella parola Na-
chbar, «vicino». Il Nachbar è «colui che abita nelle vicinanze».
2
Ma la parola
buan indica di più: essa ci dice che l’abitare non è un comportamento
dell’uomo accanto ad altri suoi comportamenti. Buan, infatti, è lo stesso che
bin. Ich bin («io sono») significa «io abito». «Il modo in cui tu sei e io sono, la
maniera in cui noi uomini siamo sulla terra è il Buan, l’abitare.»
3
L’uomo «è»
uomo in quanto abita. «Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale,
significa: abitare.»
4
Ma Bauen vuol dire anche, e nello stesso tempo, «custodire e curare» (he-
gen und pflegen), coltivare il campo, coltivare la vigna (den Acker bauen, Re-
ben bauen). Qui Heidegger fa una distinzione fra il bauen inteso come «colti-
vare» (colere) e il bauen inteso come «erigere costruzioni» (errichten von
Bauten, aedificare). Il contadino, per esempio,
5
custodisce (hütet), «soltanto»,
«ciò che cresce e porta [zeitigt] da sé i suoi frutti».
6
Chi costruisce una nave o
un tempio, invece, produce (stellt her), in un certo senso, la sua opera. In que-
sto caso costruire è erigere. Il coltivare e l’erigere sono entrambi modi
dell’autentico Bauen, dell’abitare.
Ma l’autentico senso del Bauen, l’essere sulla terra, cade per lo più
nell’oblio: l’abitare (das Wohnen) diventa «l’abituale» (das Gewohnte) e non
2
Vorträge und Aufsätze, trad. cit., p. 97. Noi abbiamo trovato un’altra traccia del si-
gnificato originario di bauen. C’è un villaggio, in Svizzera, che si chiama Büren an
der Aare: abitare presso l’Aar. Il senso del riecheggiare nella parola Büren di un al-
tro significato di bauen, «coltivare», lo comprenderemo fra poco.
3
Vorträge und Aufsätze, cit., p. 141.
4
«Mensch sein heisst: als Sterblicher auf der Erde sein, heisst: wohnen». Ivi, p. 141.
5
L’esempio, qui, è nostro. Esso si impone, quasi, se si pensa che «contadino» in tede-
sco si dice «Bauer». Anche di simili «imposizioni» sono costellati i cammini ri-
percorsi.
6
Ivi, p. 141.
9
viene più esperito e pensato come il tratto fondamentale dell’essere dell’uomo.
Heidegger dice che è proprio delle parole essenziali e del loro dire cadere fa-
cilmente nell’oblio. «Il segreto di questo processo l’uomo lo ha pensato ancora
poco. Il linguaggio sottrae all’uomo il suo parlare semplice e alto. Ma il suo
appello iniziale [originario] non diventa muto, per questo; esso tace solo. Vero
è che l’uomo tralascia di fare attenzione a questo tacere.»
7
Prestando attenzione all’appello originario della parola Bauen, noi giun-
giamo dunque all’abitare come tratto fondamentale dell’essere dell’uomo. Noi
non abitiamo perché abbiamo costruito; ma abbiamo costruito e continuiamo a
costruire perché abitiamo, perché «siamo» gli abitanti (die Wohnenden). Non
abbiamo ancora detto, però, qual è il tratto fondamentale dell’abitare. Ascol-
tiamo, dice Heidegger, ancora una volta l’appello (der Zuspruch) che ci viene
dal linguaggio. C’è una parola gotica per abitare: wunian. Wunian significa
«rimanere», «soggiornare» (bleiben, sich aufhalten); ma significa anche, e nel-
lo stesso tempo, «zufrieden sein», «zum Frieden gebracht, in ihm bleiben»:
esser contento, portato alla pace, rimanere in essa. «La parola Friede indica il
Freie, o Frye, ciò che è libero; e fry significa: preservato da mali e da minac-
ce.»
8
Preservato da... (bewahrt vor...) cioè salvaguardato nella cura, protetto
(geschont). L’autentica salvaguardia (das eigentliche Schonen) avviene quan-
do noi dall’inizio lasciamo essere qualcosa nella sua essenza, in essa la ricon-
duciamo e manteniamo (zurückbergen), proteggendola. Il tratto fondamentale
dell’abitare dell’uomo è questo Schonen, questo salvaguardare nella cura, pro-
teggendo e custodendo.
7
Ivi, p. 142.
8
Vorträge und Aufsätze, trad. cit., p. 99.
10
Capitolo 2
I Quattro
Forse è opportuno, a questo punto, fermarsi un po’ a riflettere sul cammino
percorso. La nostra domanda era: che cosa significa «abitare»? Abbiamo ap-
preso, essenzialmente, che l’abitare è il tratto fondamentale dell’essere
dell’uomo e che il tratto fondamentale dell’abitare è il salvaguardare nella cu-
ra. A dire il vero, il cammino percorso, anche se, sin qui, breve, ci ha già fatto
scorgere altri sentieri percorribili. Potremmo ad esempio domandare: qual è il
significato della particella «an» nella parola wunian, e cosa significa più pro-
priamente che l’uomo abita costruzioni quali il ponte e l’autostrada ma non
abita «in» esse? Oppure: in che senso l’uomo «produce» un tempio, qual è
cioè il senso dell’erigere costruzioni? E ancora: perché Heidegger si affida al
linguaggio per determinare l’essenza dell’abitare? Il domandare è la «pietà del
pensiero».
1
Ma noi non possiamo ora smarrirci nel bosco. Ritorneremo indie-
tro, a ripercorrere i sentieri interrotti, più tardi. C’è, però, un’indicazione che è
fondamentale alla nostra meta: non possiamo tralasciare di vedere dove essa ci
porta. Heidegger ci ha mostrato che l’abitare è il tratto fondamentale
dell’essere dell’uomo e ha detto che essere uomo significa: essere sulla terra
come mortale. «Sulla terra come mortale...» Dobbiamo ora seguire «decisa-
mente» questa traccia.
2
1
Vorträge und Aufsätze, cit., p. 40.
2
L’avverbio «decisamente» risplenderà nella sua piena luce alla fine del cam-
mino.
11
Ascoltiamo Heidegger: «Sulla terra significa già “sotto il cielo” . Entrambi,
e insieme, voglion dire “rimanere davanti ai divini” e includono: “appartenen-
do alla comunità degli uomini”. A partire da un’unità, i Quattro [die Vier]: ter-
ra e cielo, i divini e i mortali, sono una cosa sola.»
3
«La terra è quella che servendo sorregge, che fiorendo dà frutti, che si di-
stende inerte nelle rocce e nelle acque e vive nelle piante e negli animali.
Quando diciamo “terra”, pensiamo già insieme anche gli altri Tre, ma non ri-
flettiamo ancora sulla semplicità [Einfalt] dei Quattro. Il cielo è il cammino
arcuato del sole, il vario apparire della luna nelle sue diverse fasi, il luminoso
corso delle stelle, le stagioni dell’anno e il loro volgere, la luce e il declino del
giorno, il buio e il chiarore della notte, la clemenza e l’inclemenza del tempo,
l’addensarsi delle nuvole e l’azzurra profondità dell’etere. Quando diciamo
cielo, pensiamo già insieme anche gli altri Tre, ma non riflettiamo ancora sulla
semplicità dei Quattro. I divini sono i messaggeri che ci indicano la divinità.
Nel sacro dispiegarsi della loro potenza, il dio appare nella sua presenza o si
ritira nel suo nascondimento. Quando nominiamo i divini, pensiamo già anche
insieme gli altri Tre, ma non riflettiamo ancora sulla semplicità dei Quattro. I
mortali sono gli uomini. Si chiamano mortali perché possono morire. Morire
significa esser capace della morte “in quanto” morte. Solo l’uomo muore, e
muore continuamente, fino a che rimane sulla terra, sotto il cielo, di fronte ai
divini. Quando nominiamo i mortali, pensiamo già anche insieme gli altri tre,
ma non riflettiamo ancora sulla semplicità dei Quattro.
3
Ivi, p. 143.
12
Questa loro semplicità noi la chiamiamo il Geviert, la Quadratura.»
4
I mortali «sono» nel Geviert in quanto «abitano». Ma il tratto fondamentale
dell’abitare è il salvaguardare nella cura: «I mortali abitano nella maniera della
salvaguardia del Geviert nella sua essenza.»
5
I mortali abitano in quanto «sal-
vano» (retten) la terra. Salvare, dice Heidegger, non significa, semplicemente,
«strappare da un pericolo», bensì, autenticamente: lasciar libero qualcosa nella
sua essenza. Salvare la terra è più che sfruttarla (ausnützen) o, magari, stancar-
la (abmühen). Il salvare la terra non padroneggia la terra e non l’assoggetta. I
mortali abitano in quanto «accolgono» (empfangen) il cielo. Essi lasciano al
sole e alla luna il loro corso, alle stelle i loro movimenti, alle stagioni
dell’anno la loro benedizione e le loro ingiurie; essi non fanno della notte il
giorno, e del giorno un agitarsi continuo. I mortali abitano in quanto «sperano»
(erwarten) nei divini come divini. Sperando, essi tendono loro, affidandoglie-
lo, l’insperato. Essi attendono i cenni del loro avvento e non misconoscono i
segni della loro assenza. Non si fabbricano i loro dèi e non praticano il culto
degli idoli. Nella disgrazia («im Unheil»), essi attendono ancora («noch war-
4
Vorträge und Aufsätze, trad. cit., p. 99. Sui motivi che hanno indotto Vattimo
a tradurre Geviert con «Quadratura», cfr., ivi, la sua nota . A. Caracciolo e
M. Caracciolo Perotti in M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio,
Mursia, Milano 1973, hanno tradotto, dopo molte perplessità, con «Quadra-
to». Noi lasciamo Geviert non tradotto, pur facendo «suonare», qua e là, la
semplicità di «Quadrato». Geviert è usato da Heidegger con l’accentuazione
del prefisso collettivo «Ge-» (come spesso altrove). «Ge-» raccoglie presso
di sé i Quattro, costituendo la loro essenza e dandole riparo. Scrive J. J. Ko-
ckelmans in Some Reflections on Heidegger’s Conception of Earth: «Nella
concezione del mondo in termini del Quadrato di cielo e terra, divini e morta-
li, Heidegger cercava di recuperare il pensiero antico. Fino a che l’uomo ha
vissuto in una concezione mitica del mondo, egli ha sperimentato il mondo
come uno sposalizio di cielo e terra e ha esperito se stesso come il mortale
sul quale gli dèi potevano accampare legittime pretese.» Cfr. Martin Heideg-
ger, a cura di L. Penzo, Humanitas, Morcelliana, 4, Brescia 1978, p. 447.
Kockelmans fa anche notare che questi stessi Quattro li troviamo nel Gorgia
di Platone (507-508) a costituire il kósmos.
5
Vorträge und Aufsätze, cit, p. 144.
13
ten sie») ciò che salva e che si è sottratto («des entzogenen Heils»). I mortali
abitano in quanto «conducono» (geleiten) la loro propria essenza, l’esser capa-
ci della morte in quanto morte, all’uso di questa capacità, affinché sia una
buona morte. Condurre i mortali nell’essenza della morte non significa affatto
porre come meta la morte intesa come il vuoto nulla; e non vuol dire nemmeno
oscurare l’abitare dell’uomo attraverso un cieco fissare la fine...
6
Nel salvare la terra, nell’accogliere il cielo, nell’aspettarsi i divini, nel con-
durre i mortali «avviene» (ereignet sich) l’abitare come la quadruplice salva-
guardia del Geviert.
6
Con i puntini sospensivi intendiamo rimandare al vero significato del «con-
durre i mortali nell’essenza della morte». Tale significato potrà manifestarsi
solo più tardi.
14
Capitolo 3
Il pensiero come poesia
Qualcuno, leggendo le pagine precedenti, potrebbe chiedersi: ma, questa, è
veramente filosofia? Non è piuttosto «filologia» o un tentativo di far poesia?
Per rispondere a questo interrogativo noi poniamo un’altra domanda: qual è il
nesso che lega pensiero, linguaggio e poesia? Sentiamo cosa dice Heidegger,
in uno scritto che è la chiave di lettura di tutta la sua opera: La lettera
sull’umanismo.
1
«...nel pensiero l ’ E s s e r e
2
viene al linguaggio. Il linguag-
gio è la casa dell’Essere. Nella dimora data dal linguaggio abita l’uomo. I pen-
satori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il compimento
[das Vollbringen] della manifestabilità dell’Essere, in quanto essi, mediante il
loro dire, la conducono al linguaggio e la custodiscono in esso.»
3
Quell’interrogativo che qualcuno potrebbe porsi presuppone una concezio-
ne della filosofia come «scienza». Sin dai tempi di Platone e Aristotele, dice
poco più avanti Heidegger, da quando, cioè, il pensiero è inteso come «il pro-
cesso della riflessione al servizio del fare e del produrre», la filosofia «è per-
seguitata dalla paura di perdere in valore e considerazione, se non è scienza.»
In questo sforzo di elevare la filosofia a scienza avviene «l’abbandono
dell’essenza del pensiero». In una tale prospettiva, la poesia è «abbandono
1
M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit. Mit einem Brief über den Humani-
smus, Francke, Bern 1947; trad. it. a cura di A. Bixio e G. Vattimo, La dottrina di
Platone sulla verità. Lettera sull’umanismo, S.E.I., Torino 1975.
2
Spaziato nostro.
3
Brief über den Humanismus, trad. cit., p. 75 della ristampa del luglio 1978.
15
all’irreale della semplice rappresentazione fantastica»
4
o, tutt’al più, «orna-
mento del pensiero».
5
Noi non riflettiamo ancora abbastanza sulla vicinanza che c’è fra pensiero e
poesia.
6
Denken (pensare) ha la stessa radice di dichten (poetare). Il pensiero è
poesia in senso essenziale. Non poesia, cioè, intesa come «arte della parola»
(Poesie), bensì poesia intesa come Dichtung, come «instaurazione [Stiftung]
della verità»
7
, come compimento, cioè, della manifestabilità dell’Essere. Ma
che cosa significa, propriamente, «compimento della manifestabilità
dell’Essere»?
Ascoltiamo Heidegger: «Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza de-
cisivo l’essenza dell’agire. Si ritiene che l’agire sia solo il fatto di produrre ef-
fetti, la cui realtà è valutata in base alla loro utilità. L’essenza dell’agire invece
è il portare a compimento [das Vollbringen]. Portare a compimento significa:
sviluppare qualcosa nella pienezza della sua essenza, accompagnare in questa
pienezza, “producere”. Dunque può essere portato a compimento in senso
proprio solo ciò che già è; ma ciò che prima di tutto “è”, è l’Essere. Il pensiero
“compie” [vollbringt] la relazione dell’Essere all’essenza dell’uomo. Non che
esso produca o provochi questa relazione. Il pensiero la offre all’Essere solo
come ciò che a lui stesso è consegnato dall’Essere. Questo offrire consiste nel
4
M. Heidegger, Holzwege, Klostermann, Frankfurt a. M. 1950; trad. it. a cura di P.
Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968; p. 56 della ristampa del
novembre 1979.
5
Brief über den Humanismus, trad. cit., p. 128.
6
Parafrasando un altro passo del Brief über den Humanismus (trad. cit., p. 99), fac-
ciamo rilevare che qui è con «intenzione ed attenzione» che diciamo «c’è». In tede-
sco, infatti, «c’è» suona «es gibt», che letteralmente significa «esso dà». L’«es» che
dona la vicinanza fra pensiero e poesia è l’Essere stesso. Per una concreta «espe-
rienza» di questa vicinanza, si legga, di M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Den-
kens, Pfullingen 1954, trad. it. di A. Rigobello, Pensiero e poesia, Armando Edito-
re, Roma 1977.
7
Holzwege, trad. cit., p. 58.
16
fatto che nel pensiero l’Essere viene la linguaggio. Il linguaggio è la casa
dell’Essere. Nella dimora data dal linguaggio abita l’uomo. I pensatori e i poe-
ti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il compimento della mani-
festabilità dell’Essere, in quanto essi, mediante il loro dire, la conducono al
linguaggio e la custodiscono in esso. Non è che il pensiero si fa azione solo in
quanto da lui scaturisce un effetto o in quanto è applicato. Il pensiero agisce in
quanto pensa. Questo agire probabilmente è il più semplice e nello stesso tem-
po il più alto, perché riguarda la relazione dell’Essere all’uomo. Ma ogni ope-
rare poggia sull’Essere e si volge all’essente. Il pensiero al contrario si lascia
reclamare dall’Essere [in den Anspruch nehmen] per dire la verità dell’Essere.
Il pensiero compie questo lasciare.»
8
Che il pensiero, in quanto Dichtung, sia
l’instaurazione (o la «fondazione», come potremmo anche tradurre la parola
Stiftung
9
) della verità, non significa, dunque, che esso crea, per così dire, la
verità, bensì che esso porta a compimento (nel senso che abbiamo appena vi-
sto) la manifestabilità dell’Essere. La verità, infatti, è la manifestabilità
dell’Essere.
10
Se riflettiamo attentamente sulle parole di Heidegger, comprendiamo che
anche il linguaggio è poesia in senso essenziale: «Il linguaggio non è soltanto
e in primo luogo l’espressione orale e scritta di ciò che dev’essere comunicato.
Esso non si limita a trasmettere in parole e frasi ciò che è già rivelato o nasco-
sto, ma, per prima cosa, porta nell’A p e r t o l’ente in quanto ente.»
11
8
Brief über den Humanismus, trad. cit., p. 75.
9
Anche la parola «fondazione» (cfr., la nota 2 del capitolo I Quattro) risplenderà nel-
la sua (nulla) luce alla fine del nostro cammino.
10
Per il significato compiuto di «verità» rimandiamo, qui, al capitolo La questione
della tecnica.
11
Holzwege, trad. cit., p. 57. Lo spaziato è nostro.
17
Ora che ci siamo liberati, speriamo, dalla paura di essere poco scientifici,
possiamo riprendere il nostro cammino. Non prima di aver fatto notare, tutta-
via, che per Heidegger la «non scientificità» del pensiero non implica affatto
che esso debba essere meno rigoroso. Solo che «...il rigore del pensiero [die
Strenge des Denkens] consiste, a differenza delle scienze, non puramente
nell’esattezza [Exaktheit] artificiale, cioè tecnico-teoretica, dei concetti. Esso
riposa nel fatto che il dire rimane completamente nell’elemento dell’Essere e
lascia vigere [Walten] il semplice delle sue molteplici dimensioni.»
12
12
Brief über den Humanismus, cit., pp. 6-7.
18
Capitolo 4
Le cose
I mortali, dunque, abitano nella maniera della salvaguardia del Geviert nella
sua essenza. Ma dove mettono al riparo (verwahren), i mortali, l’essenza del
Geviert? Perché salvaguardare vuol dire custodire, e ciò che è preso in custo-
dia deve essere messo al riparo. Come portano a compimento, cioè, i mortali,
l’abitare inteso come salvaguardare?
L’abitare, dice Heidegger, è già sempre un soggiornare presso le cose.
«L’abitare come salvaguardare nella cura mette al riparo il Geviert in ciò pres-
so cui i mortali soggiornano: nelle cose.»
1
Queste, però, avverte Heidegger,
danno riparo al Geviert solo quando esse stesse vengono lasciate essere nella
loro essenza di cose. Ciò avviene nella misura in cui i mortali custodiscono e
curano le cose che crescono ed erigono in modo appropriato quelle che non
crescono.
Sorgono, a questo punto, due domande:
1. Qual è l’essenza delle cose?
2. Cosa significa «erigere in modo appropriato»?
Per rispondere a queste domande ci serviremo, oltre che della già citata
conferenza del 1951, delle conferenze su La cosa (1950) e su La questione
della tecnica (1953), anch’esse raccolte nel libro Saggi e discorsi.
Che cos’è, dunque, una cosa? Serva alla nostra meditazione, dice Heideg-
ger, come esempio, un ponte. Esso si inarca «leggero e forte» sopra il fiume.
1
Vorträge und Aufsätze, cit., p. 145. Sul senso di questo «presso», da collegare
all’«an» di «wunian» (v. cap. I Quattro), ritorneremo nel prossimo capitolo. Per
quanto riguarda il significato «etico» del soggiornare dei mortali presso le cose, cfr.
il capitolo Teor-etica.
19
Non unisce semplicemente rive già esistenti (vorhanden): è il ponte che fa ap-
parire le rive come rive. Esso, inoltre, porta al fiume anche le distese del pae-
saggio retrostante. Il ponte porta il fiume, le rive e il paesaggio in una recipro-
ca vicinanza. Esso «riunisce [versammelt] la terra come paesaggio intorno al
fiume».
2
I pilastri del ponte reggono, poggiando sul letto del fiume, lo slancio
delle arcate, le quali lasciano alle acque la loro via. Che queste scorrano «tran-
quille e allegre», che le inondazioni del cielo, nella bufera, o quelle del disgelo
vadano a sbattere impetuosamente contro le arcate, il ponte è «pronto» (bereit)
per i tempi del cielo, per i suoi umori. Anche là dove il ponte copre il fiume
esso tiene chiuso al cielo il suo scorrere, accogliendolo per pochi istanti sotto
le arcate prima di lasciarlo di nuovo libero. Il ponte lascia al fiume il suo corso
e nello stesso tempo assicura ai mortali la via. Sempre, e ogni volta in modo
diverso, il ponte porta su e giù i cammini esitanti o affrettati degli uomini,
«permettendo loro di giungere sempre ad altre rive e, da ultimo, di passare,
come mortali, dall’altra parte».
3
Il ponte si slancia, con arcate ora alte e ora
basse, al di sopra del fiume o del precipizio, sia che i mortali facciano atten-
zione allo «slancio oltrepassante» del ponte, sia che dimentichino che essi,
«sempre sulla via dell’ultimo ponte, fondamentalmente cercano di superare ciò
che è in loro solito e profano, per portarsi davanti alla grazia del divino».
4
Il
ponte raccoglie (sammelt), in quanto slancio oltrepassante, davanti ai divini.
Poco importa, dice Heidegger, che la loro presenza sia espressamente avvertita
(bedacht) e visibilmente ringraziata (bedankt), come nell’immagine del santo
protettore del ponte, o che invece resti nascosta e misconosciuta. Il ponte riu-
nisce a suo modo terra e cielo, i divini e i mortali. Nell’antico tedesco, riunio-
ne (Versammlung) suonava thing.
2
Ivi, p. 146.
3
Vorträge und Aufsätze, trad. cit., p. 102.
4
Vorträge und Aufsätze, cit., 147.