2
Il nodo della questione della finanza offshore riguarda proprio il processo che ha
portato al progressivo indebolimento dei sistemi normativi e fiscali dello Stato nazione
e all’affermazione dell’economia globale. I paradisi fiscali ed i loro sostenitori
ritengono che la competizione fiscale garantisca un contrappeso indispensabile ai regimi
con un livello impositivo ed una spesa pubblica molto elevati e rivendicano i diritti
degli individui e delle imprese di massimizzare la propria efficienza fiscale attraverso
l’uso di veicoli offshore. Da questo punto di vista, la competizione tra giurisdizioni
costituisce un’estensione del principio della libera concorrenza che rappresenta il fulcro
del processo democratico. Le nazioni competono tra loro per attirare “clienti” in base
alle imposte ed ai servizi che sono in grado di offrire.
Questo modello della competizione fiscale in libero mercato, però, presuppone che
tutti i soggetti d’imposta e tutte le attività, siano perfettamente mobili e quindi in grado
di spostarsi tra differenti giurisdizioni secondo la propria preferenza. Ma è ormai chiaro
a tutti che la perfetta mobilità è una semplice assunzione e non una realtà, e quindi
l’OCSE, il Fondo Monetario Internazionale ed altre istituzioni internazionali hanno
preso coscienza del fatto che la competizione fiscale tra Stati su queste basi potrebbe
essere economicamente dannosa, per una serie di ragioni. Ad esempio, la competizione
fiscale sposta l’onere tributario tra diversi tipi di attività economica, incoraggiando
l’attività speculativa di breve termine a scapito degli investimenti fissi di lungo periodo;
inoltre, il ricorso sempre più frequente, da parte di individui ed imprese a veicoli
offshore finisce per incrinare l’integrità e l’equità dei sistemi fiscali; l’impiego di
strumenti di evasione fiscale sempre più complessi ha accresciuto le difficoltà delle
amministrazioni nella raccolta fiscale; ma soprattutto, fenomeni di evasione ed elusione
fiscale sempre più diffusi hanno aumentato le disparità di reddito, tra e all’interno degli
Stati, determinando una sorta di fuga delle élites più ricche dai propri obblighi sociali ed
economici. Inoltre, un’intensa competizione tra paradisi fiscali, la maggior parte dei
quali sono piccoli territori con strutture di governo puramente formali, consente alle
imprese di esercitare la propria considerevole influenza politica per sponsorizzare
strutture fiscali o normative particolarmente vantaggiose per i propri interessi.
3
I paradisi fiscali ribadiscono spesso il proprio diritto a compiere, all’interno del
proprio territorio, liberamente le proprie scelte di politica fiscale; ma di questi privilegi
fiscali, le piccole giurisdizioni non dovrebbero abusare, adottando misure che
distinguono deliberatamente tra residenti e non residenti e consentendo a questi ultimi
di usare i circuiti offshore per nascondere redditi e profitti.
I paradisi fiscali ed i Centri Finanziari offshore (CFO) giustificano anche la loro
esistenza sostenendo di svolgere il ruolo di centro di smistamento dei flussi
d’investimento verso il mercato internazionale dei capitali. Questa è pura demagogia.
Molti CFO videro la luce proprio perché rappresentavano uno strumento estremamente
utile per sfuggire ai controlli valutari. Molti dei capitali che circolano attraverso i
circuiti offshore, infatti, sono attratti dalla possibilità che questi forniscono di ripulitura
del denaro sporco derivante da attività illecite.
La segretezza è un prerequisito per l’attività finanziaria offshore e si manifesta o
come segreto bancario, garantito per legge, o come risultante della creazione di strutture
di possesso opache. La distribuzione di transazioni tra più veicoli offshore, spesso
domiciliati in diverse giurisdizioni, garantisce una sorta di “spazio di segretezza”
all’interno del quale nascondere la natura delle transazioni. Questo spazio mina la
trasparenza del mercato, incoraggiando transazioni illegittime richiedendo un notevole
spreco di risorse, sia dal punto di vista della pianificazione fiscale che dal punto di vista
della regolamentazione e dell’investigazione.
Cambiare le regole del segreto bancario, tuttavia, non è, di per sé, sufficiente ad
impedire gli effetti dannosi del riciclaggio di denaro e dell’evasione/elusione fiscale.
Negli ultimi trent’anni, i paradisi fiscali ed i CFO hanno permesso l’introduzione di una
serie di congegni, tra cui le fondazioni, i trust, le International Business Corporations
(IBC), gli Special Purpose Vehicles (SPV) che possono essere incrociati e spostati
attraverso più giurisdizioni.
Troppo frequentemente queste giurisdizioni sono ricorse a false promesse quando
viene richiesta la loro cooperazione in indagini fiscali o giudiziarie. Spesso le autorità
dei paradisi fiscali giustificano le loro attività sostenendo che, tentare di imporre più alti
standard di regolamentazione in un paradiso fiscale non sortirebbe altro effetto che
4
incoraggiare il trasferimento delle attività in giurisdizioni ancora più remote e
sottoregolamentate.
L'attività dei paradisi fiscali e dei CFO non può essere più a lungo ignorata perché è
diventata ciò che un rapporto delle Nazioni Unite sul riciclaggio
1
definisce come “an
enormous hole in the international legal and fiscal system”.
Un sistema del genere è stato tollerato per anni e la responsabilità va ricondotta alle
grandi potenze che non hanno avuto il coraggio e la lungimiranza di fare ordine
nell’arcipelago offshore. Ad onor del vero qualcosa si sta finalmente muovendo e una
brusca accelerazione, almeno nelle intenzioni, è conseguita alla tragedia dell’11
settembre ed in seguito a due crack finanziari che hanno visto come protagoniste due
aziende “modello” come Parmalat ed Enron.
Prima del crollo delle Torri Gemelle esistevano due linee di pensiero, una più dura,
vicina alla filosofia dell’Unione Europea, secondo la quale era ormai ineludibile
modificare in senso più restrittivo le deboli legislazioni dei paradisi fiscali, l’altra più
soft, rappresentata dall’amministrazione statunitense, ai cui occhi i paesi offshore non
apparivano così pericolosi. Solo nel luglio 2001 il presidente George W.Bush aveva
respinto al mittente un piano del Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale (GAFI)
dell’OCSE (Organizzazione per le Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che
prevedeva misure severe nei confronti dei paradisi fiscali.
Dopo quello che è successo appaiono tutti più determinati, anche se è bene nutrire più
di un dubbio visto che come vedremo nel capitolo conclusivo, molti dei paradisi fiscali
si trovano proprio all’interno dei Paesi più industrializzati.
Il problema è di pura volontà politica, perché se si è riusciti ad imporre pesanti piani
di aggiustamento strutturale a grandi paesi come Argentina e Russia, al di là delle
pesanti conseguenze che essi hanno provocato in queste nazioni, appare inverosimile
che non si possa limitare l’immunità finanziaria e fiscale di piccoli Stati.
E’ evidente, quindi, che la pressione di alcune lobbies internazionali è stata talmente
forte da impedire di assumere decisioni che andassero verso una regolazione del
1
United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention “Financial Havens, Banking Secrecy and
Money Laundering” , 1998.
5
fenomeno. Da questo punto di vista la responsabilità delle multinazionali, che
concentrano gran parte delle loro ricchezze nei paradisi sparsi per il globo, è enorme.
Trovata la gallina dalle uova d'oro, perché abbandonarla?
Il presente lavoro è proprio volto a dimostrare come queste giurisdizioni siano
nient’altro che un mezzo estremamente vantaggioso sia per i singoli Stati che per le
aziende che si muovono all’interno di un mercato globale e a cui questi soggetti
economici non hanno mostrato alcuna intenzione di voler rinunciare. Dopo aver
sviluppato le ragioni di fondo che spingono i contribuenti, con particolare interesse per
quelli italiani, a rivolgersi a giurisdizioni offshore nel tentativo di ridurre il proprio
carico fiscale, ho dedicato il primo capitolo all’analisi delle caratteristiche dei paradisi
fiscali così come sono giudicati e trattati in ambito internazionale ed interno, ho cercato
di offrire un panorama degli elementi che li rendono appetibili per la collocazione di
capitali e ho illustrato le posizioni della comunità internazionale in merito alle
transazioni finanziarie che coinvolgono i paradisi fiscali, fornendo un panorama
organico delle contromisure adottate sia in ambito nazionale che all’interno dell’OCSE.
Nel secondo capitolo viene approfondita l’analisi dei centri offshore, della loro
origine, la loro definizione ed individuazione da parte delle istituzioni internazionali, le
tipologie di attività condotte all’interno dei CFO, con particolare attenzione al
fenomeno dell’offshore banking.
Il rischio dello sfruttamento dei centri offshore per finalità illecite viene affrontato nel
terzo capitolo, nel quale oltre ad analizzare i meccanismi e le strutture che consentono
questo fenomeno, viene approfondito il riciclaggio di denaro sporco, se ne fornisce una
stima, visto che per sua natura non può essere quantificato esattamente, e una sintesi
degli strumenti normativi ed istituzionali creati proprio per cercare di mettere sotto
controllo il fenomeno.
Nel quarto e conclusivo capitolo, infine, si passa all’analisi dei due crolli societari più
clamorosi degli ultimi anni, che hanno coinvolto l’azienda americana Enron e l’italiana
Parmalat, e delle complesse reti di società offshore create da entrambe le imprese che
sono emerse e stanno emergendo, dalle indagini.
6
Capitolo 1
Paradisi Fiscali e regimi fiscali privilegiati
1. Premessa
L’aumento delle transazioni internazionali e la naturale scelta degli operatori di
collocare capitali ed attività in Paesi i cui ordinamenti giuridici ed economici
garantiscono un livello di reddito più elevato, maggiore sicurezza, segretezza e
comodità, hanno favorito i fenomeni dell’evasione e dell’elusione fiscale internazionale.
Tali fenomeni presentano notevoli complicazioni, dovute alla diversa fiscalità esistente
nei vari Paesi e alla difficile individuazione della base imponibile nelle operazioni
internazionali [Lovisolo, 1985].
In linea del tutto generale, le possibilità di elusione ed evasione internazionale sono
maggiori nell’ambito di operazioni che riguardano:
a) trasferimento del contribuente;
b) trasferimento della materia imponibile.
Tali operazioni sono spesso realizzate con tecniche molto raffinate (transfer pricing,
prestiti tra le società dello stesso gruppo, costituzione di società intermediarie, holding
finanziarie ecc.), spesso individuabili solo indirettamente perché collegate con i
cosiddetti paradisi fiscali.
Il fenomeno della costituzione di società estere in Paesi a fiscalità privilegiata, da
parte di soggetti residenti in Paesi ad alta fiscalità, al fine di ridurre il proprio carico
fiscale, è diventato molto diffuso negli ultimi anni e costituisce un problema molto serio
per la maggior parte dei Paesi industrializzati. Alla base del problema vi sono i tre
diversi principi impositivi su cui si fonda il sistema di tassazione dei vari Paesi.
7
Tali principi sono:
a) il principio della territorialità o della fonte (c.d. source-based principle); secondo
cui, uno Stato può avanzare la pretesa tributaria per tutti i redditi prodotti nel suo
territorio, indipendentemente da chi li produce. Paesi come Hong Kong, Kenya,
Uruguay, Zambia, Brasile tassano i redditi prodotti nel proprio territorio da società
residenti, ma non tassano i redditi che le stesse società producono all’estero;
b) il principio della residenza (c.d di worldwide taxation); secondo cui i redditi
percepiti da soggetti residenti sono sottoposti a imposizione domestica, a
prescindere dal Paese in cui hanno origine. La maggior parte degli Stati europei,
compresa l’Italia, adotta tale principio dando, quindi, molta rilevanza al concetto di
residenza fiscale;
c) il principio della cittadinanza. Secondo il quale l’imposizione si rivolge a tutti i
soggetti considerati cittadini. Le nazioni che lo adottano, assieme ai due principi su
esposti, sono solo due: gli Stati Uniti e le Filippine.
Ogni Stato è libero di applicare il principio che ritiene più idoneo, a prescindere da
ciò che fanno gli altri.
Quindi, nell’ambito della tassazione internazionale, il contribuente, in base alla sua
libertà personale ed economica, sceglierà di collocare la sua ricchezza nei luoghi che gli
assicurano un risparmio fiscale. Ad esempio, nei Paesi in cui vige il principio della
residenza, i soggetti residenti ottengono una considerevole riduzione del proprio carico
tributario, servendosi di una società estera localizzata in Paesi a bassa fiscalità, mentre
nei Paesi in cui vige il principio della territorialità, notevole importanza assume il luogo
in cui è collocata l’attività produttiva.
In generale, ogni Stato coordina i principi su esposti differenziando tra tassazione dei
residenti e tassazione dei non residenti. Ad esempio, in Italia si tassano i residenti
secondo il principio di worldwide taxation e i non residenti secondo il principio della
territorialità [Gallisay, 1995].
8
Proprio a partire dai diversi principi e dal livello di tassazione adottati, è nata una
concorrenza fiscale tra Stati volta ad attrarre capitali, persone e ricchezza. Accanto alla
possibilità di sfruttare le differenze dei sistemi impositivi, sorge il problema della
doppia imposizione internazionale, nei casi in cui il contribuente è chiamato a pagare
due volte un tributo su uno stesso reddito in due stati diversi. Tale problema nasce
quando i sistemi tributari coinvolti applicano sia il principio della territorialità che
quello della residenza, e può essere parzialmente risolto con i “trattati sulle doppie
imposizioni” o con normative interne, che riconoscano le imposte corrisposte ad uno
Stato estero.
La fiscalità internazionale, dunque, influenza inevitabilmente le scelte economiche
dei vari operatori ed il principio della “neutralità fiscale internazionale”, secondo il
quale l’attività economica non dovrebbe essere influenzata dalla diversa tassazione
adottata dai vari Paesi, rimane tuttora un’utopia nel contesto mondiale, mentre potrebbe
essere nel prossimo futuro uno degli obiettivi da raggiungere in ambito europeo.
9
2. Obbligo tributario: che fare?
Di fronte all’adempimento dell’obbligo tributario, è insita nella natura dell’operatore
economico la tendenza a sottrarsi, o quanto meno a limitare gli effetti economici
connessi. Tali comportamenti hanno un fine comune, che è quello di annullare o ridurre
l’entità dell’onere fiscale, ma le tecniche adottare per perseguirlo sono diverse e
possono essere distinte in attive e passive [Contrino, 1996].
Sono passivi quei comportamenti finalizzati ad una sottrazione del contribuente al
carico fiscale, evitando il sorgere del presupposto d’imposta (rimozione ed elusione),
oppure creando base imponibile ma impedendone, totalmente o parzialmente, la
percezione da parte del fisco (evasione). Sono attivi, invece, quei comportamenti del
contribuente volti a trasferire l’onere fiscale su altri soggetti (traslazione d’imposta)
.
Nei successivi sottotitoli si cercherà di definire i confini esistenti tra le figure
dell’evasione, dell’elusione e del lecito risparmio d’imposta.
1
2.1 Lecito risparmio d’imposta
I contribuenti non sempre ricorrono a sistemi palesemente illegali (evasione, frode,
insolvenza) per ridurre il proprio obbligo d’imposta, spesso cercano di sottrarsi alle
norme tributarie attraverso comportamenti che possono essere classificati come elusivi
o come lecito risparmio d’imposta. In questo ambito si possono distinguere due
fattispecie:
a) la rimozione del presupposto del tributo, che comporta un atteggiamento passivo di
restrizione volontaria della sfera d’azione del soggetto il quale, per evitare il sorgere
dell’obbligo tributario, cessa o rinuncia ad un’attività economica fiscalmente
rilevante oppure rinuncia al consumo dei beni oggetto d’imposta;
1
Sulla difficoltà di fornire una definizione formale di tali concetti TABELLINI, L’elusione fiscale,
Milano 1987 “Vero è che in relazione alla materia in esame il linguaggio, anche tecnico, ha utilizzato
una notevole quantità di espressioni, in vista di un miglior risultato descrittivo del fenomeno; come è
vero che l’impiego di termini ed espressioni in lingue diverse dalla nostra ne ha sfavorito la
comprensione, non essendo sempre facile trarre termini italiani che riflettano il significato originario di
quelli stranieri senza l’ausilio di perifrasi dispersive”.
10
b) l’economia di scelta, che si concretizza nella scelta del contribuente dell’alternativa
fiscalmente più conveniente a sua disposizione
2
.
In entrambi i casi si tratta di un comportamento pienamente lecito. Occorre, tuttavia
tenere ben distinte, almeno teoricamente, la figura del lecito risparmio d’imposta da
quella dell’elusione.
L’elusione richiede, infatti, un aggiramento malizioso della
fattispecie, fenomeno ben diverso dalla scelta della via meno onerosa tra le due
alternative previste dalla legge [Contrino, 1996].
2.2 Evasione e frode
Il termine evasione fiscale (Tax Evasion) definisce “qualsiasi fatto commissivo od
omissivo del soggetto passivo dell’imposizione che, avendo posto in essere il
presupposto del tributo, si sottrae, in tutto o in parte, agli obblighi previsti dalla
legge”[Lovisolo, 1985].
L’evasione consiste nel mancato pagamento, parziale o totale, dei tributi dovuti dal
soggetto passivo d’imposta al soggetto attivo (lo Stato). Si tratta, quindi, di un
fenomeno di resistenza all’obbligo tributario che si realizza tramite un comportamento
illecito, disonesto e arbitrario da parte del soggetto passivo, che si attua, sia tramite
l’affermazione di fatti falsi (costi non sostenuti ma dichiarati) o l’occultamento di fatti
veri (compensi incassati e non dichiarati), che mediante un’errata applicazione delle
norme tributarie, in buona o mala fede
3
. Le cause dell’evasione possono essere di
diverso tipo: economiche, psicologiche, politiche, tecniche, giuridiche, accidentali.
Mentre le sue conseguenze sono sostanzialmente due:
a) la creazione di un’apparenza illecita, da cui derivano la riduzione e l’inesistenza del
debito d’imposta;
b) l’impossibilità, per gli organi amministrativi, di compiere un’esatta valutazione
dell’imponibilità.
2
Sull’economia di scelta LUPPI, Elusione fiscale: modifiche, normative e prime sviste interpretative, in
Rass.Trib. 1995 “Finché il sistema contiene due strade maestre, il contribuente che sceglie quella
fiscalmente meno onerosa non elude l’altra”.
3
Gli strumenti tipici dell’evasione sono, infatti, l’impiego di irregolarità ed artifici contabili e l’omissione
delle dichiarazioni obbligatorie per le imposte sul reddito e sul valore aggiunto.
11
L’evasione tributaria è contrastata dall’ordinamento coinvolto in diversi modi,
secondo la gravità della violazione di legge e l’entità del mancato pagamento del
tributo, sia con strumenti volti al recupero del tributo ma anche con sanzioni di carattere
amministrativo e, per i casi più gravi, con sanzioni penali.
Non tutti gli illeciti tributari sanzionati dalla legge rientrano nell’ambito
dell’evasione. La frode fiscale
comprende tutti quei comportamenti illeciti in cui
l’evasione delle imposte è preceduta da falsificazione o altri artifizi, volti a renderne più
difficile l’accertamento [Buonacore, 1993]. L’evasione e la frode sono, dunque,
comportamenti da condannare, non solo perché implicano una violazione della legge,
ma perché, riducendo i benefici della redistribuzione della ricchezza, determinano un
danno per la collettività.
2.3 Elusione
L’elusione fiscale (Tax Avoidance) consiste “nell’insieme delle tecniche e dei
comportamenti messi in atto dal soggetto passivo d’imposta, il quale impedisce, in tutto
o in parte, il sorgere della fattispecie legale imponibile, mediante l’uso accorto degli
istituti giuridici a sua disposizione, con il risultato di far ricadere la capacità
contributiva sotto una configurazione diversa dalla propria, al fine di ridurre o annullare
l’onere tributario”[Contrino, 1996]. L’elusione è, in sostanza, un fenomeno che consiste
nel mettere in scacco una norma tributaria con astuzia, allo scopo di ridurre il proprio
onere fiscale, senza che questo determini alcuna esplicita violazione di legge [Luppi,
1994]. Ogni individuo, in quanto operatore economico razionale, indirizza la propria
attività attraverso delle scelte volte a massimizzare i guadagni e minimizzare i costi.
Poiché l’obbligo tributario s’inserisce tra i costi, è logico che il contribuente persegua il
minor sacrificio e il maggior risparmio d’imposta. Alla base dell’elusione, quindi, si
trova l’esistenza stessa delle imposte che sottraggono ricchezza al contribuente,
determinando una riduzione del suo benessere individuale
4
.
4
Se, infatti, in un’ottica aggregata, tali pagamenti sono il corrispettivo dei servizi offerti dallo Stato, da un
punto di vista microeconomico non vi è l’acquisto da parte del contribuente di alcuna utilità immediata;
ne risulta quindi l’assenza di incentivi al pagamento delle imposte.
12
3. Competizione fiscale dannosa
La crescente apertura e competitività che ha caratterizzato il sistema economico e
finanziario negli ultimi decenni, ha avuto molte conseguenze positive sui sistemi fiscali,
tra le quali la riduzione delle aliquote d’imposta e l’ampliamento delle basi imponibili,
oltre ad un maggiore livello di efficienza nei programmi di spesa dei governi.
In parte, questi sviluppi possono essere visti come il risultato delle forze competitive
che hanno indotto i Paesi a rendere il proprio sistema tributario sempre più attraente per
gli investitori.
Tuttavia alcune imposte e le relative pratiche fiscali sono dannose e possono
annullare i guadagni generati dalla competizione fiscale. Ciò può accadere quando i
governi introducono delle pratiche che spingono i contribuenti a non adeguarsi alle
normative fiscali del proprio Paese.
Molti Stati hanno messo in atto delle misure volte a prevenire l’erosione della base
imponibile che, però, spesso aumentano la complessità del sistema fiscale ed
impongono alti costi a carico dell’Amministrazione ma soprattutto dei contribuenti, che
finiscono per perdere fiducia nell’integrità e nell’equità del sistema fiscale e del
governo in generale. Le pratiche fiscali dannose, inoltre, distorcono i flussi di risorse
finanziarie e, indirettamente, di investimenti reali e privano ciascun Paese della facoltà
di decidere dell’allocazione del carico fiscale tra basi imponibili mobili o meno mobili,
come lavoro, proprietà o consumi.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
(OCSE) da anni ha
una sezione che si occupa e monitorizza l’evoluzione del fenomeno; in particolar modo
è dal rapporto del 1998 “Harmful tax competition: An emerging global issue” che i
governi dei Paesi della comunità internazionale traggono spunto e impulso, per
contrastare il problema delle pratiche fiscali dannose attraverso i propri ordinamenti
interni. Questo documento considera i casi in cui il gettito fiscale di un’imposta sul
reddito di attività mobili in un Paese, è inferiore dal gettito di un’imposta sullo stesso
reddito in un altro Paese e li distingue in tre categorie:
13
1) il primo Paese è un paradiso fiscale e come tale, non impone tasse o, al limite, ne
prevede solo una nominale su quel reddito, e rappresenta un luogo che può essere
usato dai non residenti per sfuggire alle imposte nei propri Paesi di residenza;
2) il primo Paese ottiene entrate significative dalle imposte su redditi individuali o
d’impresa, ma il suo sistema fiscale ha degli elementi preferenziali che permettono
di sottoporre il reddito considerato ad un basso livello di tassazione o ad una
tassazione nulla;
3) il primo Paese ottiene introiti significativi dall’imposta sul reddito delle persone
fisiche e delle società, ma l’aliquota effettiva che è applicabile al suo interno è
inferiore a quella applicabile nel secondo Paese.
Il Rapporto distingue tra le giurisdizioni che appartengono alla prima categoria, che
definisce paradisi fiscali, e le giurisdizioni della seconda categoria, che sono considerate
Paesi con regimi fiscali potenzialmente dannosi.
3.1 Regimi fiscali dannosi
Molti Paesi, sia membri che non membri dell’Unione Europea, stanno predisponendo
i loro regolamenti interni per diventare fiscalmente competitivi a livello internazionale,
in modo da attrarre flussi di capitali finanziari all’interno della propria giurisdizione. In
molti casi, il loro sistema è disegnato espressamente come un condotto che favorisce il
passaggio di flussi di capitali al proprio interno. Le agevolazioni possono essere
individuate sia nella legislazione fiscale del Paese che nello svolgimento abituale delle
pratiche amministrative.
Secondo il Rapporto OCSE “Harmful tax competition an emerging global issue”, i
regimi fiscali dannosi sono quelli disegnati appositamente per attrarre quelle attività
economiche (generalmente flussi finanziari) che possono essere facilmente spostate in
risposta ai differenziali fiscali. L’esistenza di questi regimi, può favorire la riallocazione
di attività per le quali ci sono una domanda o un’offerta basse, o nulle, nel mercato
interno del Paese ospitante. L’OCSE individua cinque fattori chiave nell’identificazione
dei regimi fiscali dannosi, che vengono riassunti nel riquadro 1.
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Riquadro 1.
ELEMENTI CHIAVE PER INDIVIDUARE UN REGIME FISCALE DANNOSO
secondo il rapporto OCSE del 1998
Harmful tax competition: An emerging global issue
a) Imposizione fiscale sui redditi bassa o prossima allo zero.
E’ il punto di partenza per definire dannoso un regime fiscale preferenziale. L’imposta
effettiva può essere bassa o nulla perché l’aliquota media è, di per sé, bassa o per il
metodo di determinazione della base imponibile a cui l’aliquota è applicata.
b) Il sistema è “ring fenced”.
Quando in un Paese, la tassazione è molto diversa tra redditi generati all’interno o
all’esterno, si parla di ‘ring fencing’. Tali legislazioni non fanno altro che causare
l’erosione delle basi imponibili di altre nazioni. Il ring fencing può assumere diverse
forme:
1) sistemi che restringono i benefici ai non residenti. Sono sistemi che escludono le
imprese residenti dai propri sistemi di tassazione agevolata. L’impatto economico della
loro riduzione fiscale pesa esclusivamente sugli altri Paesi;
2) sistemi che proibiscono agli investitori, che beneficiano del regime fiscale agevolato, di
operare nel mercato domestico. Questa caratteristica ha la funzione di isolare l’economia
domestica dagli effetti negativi del sistema.
c) Assenza di trasparenza
La mancanza di trasparenza nelle transazioni effettuate all’interno di una giurisdizione,
può rendere difficile per lo stesso Paese l’attuazione di misure difensive contro gli abusi.
Per essere definito trasparente, un regime deve soddisfare due condizioni: prevedere una
normativa fiscale chiara e definita che permetta il ricorso all’autorità giudiziaria in caso di
mancanze o abusi; e tutti i dettagli concernenti tali norme devono essere immediatamente
disponibili a tutte le giurisdizioni dei Paesi che ne facciano richiesta.
d) Assenza di un effettivo scambio di informazioni.
La capacità di un Paese di fornire informazioni agli altri è un fattore chiave per capire se il
suo sistema fiscale causa effetti dannosi agli altri Stati.
15
3.2 I Paradisi Fiscali
L’espressione paradiso fiscale deriva dalla traduzione letterale dall’inglese di tax
heaven, anche se in realtà, gli americani che per primi si sono occupati dei paradisi
fiscali in maniera sistematica, parlavano inizialmente di “tax haven”, vale a dire di
“rifugio fiscale”, mentre sono stati i francesi ad introdurre il più seducente termine
paradis fiscaux [Bartimmo,1992].
Tutte le espressioni, in ogni caso, si riferiscono a Stati o territori che, data la moderata
pressione fiscale interna, rappresentano un “riparo” per redditi prodotti altrove. Questi
Stati o territori offrono agli investitori esteri un ambiente con un livello di tassazione
nullo, o solo nominale, a cui solitamente si accompagnano scarsi obblighi
amministrativi e regolamentari; inoltre, spesso, le attività che hanno luogo al loro
interno, non sono soggette allo scambio di informazioni a causa, per esempio, di rigide
disposizioni sul segreto bancario.
Pare utile, a questo punto, fare un piccolo accenno alla genesi storica dei paradisi
fiscali, o almeno di quelli più tradizionali. I paradisi fiscali appartenenti all’area
caraibica (Bahamas, Bermuda, Barbados, Cayman Islands ecc) sono piccole isole o
arcipelaghi, di solito ex colonie dell’Impero britannico, che alla fine del XVIII secolo si
opposero alla Corona inglese che voleva imporre loro nuovi prelievi fiscali. Alla
rivoluzione delle colonie che rivendicavano i loro diritti, seguì la perdita di tali territori
da parte dell’Impero britannico e l’affermarsi del principio dell’autodeterminazione in
campo fiscale.
Così, i piccoli Paesi, industrialmente poveri, svilupparono una legislazione volta ad
attirare i ricchi stranieri in cerca di “rifugi” dalle imposte troppo elevate dei Paesi di
residenza. In altri casi, la nascita del paradiso fiscale si ricollega alla seconda guerra
mondiale, quando i movimenti di capitale non erano guidati da ragioni economiche, ma
politiche. Chi poteva disporre di un qualche patrimonio, cercava un luogo politicamente
e finanziariamente stabile.