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attraverso “nuovi strumenti pragmatici per lo sviluppo di una scienza della coscienza” (Varela,
1997). Quest’ordine di studi è di grande interesse anche per coloro i quali si
occupino dello sviluppo infantile, normale o patologico: si tratta infatti di esaminare
accuratamente cosa c’è “sotto” l’aspetto fenomenico dell’apprendimento, ovvero il
processo di costruzione delle conoscenze.
Da un lato quindi, l’interesse è rivolto verso il processo di apprendimento del
bambino; dall’altro, risulta ormai chiara la necessità, anche per coloro i quali si
occupino di riabilitazione, di analizzare le modalità con cui, mentre conosce, il
bambino acquisisce la consapevolezza della conoscenza medesima: è di questo che
parliamo quando ci riferiamo all’apprendimento cosciente.
Convenzionalmente, per moltissimi anni e probabilmente anche a causa delle
oggettive difficoltà d’indagine, non è stata attribuita al bambino una qualche forma
di coscienza, almeno fino all’età dell’emergere delle prime manifestazioni
linguistiche e della consapevolezza autoriflessiva. Si è cioè pensato che l’emergere
della coscienza, intesa come consapevolezza dell’identità del sé e come percezione
di un’esperienza soggettiva, fosse un evento da collocarsi “da qualche parte” sulla
linea dello sviluppo del bambino, come un avvenimento subitaneo piuttosto che
come un processo.
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Si potrebbe pensare che il bambino, trovandosi ad un momento in possesso
di una serie di requisiti, in una determinata fase del suo sviluppo, “si accorga” di
essere un organismo cosciente. In realtà, non si tratta di una estemporanea
intuizione, poiché aspetti soggettivi dell’esperienza sono presenti nel bambino sin
dalle primissime fasi di sviluppo, di modo che la coscienza venga a costruirsi e ad
organizzarsi progressivamente lungo tutto l’arco di maturazione del bambino in un
processo in cui le vecchie acquisizioni non vengono sostituite dalle successive,
bensì ne forniscono la struttura per l’organizzazione. Per ogni livello di sviluppo
esiste dunque un livello di coscienza.
Daniel N. Stern propone come punto di partenza per fondare inferenze
sull’esperienza soggettiva del bambino il senso del Sé, ipotizzando che alcune forme
di esso esistano già in epoca preverbale, fra cui il senso di essere soggetti agenti, il
senso di coesione fisica, di continuità temporale, di avere un’intenzione.
I sensi del Sé costruiscono dunque le fondamenta dell’esperienza soggettiva
dello sviluppo sociale del bambino. In questo processo di costruzione della
coscienza, l’interazione del bambino con l’adulto è di fondamentale importanza, in
un’interrelazione in cui i membri della diade si modificano vicendevolmente in un
gioco di cambiamenti organizzativi da parte del bambino e di attribuzioni di
significato da parte dell’adulto rispetto ai comportamenti infantili.
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L’adulto opererebbe quindi all’interno dell’area di sviluppo prossimale (Vygotskij,
1975), favorendo lo sviluppo del bambino attraverso interpretazioni nuove delle
sue condotte: questo porterebbe l’adulto ad agire con il bambino in modo diverso,
in un ambito appropriato a capacità che non sono ancora presenti, ma che
emergeranno molto presto. Lo sviluppo del bambino non è dunque un processo
individuale, ma sociale e culturale, che si verifica attraverso forme di
intersoggettività che il bambino è in grado di mettere in atto fin da piccolissimo.
Avanzare delle ipotesi sulla soggettività del bambino significa inoltre
chiamarne in causa i correlati emotivi, legati a esperienze di tipo propriocettivo,
visivo, uditivo, tattile; significa inoltre porre l’accento su alcuni aspetti delle
relazioni intersoggettive che il bambino crea con l’adulto, riguardanti la
condivisione dello sguardo, dell’attenzione selettiva, degli stati affettivi, delle
intenzioni. Bruner mette in evidenza l’importanza della condivisione di alcuni stati
nell’interrelazione tra bambino e adulto, al fine di costruire una prospettiva
intersoggettiva che permetta al bambino stesso di costruire la sua coscienza.
In questo senso l’approccio interazionista di Bruner funge da supporto per
questo studio, che si propone di andare ad indagare il processo di organizzazione
del sé nel bambino prelinguistico, analizzando in un’ottica riabilitativa gli elementi
significativi che suggeriscano il delinearsi di un processo di emergenza della
coscienza, all’interno di situazioni, comunicative nel bambino sano e terapeutiche
nel bambino patologico.
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Verranno analizzati filmati effettuati su tre bambini sani, nel tentativo di
osservare quegli aspetti che, nell’interazione, possono essere considerati prerequisiti
sui quali si andranno a costruire i livelli di coscienza, attraverso un’analisi
comportamentale che porti a considerazioni riabilitative.
Saranno poi presi in esame due bambini affetti da paralisi cerebrale infantile:
l’ipotesi di lavoro è quella di analizzare, all’interno della situazione terapeutica di
tipo interattivo, quegli elementi relativi alla costruzione di una conoscenza
consapevole che appaiono lacunosi e quindi proporre delle modificazioni da
apportare alla modalità dell’esercizio terapeutico, al fine di condurre i bambini a una
nuova coscienza della conoscenza.
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CAPITOLO 1
L’Esercizio Terapeutico Conoscitivo
nel trattamento dell’età evolutiva
Le metodiche neuromotorie tradizionali propongono al bambino un
percorso riabilitativo in cui il movimento, il linguaggio e l’aspetto cognitivo
viaggiano su piani distinti e paralleli. L’approccio conoscitivo considera invece il
bambino come un sistema complesso (e non incompleto), - intendendo come sistema
un “insieme strutturato di relazioni che regolano l’interazione tra i diversi elementi” (Perfetti,
Puccini, 1987)- in cui le proprietà emergono dalle relazioni che vengono instaurate
tra i diversi elementi che lo compongono, ed in cui i legami delle componenti del
sistema sono regolati dalle necessità di adattamento dell’organismo nella sua
totalità.
Il processo di sviluppo del sistema bambino può essere definito dunque
come “capacità di organizzare insiemi coordinati, tesi al raggiungimento di interazioni sempre
più dinamiche, secondo scopi sempre più ampi e diversificati” (Puccini, 1987).
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Assumiamo qui la definizione di scopo adottata da Castelfranchi:
““Scopo” è un meccanismo che regola l’azione e che fa sì che essa non sia
casuale, ma sia teleologica, cioè che tenda a realizzare un risultato nel
mondo” (Castelfranchi, 1980)
Sempre citando Castelfranchi, è necessario dunque che terapista e bambino
si pongano in una posizione di adozione cooperativa di scopi, alla cui base vi sia uno
scopo uguale (scopo comune) tra i due membri della diade.
La visione riabilitativa che vede il processo di recupero come organizzazione
dell’esperienza post lesionale, al fine di acquisire sequenze adattabili alle diverse
situazioni, propone di considerare il movimento secondo un’ottica definita
pragmatica: ci riferiamo all’organizzazione di una sequenza da parte di un’utente in
una determinata situazione per certi scopi (Puccini, 1987). Di conseguenza, è
possibile “attribuire valore ad elementi ritenuti fin’ora soggettivi e quindi considerati poco
importanti, talora di disturbo, nella pratica riabilitativa, quali l’intenzione, l’attenzione, la
memoria, la spazialità” (Puccini, 1987).
Il movimento non può dunque assumere valore come somma di parti
(muscolo, articolazione, riflesso ecc.), ma come insieme di elementi utili
all’interazione con la realtà (Puccini, 1987); per questo deve essere studiato sotto
tutti gli aspetti se si vuole averne una visione completa in tutta la sua complessità,
andando ad indagare sugli aspetti intenzionali e finalizzati al raggiungimento di un
risultato (Puccini, 1987).
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Per il riabilitatore diviene dunque di fondamentale importanza l’analisi delle
relazioni tra il movimento- fenomeno e il movimento- azione: in tal senso massima
rilevanza deve essere data all’interazione con l’oggetto, sotto forma di sussidio,
nell’esperienza terapeutica post lesionale (Puccini, 1987).
Il sistema nervoso dell’uomo organizza delle sequenze motorie con
l’obiettivo di stabilire un rapporto con l’oggetto, da cui trae informazioni che vanno
ad arricchire ulteriormente il sistema: in altre parole, il movimento non è altro che
l’emergenza derivante dalla necessità biologica di esplorare l’ambiente, ed è
finalizzato alla creazione di relazioni intenzionali con il mondo. Da queste relazioni,
il sistema viene modificato; in base a queste modifiche, esso cambia il suo modo di
relazionarsi con il mondo.
L’Esercizio Terapeutico Conoscitivo si propone di recuperare quei processi
che il bambino non è in grado di mettere in atto al fine di produrre comportamenti
che abbiano le caratteristiche di variabilità e adattabilità. Si tratta di andare ad
operare qualitativamente sui comportamenti del bambino sfruttando la capacità del
bambino stesso di risolvere problemi attraverso l’utilizzo dei processi cognitivi. La
teoria cognitiva, infatti, sostiene che il recupero, sia spontaneo che guidato, dipenda
dai processi cognitivi attivati e dalle modalità della loro attivazione: diviene quindi
fondamentale l’analisi, all’interno dell’esercizio, di come il bambino percepisce, di
come usa l’immagine, di come utilizza l’attenzione, la memoria, il proprio
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linguaggio e quello del terapista, poiché tali processi determinano la qualità del
recupero.
A partire da tali presupposti, risulta chiaramente ingiustificabile il tentativo di
proporre esercizi che non implichino l’utilizzo, all’interno di compiti specifici, dei
processi cognitivi necessari per la risoluzione del problema, così come invece è
stato proposto dalle metodiche neuromotorie, che hanno richiesto al bambino atti
di tipo essenzialmente locutivo. Non è possibile sostenere dunque che l’esecuzione
di un certo movimento derivi automaticamente dall’aver recuperato la capacità di
contrarre i muscoli che vi partecipano poiché non è giustificabile trascurare tutte
quelle tappe intermedie che portano all’esecuzione di quel movimento, e che sono
imprescindibilmente legate al contesto (o situazione) in cui avviene l’azione, inteso
come “insieme dei presupposti che permettono la produzione e la decodificazione
della sequenza” (Dressler, 1984, cit. da Puccini 1987).
Un altro aspetto, che nelle metodiche neuromotorie viene trascurato, è
relativo all’uso del linguaggio: il suo ruolo è, nell’Esercizio Terapeutico Conoscitivo,
quello di indirizzare l’attenzione verso gli aspetti rilevanti del compito; di
promuovere nuove conoscenze e analisi delle informazioni e di guidare i processi
cognitivi regolando così l’elaborazione del progetto motorio. Ecco dunque che il
linguaggio, sia del terapista che del bambino assume rilevanza sia come modalità di
presentazione della richiesta da parte del terapista, sia come strumento di
autoistruzione per il bambino attraverso l’utilizzo del linguaggio interno.
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Il sistema funzionale visivo, quello della deambulazione, quello della
manipolazione, sono aspetti di una struttura complessa in via di sviluppo quale è il
bambino, che veicola l’apprendimento attraverso sistemi di segni all’interno
dell’interazione con l’ adulto (Bruner, 1975; Anolli, Berteretti, 1987; Anolli, 1998)
Anche prima della comparsa del linguaggio infatti, avvengono scambi
comunicativi a diversi livelli e diverse complessità, tra l’adulto e il bambino. Già
dalla nascita, quest’ultimo si dimostra come un essere sociale altamente organizzato,
essendo in grado di mettere in atto gli embrioni di quelle capacità conoscitive che,
con la maturazione, utilizzerà poi autonomamente: all’interno dell’interazione,
entrano in gioco modalità dal potente significato comunicativo, come la relazione
faccia a faccia, lo scambio di sguardi, l’imitazione dei suoni e del volto. Nello
scambio con l’adulto, il bambino dimostra quindi di essere in grado di utilizzare, già
da piccolissimo, quei comportamenti adattativi che costruiranno nel tempo il suo
divenire sociale (Bruner, 1975). Afferma M.S.Veggetti, riferendosi a Vygotskij:
“Lo sviluppo delle forme superiori del pensiero e quello dei processi cognitivi
superiori è dunque indissociabile…dal contesto di relazioni sociali che il bambino
ha come supporto fin dall’età più precoce…” (Veggetti, 1998)
È evidente come l’interazione si dimostri dunque una componente
fondamentale per lo sviluppo del bambino: è attraverso l’interazione, e all’interno
dell’esercizio, che il riabilitatore può e deve costruire quindi le conoscenze del
bambino lavorando nell’area di sviluppo prossimale, all’interno della quale sono
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celati i potenziali di sviluppo di quel dato sistema- bambino. Lev S. Vygotsky
definisce infatti l’area di sviluppo prossimale come
“la distanza tra il livello di sviluppo attuale così come si può determinarlo
attraverso il modo in cui il bambino risolve i problemi da solo e il livello di sviluppo
potenziale che si può determinare dal modo in cui risolve i problemi quando è
assistito dall’adulto o collabora con altri bambini più maturi” (Vygotskij,1975).
È quindi questa discrepanza tra il livello di organizzazione attuale del
bambino e quello che riusciamo, come riabilitatori, a promuovere attraverso
un’interazione programmata in cui gli scopi vengano condivisi tra terapista e
bambino, che ci permette di operare nell’ambito di capacità che di per sé non sono
ancora presenti, ma che possono emergere mediante un intervento finalizzato alla
messa in atto di comportamenti più evoluti.
M.S. Veggetti, riferendosi sempre a Vygotskij, afferma che “L’apprendimento
costituisce una forma generale dello sviluppo stesso (Veggetti, 1998)”: l’Esercizio
Terapeutico Conoscitivo vede la riabilitazione come apprendimento in età
evolutiva, presupponendo che
“l’organizzazione del comportamento derivi dall’interazione dei processi
maturativi con l’esperienza, e che questa, in caso di eventi lesionali, debba
sostituirsi, per lo meno in parte, ai processi maturativi alterati” (Puccini,
1985)