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Il rapporto diretto con una persona che richiede aiuto, e può essere portatrice di
ansia o disperazione, suscita forti dinamiche emotive nell’operatore che deve essere in
grado di mantenere il giusto livello di coinvolgimento con l’utente.
Queste premesse possono portare alla perdita dell’equilibrio emotivo e al ricorso a
strategie difensive di distacco dagli utenti che sono distintive del burnout.
Il burnout può, quindi, essere descritto in generale come un tipo di risposta allo
stress che conduce ad una sensazione di esaurimento e si manifesta con atteggiamenti di
nervosismo, apatia e indifferenza nei confronti del proprio lavoro.
Le possibili manifestazioni del burnout sono state elencate in modo dettagliato da
Cherniss (1980b) e possono essere divise in quattro gruppi:
1) Sintomi fisici: fatica e senso di stanchezza, frequenti mal di testa e disturbi
gastrointestinali, raffreddori e influenze, cambiamenti delle abitudini alimentari,
insonnia e uso di farmaci.
2) Sintomi psicologici quali senso di colpa, negativismo, sensazioni di fallimento
ed immobilismo, alterazioni dell’umore, irritabilità, scarsa fiducia in sé, scarse empatia
e capacità d’ascolto.
3) Reazioni comportamentali come alta resistenza ad andare al lavoro,
assenteismo e ritardi, tendenza ad evitare o rimandare i contatti con gli utenti, ricorso a
procedure standardizzate.
4) Cambiamenti di atteggiamento con gli utenti a cui si dimostra chiusura
difensiva ai contatti, cinismo, perdita di disponibilità all’ascolto, distacco emotivo,
indifferenza, colpevolizzazione; utilizzo di misure del controllo del comportamento
come l’uso di tranquillanti; atteggiamenti sospettosi o paranoidi. Anche con i colleghi si
sviluppano atteggiamenti di evitamento dei contatti e di risentimento.
Questi sintomi si configurano, secondo la definizione di Cherniss (1980b, p.18),
come la “risposta data ad una situazione di lavoro sentita come intollerabile”. Secondo
questo autore il burnout è la reazione ad uno stato di tensione e insoddisfazione che
comincia a svilupparsi quando il soggetto crede che lo stress che sta sperimentando non
possa essere alleviato con una soluzione attiva dei problemi che deve affrontare.
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Il risultato di questa convinzione è il tentativo di fuggire psicologicamente dalla
situazione e di allontanare ulteriori tensioni e disagi attraverso atteggiamenti di distacco
e comportamenti di evitamento. Mentre questa descrizione della sindrome si focalizza
sul cambiamento della motivazione del soggetto, Maslach (1982) definisce il burnout
come una reazione ad un sovraccarico emotivo dovuto alle richieste del lavoro e
caratterizzata dal distacco dagli utenti. Pur esistendo definizioni diverse della sindrome
del burnout gli autori concordano nel considerarlo non un evento, ma un processo che si
sviluppa diversamente a seconda delle caratteristiche soggettive e del contesto sociale.
La sindrome del burnout, che all’inizio può apparire come semplice stanchezza o
tensione, si sviluppa in modo lento e graduale, ma in assenza di interventi i suoi sintomi
tendono a cronicizzarsi.
Per quanto riguarda l’eziologia del burnout, si può affermare in generale che esso
sorge a partire da una condizione di stress, nelle situazioni in cui si percepisce che le
proprie risorse non sono sufficienti per far fronte alle richieste che provengono sia dal
lavoro sia dai bisogni e valori personali. Nelle professioni di aiuto le richieste lavorative
sono particolarmente intense in quanto all’operatore si chiedono prestazioni e
competenza per farsi carico del benessere dei propri utenti, i quali spesso sono portatori
di aspettative irrealistiche riguardo all’aiuto che possono ricevere. Alle richieste
dell’utente si aggiungono quelle dell’organizzazione che possono essere la vera causa
del burnout, anche se poi i suoi sintomi si riversano sugli utenti. L’operatore, quindi, da
un lato si trova a gestire i bisogni individuali dell’utente e i rapporti con la sua famiglia
e dall’altro si scontra con gli aspetti dell’istituzione dove lavora, trovandosi a confronto
con la limitatezza delle risorse del servizio e con l’esigenza di rispettare tempi,
mansioni, procedure e relazioni con i colleghi.
Nelle persone che lavorano in questi ambiti sono spesso presenti forte motivazione
personale e aspettative elevate verso se stessi e le proprie capacità d’aiuto, legate alla
sensazione che il proprio miglioramento personale si realizzi attraverso lo stare meglio
degli altri. Considerato che, nelle professioni d’aiuto, le richieste sono molte e le
aspettative elevate, è facile che sorga lo stress dovuto alla discrepanza tra queste
aspettative e gli ideali del soggetto da un lato e la dura realtà del lavoro quotidiano
dall’altro. Nei casi in cui per vari motivi l’operatore non riesce a raggiungere i suoi
obiettivi, proverà sentimenti di frustrazione, senso di incapacità e inefficienza.
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Per affrontare questa situazione il soggetto potrà sviluppare meccanismi di difesa
basati sul distanziamento dagli utenti al fine di conservare le proprie energie
psicologiche per affrontare la situazione. Il diventare cinico e pessimista verso il proprio
lavoro permette all’operatore di proteggersi dalla frustrazione e dalla tensione. La
conseguente perdita della motivazione e dell’affezione al proprio lavoro sembrano
particolarmente importanti nell’ambito delle professioni di aiuto rispetto ad altri tipi di
attività in cui il contatto con gli altri non è così fondamentale.
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1.2 Principali modelli teorici
A seconda dell’orientamento teorico di riferimento e dell’importanza data a diversi
fattori nel causare l’insorgere del burnout, sono stati proposti vari modelli che possono
essere divisi in quattro gruppi.
1) Modelli basati sulla competenza/efficacia
Secondo il modello “competenza/efficacia” proposto da Harrison (1983) il burnout
dipende fondamentalmente dalla percezione della propria capacità di intervenire
sull’ambiente, in situazioni che richiedano aiuto, e dei risultati positivi del proprio
operato sugli utenti. Se l’individuo ritiene di non poter agire in modo efficace, la sua
motivazione decresce fino ad annullarsi e si creano le premesse per lo sviluppo del
burnout. I fattori che secondo Harrison influiscono sul senso di efficacia, e di
conseguenza sul burnout, sono sia interni sia esterni. Per i primi rivestono particolare
importanza le aspettative del soggetto, la sua percezione di competenza, di potere e di
controllo; per i secondi sono determinanti gli aspetti organizzativi, come l’adeguatezza
delle risorse e la divisione dei ruoli, la presenza di feedback sui risultati e i problemi
degli utenti. Questi aspetti possono contribuire in senso positivo alla sensazione di
competenza e quindi essere considerati “fattori d’aiuto” oppure opporsi a questa
sensazione e rappresentare “barriere all’aiuto”. Il burnout appare quindi dipendere
fondamentalmente dalle aspettative del soggetto e dall’esperienza che sta attualmente
vivendo. Questo modello si rivela particolarmente utile per spiegare il sorgere del
burnout in quegli individui che si pongono obiettivi ed aspettative particolarmente
elevati perché date queste premesse è più difficile sentirsi realmente efficaci
nell’intervento. Secondo questo modello il senso di competenza si sviluppa solo se
l’operatore è in grado di collegare i risultati ottenuti con gli utenti alle proprie azioni di
aiuto. Un’importanza particolare è quindi rivestita dalle abilità del soggetto a
identificare correttamente i bisogni dell’utente e a cogliere i feedback sugli sforzi
prodotti nel lavoro. Se i soggetti mantengono alta la percezione di competenza,
ritenendo di avere determinato cambiamenti positivi negli utenti con la loro azione, il
pericolo del burnout è allontanato.
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L’importanza del senso di efficacia è evidenziata anche da Heifetz e Bersani (1983)
che partono dalla premessa che tutti gli individui sono intrinsecamente dotati di una
motivazione all’efficacia e in particolare questa è ancora più evidente in coloro che
scelgono una professione d’aiuto. Se questo senso di efficacia si traduce nell’effettiva
capacità dell’operatore di rispondere ai bisogni degli utenti si raggiungono due obiettivi
fondamentali: quello di portare benessere agli utenti e quello di poter crescere
personalmente e realizzarsi nel lavoro. Quando si verifica una rottura ad un punto
qualunque di questo processo può verificarsi il burnout i cui sintomi non dipendono
tanto dalla natura di questa interruzione quanto dalle caratteristiche individuali del
soggetto e in particolare dalle sue abilità di coping.
Per evitare che il processo si interrompa, e possa quindi insorgere il burnout, è
necessaria la presenza di adeguati feedback del processo verso il raggiungimento della
meta prefissata affinché il soggetto possa riconoscere gli aspetti che lo ostacolano e
abbia la flessibilità di modificarli in itinere. Il raggiungimento anche solo di mete
parziali può portare un senso di soddisfazione lavorativa importante per la propria
efficacia e quindi per prevenire l’insorgere del burnout.
2) Modelli psico-sociali
Rientrano in questo gruppo i modelli che definiscono il burnout come un processo
di reazione negativa al lavoro che può svilupparsi nei soggetti che non riescono a
utilizzare strategie positive di coping e di interazione con la propria realtà lavorativa.
Secondo Cherniss (1980a) il burnout è un processo in cui gli atteggiamenti verso il
lavoro e i comportamenti cambiano in modo negativo in risposta allo stress lavorativo.
Il burnout è descritto come una modalità di coping per difendersi da situazioni difficili
che porta l’operatore a sviluppare cambiamenti negativi del proprio atteggiamento fino
al ritiro emotivo e al disinvestimento del lavoro. Questo processo riguarda
principalmente individui molto impegnati e coinvolti nel loro lavoro che arrivano a
utilizzare meccanismi di difesa inappropriati, trasformando una professione scelta come
una “missione” in un semplice mestiere. In quest’ottica il burnout appare determinato da
cause sia organizzative, come la mancanza di risorse materiali, di supporto sociale o di
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formazione per fronteggiare la situazione, sia individuali, come la motivazione e le
capacità personali di affrontare in modo efficace lo stress lavorativo.
A partire da questa descrizione del burnout, Cherniss sviluppa un modello evolutivo
a tre fasi: lo stress, cioè la tensione dovuta al disequilibrio tra le richieste e le risorse, lo
strain, cioè la risposta emotiva a breve termine, caratterizzata da ansia, fatica ed
esaurimento e infine il coping difensivo che consiste nel cambiamento di atteggiamenti e
comportamenti come il distacco dagli utenti e il cinismo verso il proprio lavoro. Già
nella prima fase il soggetto tenta di adattarsi alla situazione e alle richieste del lavoro
utilizzando in modo intenso le sue risorse psicofisiche e questo porta ad un progressivo
esaurimento emotivo che causa demotivazione al lavoro. Le richieste possono essere sia
interne, come i propri obiettivi, valori o bisogni, sia esterne, come in particolare le
esigenze formali del lavoro. Nella seconda fase il tentativo di difendersi dalla situazione
negativa diventa più intenso attraverso i sintomi dell’ansia e dell’irritabilità. Nella terza
fase si arriva al tentativo estremo di preservarsi dallo stress attraverso le reazioni di
cinismo e di distacco emotivo dall’utente. Cherniss sottolinea come il burnout non si
presenti necessariamente in modo permanente o con tutti i suoi sintomi e in molti casi i
cambiamenti di comportamento e atteggiamento sono lievi e temporanei. Inoltre non
sempre la fase di stress lavorativo porta a un intenso strain, né lo strain produce
necessariamente il coping difensivo associato al burnout.
La relazione che si crea nelle professioni d’aiuto richiede un grande e continuo
dispendio di energie psicologiche per creare dei rapporti positivi con l’utente, basati
sull’empatia e la disponibilità anche nei casi in cui il destinatario delle cure presenta
forti resistenze ad essere aiutato o non esprime alcun tipo di gratitudine. Se parte di
questa energia viene impiegata per fronteggiare lo stress non ne resta più a sufficienza
per i rapporti con gli utenti e quindi l’operatore ricorre al distacco psicologico come
soluzione. La riduzione di disponibilità e il distacco dagli utenti servono come difese
psicologiche per l’operatore perché riducono il senso di responsabilità e quindi la
vulnerabilità ai fallimenti con l’utente. Il mantenimento di un relazione distaccata e
meccanica riduce lo stress provocato dall’impossibilità di risolvere il problema
dell’utente, dagli ostacoli posti dall’organizzazione o dagli atteggiamenti irritanti e di
sfruttamento degli utenti.
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Una funzione difensiva è espletata anche dalla perdita dell’idealismo e dall’apatia
che permettono all’operatore di attenuare il senso di colpa e la frustrazione associati al
lavoro. Inoltre il colpevolizzare sia i pazienti sia il sistema aiuta a difendersi dal senso di
colpa proveniente dal ritiro psicologico dal lavoro e dagli utenti e dall’abbandono dei
propri obiettivi.
In questa prospettiva il burnout appare come un processo che si autorinforza poiché
lo scoraggiamento e il ritiro psicologico portano ad un maggior numero di fallimenti
nella relazione di aiuto; questi fallimenti a loro volta portano a frustrazione e ulteriore
scoraggiamento, creando un ciclo che è difficile interrompere. Se entro certi limiti un
certo distacco e realismo riguardanti l’aiuto all’utente sono positivi e utili per
l’operatore, queste modalità di approccio non devono, però, diventare dominanti per
evitare il fallimento delle relazioni d’aiuto.
Il burnout influenza in senso negativo la performance professionale in quanto la
perdita di entusiasmo, idealismo e speranza porta ad una diminuzione dell'efficacia sul
lavoro, ad un maggiore assenteismo e turnover. Le conseguenze negative si riversano
anche sui clienti che ricevono meno attenzione e trattamenti più standardizzati, se non
addirittura misure di controllo sul comportamento. La probabilità di insorgenza del
burnout e la sua gravità dipendono dalla cronicità e gravità dello stress e dalle capacità
del soggetto di controllare la situazione e di modificarla attivamente. Anche se il
burnout può sorgere in qualsiasi momento della carriera lavorativa, Cherniss giudica i
primi anni di lavoro come i più critici per lo sviluppo di questa sindrome. In questi anni,
infatti, si forma nei soggetti il nucleo dei valori e degli atteggiamenti verso il lavoro che
perdureranno durante la carriera. Ma in questi anni l’incontro con i limiti e gli aspetti
realistici della professione portano facilmente ad una diminuzione dell’idealismo con
cui il soggetto si era avvicinato al nuovo lavoro e ad un calo dell’entusiasmo. Spesso i
soggetti diventano più preoccupati delle tecniche e delle procedure perdendo di vista gli
obiettivi e i significati del lavoro. Alcune ricerche hanno dimostrato che mentre gli
studenti di medicina diventavano più cinici nei confronti della vita e meno umanitari
quando entravano nel mondo del lavoro, gli studenti di legge non presentavano gli stessi
cambiamenti (Eron, 1958).
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La validità del modello di Cherniss è stata verificata con differenti ricerche tra cui
quella di Burke (1987) che ha rilevato le direzioni e l’intensità delle correlazioni delle
variabili implicate. Secondo questo modello (vedi Fig. 1) le variabili lavorative hanno
un ruolo molto più importante di quelle individuali nel determinare le fonti di stress che
sono causa del burnout, ed esercitano anche un’influenza diretta sul burnout stesso.
Fig. 1 - Verifica del modello di Cherniss (Burke, 1987)
VARIABILI LAVORATIVE
0.21
FONTI DI STRESS BURNOUT
0.70
0.56
VARIABILI PERSONALI
-0.16
Il secondo modello di tipo psico-sociale è quello di Maslach che definisce il
burnout come una “forma di stress interpersonale che comporta il distacco dagli utenti”
causato dalla continua tensione emotiva del contatto con persone che portano una
richiesta di aiuto (Maslach, 1976). A partire da questa descrizione il concetto viene
ricondotto a un costrutto multifattoriale formato da tre componenti tra loro
relativamente indipendenti: l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la
realizzazione personale.
L’esaurimento emotivo è descritto come la sensazione di essere in continua
tensione, emotivamente inariditi dal rapporto con gli altri, e rappresenta una forma
cronica di stress dovuta al percepire le richieste come eccessive rispetto alle risorse
disponibili. L’operatore si sente come svuotato delle risorse emotive e personali e con
l’impressione di non avere più nulla da offrire a livello psicologico.
- Problemi con i clienti
- Interferenze burocratiche
- Dubbi sulle competenze
- Scarsa collegialità
- Carico di lavoro
- Feedback
- Varietà mansioni
- Ambiguità di ruolo
- Autonomia
- Supervisione
- Caratteristiche
demografiche
- Motivazione alla
carriera
- Supporto e richieste
extralavorative
- Alienazione
- Distacco
- Basse prestazioni
- Perdita di idealismo
- Ridotta responsabilità
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L’esaurimento emotivo è, quindi, la sensazione di aver oltrepassato i propri limiti
sia fisici sia emotivi, sentendosi incapaci di rilassarsi e recuperare e ormai privi
dell’energia per affrontare nuovi progetti o persone.
La depersonalizzazione consiste nella risposta negativa nei confronti delle persone
che ricevono la prestazione professionale. In questa condizione l’operatore cerca di
evitare il coinvolgimento emotivo con un atteggiamento burocratico e distaccato e con
comportamenti di rifiuto o palese indifferenza verso l’utente. Questi atteggiamenti
negativi di distacco, cinismo, freddezza e ostilità costituiscono il tentativo di proteggere
se stessi dall’esaurimento e dalla delusione, riducendo al minimo il proprio
coinvolgimento nel lavoro. Una frequente conseguenza della depersonalizzazione è la
percezione del senso di colpa da parte dell’operatore.
La ridotta realizzazione personale è la sensazione che nel lavoro a contatto con gli
altri la propria competenza e il proprio desiderio di successo stiano venendo meno.
L’operatore si percepisce come inadeguato e incompetente sul lavoro e perde la fiducia
nelle proprie capacità di realizzare qualcosa di valido. La motivazione al successo cala
drasticamente, l’autostima diminuisce e possono emergere sintomi di depressione. In
questa condizione è possibile che il soggetto si rivolga alla psicoterapia oppure decida
di cambiare lavoro.
Queste tre dimensioni sono valutabili con il Maslach Burnout Inventory, un
questionario che è stato utilizzato in molte ricerche e ha fornito conferme sperimentali
al modello della Maslach (Maslach e Jackson, 1981).
Confrontando il modello con gli studi precedenti sull’argomento, Maslach e
collaboratori sottolineano che la depersonalizzazione appare come la dimensione
distintiva del burnout, ma anche la meno analizzata nelle ricerche sullo stress. Nei vari
studi sullo stress sono stati invece più ampiamente considerati gli aspetti
dell’esaurimento emotivo e della realizzazione personale, analizzata soprattutto nei
termini di autostima e self-efficacy. Questo porta a concludere che ciò che rende il
burnout una sindrome specifica, e distinta dallo stress, non sono tanto le sue cause e le
reazioni di tensione o insoddisfazione, quanto i sintomi legati ai rapporti interpersonali
che si creano nelle relazioni d’aiuto, come il distacco dagli utenti o l’indifferenza.
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Secondo il modello della Maslach vanno di conseguenza considerate di primaria
importanza le caratteristiche di questa relazione dal punto di vista sia quantitativo, come
la frequenza, la durata, il numero degli utenti, sia qualitativo, come l’intimità e la
distanza interpersonale, senza infine dimenticare le caratteristiche degli utenti (età,
classe sociale e tipo di problematica).
Maslach descrive così le caratteristiche dei soggetti più vulnerabili al burnout:
deboli, remissivi, con serie difficoltà a tracciare i confini tra sé e gli utenti, incapaci di
esercitare un controllo sulla situazione, rassegnati passivamente alle richieste del lavoro
senza tentare di ridimensionarle. I vari stressor della situazione lavorativa, come il
sovraccarico o l’ambiguità di ruolo, possono interagire con queste caratteristiche
personali portando allo sviluppo del burnout.
Anche se Maslach appartiene allo stesso indirizzo di Cherniss si differenzia dal suo
modello nell’importanza attribuita alla relazione con l’utente nell’eziologia del burnout.
Maslach, infatti, definisce il burnout come un processo interpersonale che comporta il
distacco dall’utente, mentre per Cherniss è il risultato di un processo transazionale tra
cause organizzative e abilità generali, in cui un ruolo importante è ricoperto dalla
motivazione.
Golembiewsky, Munzenrider e Carter (1983), partendo dal modello di Maslach e
dal suo questionario, hanno proposto un modello a fasi che spieghi lo sviluppo
cronologico della sindrome del burnout. In questo modello la componente della
depersonalizzione è considerata come la prima a manifestarsi e quindi capace di
influenzare le altre, seguita dalla realizzazione personale e infine dall’esaurimento
emotivo, che rappresenta la fase più importante e più grave del burnout. A seconda dei
punteggi ottenuti con il Maslach Burnout Inventory in ciascuna delle tre dimensioni, un
soggetto si situa all’interno di una delle otto fasi progressive del burnout (vedi Tab.1).
In particolare i punteggi vengono dicotomizzati in “Alto” e “Basso” a seconda che siano
superiori o inferiori alla media del campione normativo della propria categoria
professionale.