INTRODUZIONE
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1) i disoccupati che non erano operai, ma che si trovano in condizioni di
pre-capitalismo e rappresentano il bacino della forza lavoro che andrà a
confluire nell’occupazione operaia stessa;
2) i disoccupati che vivono nel contesto industriale e che derivano dalla
classe operaia, per i quali la disoccupazione rappresenta un incidente di
percorso rispetto alla condizione normale di operaio;
3) i disoccupati che non erano operai e che hanno scarse opportunità di
entrare nella condizione operaia, si tratta in prevalenza di
disoccupazione giovanile.
Il primo tipo di disoccupazione considera il periodo storico antecedente la
prima rivoluzione industriale, allorché si assistette a movimenti di carattere
migratorio dalle campagne alle città di paesi industrializzati non solo a
livello locale, ma anche inter-continentale. Questi movimenti riguardarono
persone che non riuscivano più a essere assorbite come manodopera nelle
campagne e che per questo motivo si rivolsero al nascente mercato del lavoro
operaio, andando a ingrossare le fila del bacino di forza lavoro a disposizione
delle industrie. Questo periodo storico ha visto, inoltre, la prima presa di
coscienza da parte dei vari stati, del problema della disoccupazione; nascono,
infatti, in questo periodo i primi sussidi e le prime leggi per regolare questo
fenomeno. La figura del disoccupato, tuttavia, non viene ancora giustificata
dalla società: l’essere senza un lavoro, viene visto come colpa del singolo,
come una sua mancanza causata dall’ozio (da cui il termine inglese idleness).
Di conseguenza, i provvedimenti adottati furono tesi a ridurre quei sussidi
che in un primo momento erano stati concessi su larga scala, ponendo come
vincolo per la fruibilità del sussidio stesso la meritevolezza del soggetto. In
Inghilterra, il Poor law reform act (1834), distingueva tra poveri meritevoli
(persone inabili, orfani e vecchi) o meno (tra cui i disoccupati), e sulla base di
questa legge veniva concesso un aiuto statale solamente ai primi.
INTRODUZIONE
3
Nei due secoli precedenti, invece, la povertà (e di riflesso la disoccupazione)
era stata gestita dalla poor law elisabettiana che prevedeva due semplici
operazioni: un sussidio per tutti i poveri in generale e il successivo
avviamento forzato al lavoro. Si instaura in questo periodo una visione
assolutamente negativa del termine “disoccupazione”, accezione che verrà a
modificarsi solamente con le prime crisi industriali e i conseguenti
licenziamenti di massa.
Con il passare dei decenni, il concetto di disoccupato subisce, quindi, un
radicale mutamento.
Dopo il boom industriale, la classe operaia aveva assorbito quella
popolazione che era entrata a fare parte del primo tipo di disoccupazione. In
questo contesto non esisteva più il disoccupato che veniva dalle campagne; il
secondo tipo di disoccupazione riguarda coloro che divengono disoccupati
dopo essere stati assunti come operai. In questa fase la condizione di
disoccupato si mostra più dura e peggiore della precedente; infatti, gli sforzi
del singolo non riescono a modificare la situazione in cui ci si trova. Non a
caso, il concetto di disoccupazione involontaria è nato in questo periodo e è
stato propugnato da nomi illustri come Marx (1894), Hobson (1896), Webb
(1909), Beveridge (1930) e Keynes (1936).
Il concetto di involontarietà evidenzia che il ritrovarsi in una condizione di
disoccupazione non dipende, in genere, dal comportamento del singolo, ma
sono interessati elementi che esulano dalla sfera di influenzabilità del singolo
soggetto. Per Marx, ne “Il capitale”, si hanno tre tipi di sovrappopolazione
(ossia una quota di popolazione eccedente la domanda di lavoro) e ognuna è
causata dal sistema economico, in genere; la volontarietà della
disoccupazione non è nemmeno presa in considerazione per la sua
inconsistenza.
INTRODUZIONE
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In particolare, Marx evidenzia:
la sovrappopolazione fluttuante: corrisponde alla disoccupazione vera
e propria;
la sovrappopolazione latente: corrisponde alla disoccupazione
nascosta nelle tradizionali attività pre-capitalistiche;
la sovrappopolazione stagnante: si identifica con il lavoro “nero”.
Per Hobson, invece, la causa della disoccupazione era da ricercare nel
sistema capitalistico, a causa di una sua immanente tendenza al
sottoconsumo o all’eccesso di risparmio. All’alba del nuovo secolo, i coniugi
Webb, con i loro studi sulla disoccupazione, arrivano a riconoscere
l’esistenza di una disoccupazione involontaria e, oltre a questo, avanzano
l’idea che essa possa essere ridotta (o meglio, prevenuta) grazie all’intervento
dello stato. Negli stessi anni, Beveridge sostiene che la disoccupazione sia un
problema frizionale dovuto a imperfezioni del mercato del lavoro, causate dal
malfunzionamento e errata organizzazione della produzione industriale.
Solamente con il lavoro di Keynes, però, si ha l’introduzione del concetto di
disoccupazione involontaria, derivante dall’eccedenza involontaria di forze
di lavoro rispetto alla domanda.
In generale, quindi, i problemi che causano la disoccupazione sono quelli di
funzionamento, di organizzazione e di produzione industriale; l’ozio del
singolo non è più l’imputato principale per la sofferenza della condizione di
disoccupato. Le novità in campo politico, introdotte da queste idee
innovative, si concretizzarono in interventi di sussidio ai disoccupati; si ebbe
la nascita dei primi uffici di collocamento, politiche di assunzioni nella
Pubblica Amministrazione, persino la realizzazione di investimenti pubblici
fu un’arma usata per assorbire la disoccupazione.
INTRODUZIONE
5
L’idea era quella di ridurre la disoccupazione attraverso il massiccio
intervento dello stato: si ha la nascita del Welfare State.
Nella società odierna, infine, la disoccupazione è mutata e assume aspetti
multiformi e non sempre identificabili con schemi comuni a tutti. Pugliese
(1993) delinea un nuovo tipo di disoccupazione, che riguarda coloro che non
sono mai stati dipendenti (in un settore manifatturiero) e che hanno scarsa
possibilità di uscire dalla situazione di precarietà in cui si trovano. Questa
classe interessa la popolazione giovane che non è assorbita dall’industria e è
costretta a inserirsi nel mercato del lavoro grazie a occupazioni instabili e
spesso temporanee rientranti per lo più nel settore terziario. L’aspetto più
rilevante di quest’ultima classe è la disoccupazione giovanile che sempre più
trova difficoltà nell’inserirsi nel mercato del lavoro e ricorre quindi, a
occupazioni come quelle descritte.
Nel corso dei decenni, la definizione di disoccupazione, ha subìto variazioni
significative. Oggigiorno, si hanno parametri comuni tra i vari stati per
confrontare e operare in sintonia sul problema della disoccupazione.
Esistono organismi sopranazionali, come l’ILO, che hanno il compito di dare
metri comuni per la definizione di disoccupato; anche nello studio qui
affrontato ci si è attenuti a questi dettami, come sono stati recepiti dall’ISTAT
(Istituto Centrale di Statistica), al fine di fornire risultati comprensibili e
confrontabili con altri studi. Non ostante i dettami internazionali siano stati
elaborati da esperti del settore, ci sono studiosi che ne mettono in discussione
la validità. Questo perché se si analizza un contesto come quello italiano, si
hanno seri dubbi che i tassi di disoccupazione riflettano effettivamente la
portata del fenomeno; infatti, definizioni generiche adattate a diversi contesti
possono non cogliere particolari elementi locali. Queste distorsioni si sono
verificate anche nell’analisi approntata in questa tesi di laurea; si è notato
come l’uso di definizioni restrittive comporta la registrazione di solo una
parte della disoccupazione, al contrario di una definizione più permissiva
che potrebbe comportare la rilevazione di casi in realtà non rientranti nella
INTRODUZIONE
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definizione di disoccupato. Si tratta, in pratica, di trovare una giusta
demarcazione tra una definizione rigorosa e restrittiva e il numero di casi
non rilevabili.
Per chiarezza, oggigiorno per disoccupato si intende una persona oltre la
soglia dei 15 anni, priva di un’occupazione, in una condizione attiva di
ricerca di lavoro e disposta a lavorare appena si presenti l’occasione. Questa
è la definizione accolta dai paesi aderenti all’ILO, ma su alcuni punti della
stessa, permangono delle differenze tra paese e paese. Le difficoltà maggiori
riguardano cosa si può intendere per ricerca attiva di un lavoro o
disponibilità immediata allo stesso. Come nota Trivellato, se si usassero gli
standard statunitensi, si avrebbe come conseguenza una riduzione del tasso
di disoccupazione ufficiale (non reale) perché, “per definizione”, parte dei
disoccupati passerebbe nell’aggregato delle non forze di lavoro. Fin dal 1959
in Italia si adottano le definizioni dettate dall’ILO. Tali definizioni si usano
per la Rilevazione Trimestrale delle Forze di Lavoro (RTFL). L’indagine
RTFL, dalla sua introduzione nel 1959, ha subìto diverse modifiche e
innovazioni. La prima si ha nel 1977, con l'introduzione del modello di
rilevazione P/60 e la modifica della definizione di "occupato" e di
"disoccupato". La seconda avviene nel 1984, con l’introduzione del nuovo
modello di rilevazione P/70, in cui sono state inserite notizie sulla "seconda
attività" la "formazione professionale" e le modalità di svolgimento del
lavoro a "tempo pieno" e a "tempo parziale", uniformando il questionario
corrente al questionario comunitario. La terza è introdotta nel 1986, con il
cambiamento di definizione delle persone in cerca di occupazione, in modo
da poter comparare tale aggregato rilevato in sede nazionale con gli
aggregati degli altri paesi. L’ultima, infine, comincia nel 1989 e rappresenta la
più completa ristrutturazione, avvenuta secondo diversi tempi e fasi tra i
quali: la revisione del campione (luglio 1990); l’introduzione dei coefficienti
di riporto all’universo post-stratificati per sesso e classi di età (gennaio 1991);
l’introduzione del questionario di rilevazione P/90, con lo sviluppo di nuove
INTRODUZIONE
7
procedure informatiche di correzione e elaborazione dei dati; l’adozione di
nuove definizioni per gli aggregati della popolazione in età lavorativa e delle
persone in cerca d’occupazione (ottobre 1992).
Oggigiorno, la sistematica rilevazione statistica delle variabili del mercato
del lavoro si basa sulla somministrazione di un questionario a un campione
di circa 73412 famiglie per un totale di circa 200000 persone (il numero è stato
ridotto negli ultimi anni per effetto dell’affinamento delle tecniche di
rilevazione stesse). L’ISTAT, Istituto nazionale di statistica, fornisce tutti i
dati necessari per le rilevazioni concernenti la disoccupazione; si suddivide,
quindi, la popolazione in età lavorativa secondo la propria condizione
professionale: occupati, disoccupati e non forze di lavoro.
INTRODUZIONE
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Le prime analisi sociologiche sulla disoccupazione
La prima analisi sociologica sulla disoccupazione è lo studio sui disoccupati
di Marienthal, che a tutt’oggi rappresenta il metro per le analisi sociologiche
in questo campo sia per quanto riguarda gli aspetti psicologici evidenziati,
sai per quanto riguarda le metodologie di rilevazione e di analisi adottate.
Marienthal era un sobborgo alla periferia di Vienna (Austria), dove sia il
lavoro, sia la vita stessa erano basati sui ritmi di un’unica fabbrica, per questo
motivo è stata definita con il termine di company town. La chiusa dello
stabilimento causò la perdita del lavoro di un’intera comunità, in questo
contesto la disoccupazione divenne la condizione “normale” sconvolgendo
l’esistenza di intere famiglie, così come riportato dalla famosa indagine.
Nello studio dei disoccupati di Marienthal si cercò di capire come le singole
caratteristiche individuali influenzassero lo stato del soggetto. In particolare,
le famiglie disoccupate vennero suddivise in diversi gruppi sulla base del
loro comportamento e approccio alla situazione generatasi; si scoprì che
l’appartenenza a una o a un’altra classe di famiglie dipendeva da fattori
personali dei componenti la famiglia stessa. Interessante poi, è l’aspetto
psicologico riguardante i disoccupati di Marienthal; lo studio fatto ha
mostrato come degenerano le relazioni, i comportamenti e la psiche stessa
dell’uomo in casi (seppur particolarmente disagiati) del genere. Similmente,
nello studio che si è fatto, si cerca di definire in che modo la durata della
disoccupazione dipenda da variabili personali (come età, genere, titolo di
studio, eccetera).
INTRODUZIONE
9
Il caso italiano
Una presentazione del caso italiano della disoccupazione è doverosa per uno
studio in cui si analizzano le durate della disoccupazione di soggetti italiani.
La disoccupazione in Italia presenta significative differenze rispetto alle
condizioni degli altri paesi europei. L’alto tasso di disoccupazione giovanile
(con incidenza notevole per il sesso femminile), la differente presenza di
disoccupazione tra il centro–nord del paese rispetto al sud, l’elevato numero
di disoccupati di lunga durata (ossia con tempi maggiori di un anno), e in
generale, la connotazione demografica della disoccupazione sono
espressione di caratteristiche esclusive del sistema sociale italiano. Il
problema della disoccupazione in Italia è, come già detto, particolarmente
vivo nel sud del paese; da decenni, infatti, la disoccupazione continua a
essere concentrata ove già era forte in passato, anzi, si è assistito a un
aggravamento degli squilibri. Tuttavia, per quanto riguarda i disoccupati di
lunga durata, si ha che un discreto numero è presente anche nelle regioni del
centro-nord. Come riscontrato anche nello studio compiuto, esistono
disoccupati di lunghissima data anche e soprattutto al nord; questo perché i
processi di crisi e di ristrutturazione industriale hanno creato delle figure
professionali non più assimilabili dal mercato del lavoro.
Agli inizi degli anni novanta in Italia i disoccupati erano circa 2 milioni e 650
mila, con un tasso di disoccupazione pari al 10,9%, ma nel solo mezzogiorno
se ne contavano 1 milione e 700 mila, con un tasso pari al 19,9%. Questa
panoramica rende l’idea di come la disoccupazione sia particolarmente
concentrata in alcune zone del paese.
La condizione di disoccupato si differenzia, inoltre, per classi di età e per
generi differenti. Soprattutto in zone disagiate, si nota che la disoccupazione
si concentra tra i giovani, e tra questi colpisce in modo più violento le donne.
INTRODUZIONE
10
Ancora, nelle zone del meridione, la condizione di disoccupato puro e
semplice, non si trova facilmente; spesso ci si trova di fronte a persone che
non mostrano una netta appartenenza né alla popolazione attiva, né alle non
forze di lavoro.
Questa configurazione, assume in Italia, aspetti particolarmente accentuati.
Tale implicazione è stata spiegata dai sociologi come una conseguenza di
diversi fattori quali: la struttura familiare tipica, la speciale legislazione in
materia, e la discrepanza tra offerta e domanda nel mercato del lavoro. Per
quanto riguarda il primo aspetto, si nota che il comportamento sul mercato
del lavoro e l’eventuale incremento della rigidità della forza lavoro dei
giovani non sono influenzati solo dal reddito da essi stessi percepito, ma in
generale anche dalla disponibilità della famiglia di farsi carico del
mantenimento dei figli per periodi sempre più lunghi. Come rilevato da
Garonna (1984) nel suo studio su Nuove povertà e sviluppo economico, proprio
le famiglie a più alto reddito hanno mostrato un maggior numero di membri
disoccupati. La famiglia, in sostanza, aiuta i componenti giovani fin quando
non trovano un’occupazione stabile; il fatto poi che la disoccupazione del
mezzogiorno risulti decrescente all’aumentare dell’età dei soggetti ne è la
chiara dimostrazione.
Un secondo elemento tipico del mercato del lavoro italiano, è la presenza di
sussidi salariali, meglio noti come Cassa Integrazione Guadagni. La presenza
di sussidi ai disoccupati comporta sovente delle situazioni incerte in cui un
soggetto, pur percependo un sussidio quale disoccupato, in realtà svolge un
lavoro irregolare, creando confusione nella definizione del suo status. La
compresenza, poi, di occupazioni temporanee e situazioni di
sottoccupazione, rendono ulteriormente difficile la lettura di un mercato del
lavoro pluriattivo e nel quale un soggetto può rientrare in più di una delle
condizioni viste (occupato, disoccupato e non forza di lavoro).
INTRODUZIONE
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Ultimo elemento da notare, è la compresenza di disoccupazione e
immigrazione da paesi del terzo mondo, che può apparire a prima vista
come un paradosso; se si analizzano le cause si nota che esistono lavori
secondari per i quali non esiste un’offerta adeguata e questa è riempita dalla
forza lavoro immigrata
1
. La qualità della domanda di lavoro rende possibile
la convivenza di elevati tassi di disoccupazione e fenomeni di immigrazione
di massa, questo perché gli immigrati vanno a riempire una domanda non
soddisfatta dai lavoratori locali; questo aspetto è particolarmente vivo in
settori quali l’agricoltura, l’edilizia o occupazioni normalmente inusuali,
quali i venditori ambulanti. In settori come quelli enunciati, infatti,
l’occupazione risulta anomala con elevati casi di irregolarità; per tali motivi
queste occupazioni sono rifiutate dai lavoratori locali, abituati a standard
migliori, ma accettate da lavoratori stranieri i quali hanno in primis un salario
di riserva
2
minore, oltre a minori (se non nulle) pretese in ambito
tutelativo/previdenziale.
Il caso italiano ha mostrato un ulteriore elemento di complicazione
rappresentato dalla concentrazione territoriale del fenomeno. La
svantaggiata collocazione nel mercato del lavoro è anche il risultato di fattori
istituzionali: il maggior rischio di disoccupazione o di occupazione precaria
non riguarda tutti allo stesso modo, ma tende a coinvolgere particolari
gruppi sociali come donne, minoranze, immigrati di seconda generazione,
eccetera, residenti in zone depresse o scarsamente sviluppate.
1
Per maggiori dettagli, si vedano Mingione (1986), Macioti e E. Pugliese (1991).
2
Per salario di riserva, si intende il compenso minimo per cui il soggetto è disposto a
lavorare in date condizioni e per un dato periodo.
INTRODUZIONE
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Conclusioni
Le tendenze attuali e future del fenomeno disoccupazione non mostrano
consensi unanimi tra gli studiosi. All’interno delle varie teorie, ve ne sono
alcune dalle visioni più drammatiche di altre. Una tra le più impressionanti,
fu formulata da A. Gorz (1982) nel suo Addio al proletariato. Gorz, nelle sue
considerazioni, mostrava vari scenari di cui alcuni si riveleranno corretti,
mente altri si mostreranno esagerati. Tra i primi si ricorda la previsione fatta
circa l’aumento della disoccupazione giovanile, tra i secondi si riporta la
previsione dell’impatto dell’automazione sul mercato del lavoro. Per Gorz,
questa avrebbe dovuto ridurre, nei tre principali paesi industrializzati
dell’Europa occidentale, dai quattro ai cinque milioni di posti di lavoro nel
decennio in corso. Nell’ipotetico futuro predetto da Gorz, la forza lavoro
potrebbe essere distinta in tre grandi aggregati:
un’aristocrazia privilegiata di lavoratori occupati stabilmente e con un
lavoro a tempo pieno;
disoccupati condannati all’inattività e alla povertà;
un crescente numero di persone occupate precariamente.
A tutt’oggi, le previsioni di Gorz non sembrano avverate in toto, se non
relativamente a specifici punti. La situazione nei primi anni novanta, infatti,
presenta sì una diminuzione dell’occupazione industriale, ma pure si è avuto
un notevole allargamento dell’impiego nel settore terziario e un consolidarsi
del lavoro precario (aspetto non considerato dall’autore). In sostanza, il
numero di disoccupati non è variato notevolmente proprio perché il numero
di persone espulse dal settore industriale è stato largamente assorbito dalle
ultime due categorie suddette. Questo cambiamento comporta, però, da un
lato l’aumento della fascia dei poveri all’interno della società, dall’altro il
peggioramento della condizione di vita dei poveri, dovuto anche alla
diminuzione dei sussidi dello stato sociale (welfare state).
INTRODUZIONE
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Si viene instaurando sempre più una ideologia individualista che suggerisce
come alternativa al welfare, il workfare, cioè incentivi non più a sostegno del
reddito delle persone disoccupate, ma incentivi volti a far aumentare
l’occupazione.
Per quanto riguarda l’analisi qui svolta, lo scopo prefissato è lo studio delle
durate complete
3
della disoccupazione e delle relazioni esistenti tra le
variabili personali e la durata stessa. La pretesa di questa analisi non è,
difatti, quella di fare previsioni su quanto potrà durare un periodo di
disoccupazione a seconda della presenza di determinate caratteristiche; il
fine principale dello studio è cogliere come un certo mix di variabili personali
influiscono sulla durata totale della disoccupazione sofferta dal singolo
soggetto. Le difficoltà nel rilevare situazioni estremamente eterogenee tra
loro, ha creato problemi in quanto per taluni soggetti non esistevano
categorie adatte a rappresentarli. Comunque sia, l’elevato numero di casi
rilevati e i numerosi e rigorosi controlli effettuati sulle situazioni incerte,
fanno ritenere che i risultati ottenuti diano una rappresentazione affidabile e
sicura della realtà.
Il lavoro presentato di séguito illustra uno studio effettuato sulle durate
complete della disoccupazione, che parte dalle modalità di elaborazione dei
dati della Rilevazione Trimestrale sulle Forze di Lavoro (RTFL) svolta
dall’ISTAT per ricostruire le durate complete della disoccupazione, alla
formulazione di modelli sulle durate. Per la vastità degli argomenti trattati si
può suddividere idealmente il lavoro svolto in quattro parti, che
corrispondono anche a quattro fasi del processo di elaborazione.
La prima parte illustra il questionario della RTFL, le principali
definizioni adottate, i possibili metodi di abbinamento dei dati, e i
risultati di questo: comprende i capitoli 1, 2, e 3.
3
Per durata completa si intende un periodo di disoccupazione che ha un inizio e un termine;
qualora si sia a conoscenza di una data di inizio e una di fine periodo della disoccupazione
subita da un soggetto, il calcolo della durata complessiva è presto fatto.
INTRODUZIONE
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La seconda parte descrive la ricostruzione delle durate complete e
analizza i flussi e le tempistiche, con riguardo particolare ai casi estremi
(durate mancanti, negative, e lunghissime) e alle differenze regionali
rilevabili tramite lo studio della funzione di rischio; infine, si arriva
alla preparazione di un insieme di durate complete e si riportano i
principali risultati teorici dei modelli di durata: comprende i capitoli 4,
5, e 6.
La terza parte riporta sinteticamente le caratteristiche regionali delle
durate e della funzione di rischio, e anche un’aggregazione delle
regioni stesse tramite un’analisi dei gruppi (cluster analisys); infine, la
stima di alcuni modelli di durata sia con il metodo semi-parametrico
di Cox, effettuato sull’intera base di dati e su un campione ridotto, sia
con un modello parametrico che assume una distribuzione di Weibull
sia delle durate e sia dell’eterogeneità —e conduce a un modello che
corrisponde a un miscuglio di distribuzioni di Weibull (Lancaster, pp.
65-70)— e si descrivono i risultati ottenuti: comprende i capitoli 7 e 8.
La quarta parte descrive l’utilizzo di algoritmi genetici e reti neurali:
prima, dal punto di visti teorico (capitolo 9); poi, dal punto di vista
pratico (capitolo 10). Oltre allo studio di questo nuovo modello, si
effettuano confronti con i risultati ottenuti dal modello di Cox sul
campione ridotto, e, infine, si appronta un modello di durata
sperimentale su un campione ridotto a 1350 individui e 19 covariate.
Più in dettaglio, il capitolo 1 presenta una descrizione dello strumento alla
base della rilevazione dei dati utilizzati in questo lavoro: il questionario della
RTFL. La base da cui partire per un’analisi sulla disoccupazione, consiste nel
definire tutti gli elementi e tutte le definizioni inerenti al questionario.
INTRODUZIONE
15
Questa fase è necessaria e importantissima per non confondere elementi tra
loro simili; si pensi alla sottile differenza esistente tra alcune categorie
appartenenti alle Non Forze di Lavoro (per esempio, le casalinghe che hanno
effettuato ore di lavoro nella settimana di riferimento), i disoccupati e gli
occupati; ebbene, l’applicazione rigorosa di queste definizioni consente di
collocare l’individuo in una propria classe specifica (nel caso citato,
l’individuo è ritenuto appartenere agli occupati, proprio in virtù del fatto di
aver lavorato nella settimana di riferimento).
La definizione degli elementi alla base della RTFL interessa anche lo studio
del sistema di campionamento adottato; infatti, se non si comprende in che
modo ruotano i campioni, risulta impossibile effettuare l’unione dei dati per
la ricostruzione delle durate complete. Lo schema di rotazione 2-2-2 del
campione, consiste in una ricircolo dei campioni (e degli individui che lo
compongono) nel tempo. In un anno solare si hanno 4 rilevazioni, una a
Gennaio, una a Aprile, una in Luglio e l’ultima in Ottobre; chi entra in un
campione per la prima volta, verrà intervistato nella rilevazione seguente,
non verrà contattato per le due rilevazioni successive,poi, sarà re-intervistato
per altre due rilevazioni successive, uscendo, infine, definitivamente dal
campione.
Il secondo capitolo affronta la delicata questione del tipo di abbinamento da
utilizzare per accoppiare i dati. Pur analizzando entrambi i metodi di
accoppiamento possibili (Metodo probabilistico e esatto), la soluzione alla
scelta deriva da un accordo definito per le ricerche rientranti nel progetto co-
finanziato dal MURST, per il quale è stato deciso di adottare l’abbinamento
probabilistico, fornitoci dal gruppo di lavoro diretto dal prof. Ugo Trivellato
dell’Università di Padova. Di entrambe le procedure, si forniscono sia
elementi teorici, sia risultati ottenuti utilizzando entrambi gli approcci
(capitolo 3).