5
Parlare di letteratura e guerra non è una sorta di divagazione, poiché i soli
aspetti politici e militari non sono in grado di esaurire la conoscenza di quanto
veramente accade, anche là dove le televisioni di tutto il mondo filmano e
trasmettono ininterrottamente (ma oltretutto esistono le guerre dimenticate, perché
poco interessanti per i paesi non coinvolti).
2
Accanto, però, alla “visualizzazione emotiva delle immagini televisive” e
giornalistiche, cioè accanto alla cronaca, c’è anche la scrittura della storia. Per quanto
sia da sempre difficile definirne i confini, la letteratura, in qualche modo, si colloca
“in mezzo”, non è né “cronaca”, né “storia”, né “diario”, né “epistolario” o
“memoriale”, è insieme qualcosa di meno e qualcosa di più di tutte queste forme
fondamentali di discorso sulla guerra, di cui, evidentemente, si nutre e che spesso
incorpora. La peculiare forza della letteratura, e di quella di guerra in particolare
(romanzo e poesia di guerra, anche se il romanzo è forse più diffuso), si trova forse
nella combinazione di due caratteristiche fondamentali: la lentezza e il ritardo della
parola, poiché si scrive “dopo” e si legge “dopo”, si scrive e si legge una parola dopo
l’altra. Le parole lente si aprono nella mente, quindi ci sono allo stesso tempo
partecipazione emotiva e riflessione. Con i poeti romantici, la letteratura è concepita
come “emozione potente rivissuta in tranquillità”, anche se mai come nel caso della
guerra, c’è una tensione paradossale tra la potenza dell’esperienza e la “tranquillità”,
che permette di darle forma in modo che l’esperienza possa essere rivissuta al
massimo della sua intensità. Altra caratteristica della letteratura è il fatto che essa
riporta il quadro d’eventi sociali “impersonali” al livello dei soggetti, delle persone
coinvolte e cerca il senso di una narrazione compiuta che non può escludere né il
privato, né il pubblico, né il personale né il sociale.
Si può capire molto delle guerre storiche ripercorrendo quelle raccontate dalla
letteratura, persino se immaginate o inventate, grazie alla complessità e varietà della
rappresentazione del reale che le grandi opere narrative riescono a raggiungere. Ciò
non toglie, ovviamente, che lo studio filosofico, storico e giuridico della guerra sia
indispensabile per la sua definizione. Peraltro, Luigi Bonanate fa notare quanto poco
ancora siamo in grado di dire con esattezza del fenomeno “guerra”, specie riguardo
alle sue cause, che possono dipendere da tendenze molto differenti, come la violenza
2
Casadei, Alberto, La guerra, Collana Alfabeto Letterario, Bari, Laterza, 1999, pag. 5-6.
6
ancestrale, la passionalità, il calcolo razionale delle potenze in campo.
3
Molte forme
di lotta fra i popoli - o meglio, dopo la Rivoluzione francese (1789), tra le nazioni -
sono state esaminate dal più grande teorico della guerra, il prussiano Karl von
Clausewitz, che ha, fra l’altro, impostato il problema della rilevanza politica d’ogni
azione bellica e dei nazionalismi all’interno degli stati, che costituiscono tuttora,
assieme ai fondamentalismi religiosi, una delle ragioni più forti per lo scatenamento
delle guerre o almeno delle lotte interetniche o addirittura civili.
4
Ma se vogliamo davvero comprendere le cause di queste situazioni dobbiamo
cercare di analizzare i motivi consci e inconsci che muovono gli esseri umani a
tentare di distruggere i loro simili sentiti come nemici. In particolare, fra l’Ottocento
e il Novecento Friedrich Nietzsche ha invocato il principio della “volontà di potenza”
per capovolgere l’andamento storico ed annientare le forze che si oppongono alla
realizzazione del “superuomo”. Dal canto suo, Sigmund Freud, nelle opere scritte
dopo la Prima guerra mondiale, ha individuato due pulsioni fisiche fondamentali,
Eros e Thànatos (“Amore” e “Morte” in greco), le quali si evidenziano soprattutto
nei periodi bellici.
5
E’ importante notare che, di frequente, le spiegazioni di tipo filosofico
esulano dall’ambito strettamente scientifico e ricorrono a racconti, magari a sfondo
allegorico. Il fatto è che la narrazione della guerra non appare sostituibile da
schematizzazioni strategiche o da descrizioni statistiche: la guerra è molto più che un
insieme di vicende militari e politiche. Ciò spiega perché sono i racconti bellici ad
interessarci e a rimanere impressi nell’immaginario collettivo. Naturalmente,
possiamo individuare molti tipi di racconti, dai resoconti dei testimoni, ai pezzi
giornalistici o cronachistici, ai testi dalla più evidente valenza artistico-letteraria,
ossia caratterizzati da una forma elaborata, che spesso è collocabile all’interno di un
genere specifico.
6
3
Bonanate, Luigi, La guerra, Roma-Bari, Laterza, 1998, pag. 9-10.
4
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 7.
5
Ibid., pag. 7-8.
6
Bonante stesso afferma che bisognerebbe studiare di più la letteratura di guerra.
7
La guerra come cronòtopo letterario.
E’ evidente che il rapporto fra letteratura e guerra cambia a seconda dei
generi e delle forme adottate, ma anche a seconda delle interpretazioni che nei vari
periodi storici sono state date della natura e della funzione dell’azione bellica. La
narrativa è sembrata molto sensibile alla ricezione delle istanze religiose e politiche,
ma ha poi sancito, specie con l’epica, una serie di valori modellizzanti, ad esempio,
quelli dell’eroismo. Questi valori hanno rappresentato un elemento di continuità circa
fino al Settecento, quando le società nobiliari furono messe in crisi dall’Illuminismo.
Non a caso, molti philosophes, primo fra tutti Voltaire, contribuirono a demistificare
le ragioni sante o nobili delle guerre tra sovrani assoluti, e aprirono la strada alla lotta
fra ceti sociali, culminata non solo nella Rivoluzione francese del 1789, ma anche e
soprattutto nella battaglia di Valmy (1792), quando un esercito di “straccioni”
rivoluzionari sconfisse le armate degli imperi centrali che volevano restaurare la
monarchia in Francia.
7
Da quel momento, per la forma narrativa ormai dominante, il romanzo, la
guerra costituì il cronòtopo (termine usato dal critico russo Michail Bachtin, per
indicare un preciso “tempo-spazio”, ossia un “luogo dotato di tempo”)
8
di
un’esperienza singolare e personale, e quindi una parte fondamentale dell’educazione
dei personaggi (e perciò dei lettori), specie quando essi combattono in battaglie che
fanno la storia. Ma forse, è preferibile parlare di guerra come tema ricorrente che
prende forma in una serie di cronòtopi narrativi diversi, cioè di spazi e tempi costruiti
narrativamente. Senza dubbio, la guerra ha dato origine ad un genere letterario ben
distinto, in cui la guerra è la matrice, ciò che costituisce il contesto generale per
l’azione particolare; è la metafora per la condizione umana, come nei romanzi di
Hemingway e Anton Myrer; è parte dell’esperienza di vita o, come in Der
Zauberberg di Thomas Mann (1924), è un’esperienza formativa. E in alcune opere,
in cui il tema della violenza è strettamente legato alla sessualità, la guerra diventa
l’estrema degradazione dell’umanità, come in Walk on the Water di Ralph Leveridge
e in The End of It di Mitchell Goodman.
7
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 23-24.
8
Citato in Casadei, Alberto, op. cit., pag. 24.
8
La situazione bellica spinge il protagonista del romanzo di guerra a fare
appello a tutte le sue risorse, costringendolo a sfidare se stesso e ad esaminare i suoi
principi in un modo critico senza precedenti. L’intensità delle esperienze presentate
in questi libri cristallizza i valori individuali e produce autovalutazione - che secondo
Peter G. Jones, è la qualità peculiare di questo genere di romanzi.
9
In ogni caso, questo aspetto “cronòtopico” della guerra s’intreccerà, nella
letteratura relativa alle due guerre mondiali, con nuove istanze filosofiche o
antropologiche eccezionalmente forti, soprattutto tese a demistificare l’inganno della
“bella morte”, quello che aveva fatto considerare giusto il morire nelle guerre
generate dalle ideologie. E’ poi opportuno notare che tali componenti saranno
presenti anche in testi in cui la guerra viene o immaginata da autori che non l’hanno
vissuta direttamente, o addirittura inventata, come nella fantascienza e nella storia
controfattuale (e nei casi più interessanti, queste opere mettono in luce
interpretazioni straniate ma significative, se messe in corto circuito con i racconti
tradizionali della guerra).
10
9
Jones, Peter G., War and the Novelist : Appraising the American War Novel, Columbia: University
of Missouri Press, 1976, pag. 3.
10
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 24-25.
9
La demistificazione della “bella morte”.
a) L’Ottocento.
Sulla spinta delle rivendicazioni nazionalistiche nate dall’entusiasmo per la
Rivoluzione francese, e soprattutto per la sua prosecuzione militare condotta da
Napoleone Bonaparte a partire dalla campagna d’Italia del 1796-97, molti artisti
composero opere centrate sul tema della guerra.
La guerra, che già nel mondo omerico è l'ambito stesso di manifestazione
dell'umano, è “cosa bella” perché eroica e quindi “giusta”. L’atto fondamentale è il
duello, in cui il singolo guerriero può distinguersi, mostrarsi nella luce splendente
della gloria e, cantato dal poeta, divenire eterno, essere “visto” dai posteri fino alla
fine dei giorni. E' la narrazione epica della guerra che, immortalandone le imprese,
prolunga nel tempo il valore dell'eroe: il fine ultimo è la “fama immortale”, e la
gloria imperitura si conquista soltanto con la morte. L'eroismo, quindi, è l'unica
possibilità che l'uomo ha di affermarsi in quanto individuo, così come la storia di
un'esistenza che risuona sulla bocca dei posteri dopo la scomparsa del suo
protagonista è l'unica forma d’immortalità possibile. L'unico modo per sottrarre
l'uomo ad una morte crudele (all'oblio) è di concedergliene una gloriosa, degna di
essere raccontata.
11
Gli ideali romantici promuovevano il ribelle-rivoluzionario al ruolo d’eroe,
portatore di valori innovativi, che solo nell’opposizione e nella lotta, e dunque con
facile trasferimento alle armi, avrebbero trovato una realizzazione. Basta ricordare il
Foscolo di Alla sera (1802):
[…] “e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.”
11
Mascheroni, Luigi, La TV spegne il canto degli eroi,
http://www.cselalamein.it/cse/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=175, 8
maggio 2004.
10
Non è dunque stupefacente se, nei primissimi anni dell’Ottocento, si creò un
nuovo mito dell’eroismo, che vedeva nel trionfatore Napoleone il suo modello
principale: persino Hegel identificò in lui lo spirito del mondo, e Ludwig van
Beethoven gli dedicò la sua terza sinfonia, davvero innovativa. Ma come il grande
musicista, che, capite le reali intenzioni dell’Imperatore, decise di cancellare la
dedica e di intitolare la sinfonia Eroica, così molti altri artisti e intellettuali tardo-
illuministici o romantici si scontrarono dapprima con la realtà effettuale della ragion
di stato e delle ansie dittatoriali ed espansionistiche di Napoleone, e poi con
l’apparente chiusura della fase rivoluzionaria, sancita dal Congresso di Vienna del
1815. In realtà, dopo quella data continuò ad essere attivo nella letteratura (più
ancora nella lirica che non nella prosa) il mito della rivolta contro gli oppressori,
quasi sempre legato a rivendicazioni nazionalistiche e a concezioni politiche di tipo
liberale o radicale. La guerra divenne “giusta” anziché “santa”, e i diritti dei popoli
furono al centro di molte opere che, magari in veste allegorica, trattavano d’antiche
battaglie o rivolte. Lo stesso romanzo storico così come lo concepì Walter Scott si
prestava ad interpretazioni politiche, e le guerre narrate (ad esempio, quelle fra
Normanni e Sassoni in Ivanhoe, 1820) assumevano valenze libertarie.
12
E’ evidente, quindi, che nei primi decenni dell’Ottocento si creò una nuova
retorica militaresca, che aveva una funzione esortativa e propagandistica, e che
vedeva nella guerra l’unico strumento per la conquista del bene sommo
dell’indipendenza nazionale. Questa retorica proseguì fino al compimento delle varie
guerre di liberazione, salvo poi essere sostituita da una più direttamente legata alle
nuove ideologie politiche e a nuovi tipi di rivoluzione (specie quella comunista). In
ogni caso, la spinta democratica post-1789 costituì un eccezionale impulso per le
classi subordinate: a quella spinta contribuì anche la letteratura di guerra di tipo
esortativo, che trovò negli inni nazionali la sua più evidente espressione.
Ma già alla fine della prima fase di rivolte e di lotte contro la restaurazione
dell’ancien régime (cioè dopo il 1830 e la salita al trono di Luigi Filippo d’Orléans)
si cominciò a leggere, proprio nelle opere degli scrittori un tempo favorevoli alle
guerre di liberazione, una descrizione della guerra sempre meno retorica ed esteriore.
12
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 27-28.
11
Il caso esemplare è quello di La Chartreuse de Parme (1839) di Stendhal, un
romanzo in cui la guerra si riduce ad un insieme di sequenze casuali, ad una presa di
coscienza dell’inutilità degli sforzi, se questi tendono all’estetica dell’eroismo, al
compiere l’azione bella e memorabile in mezzo ad una lotta che ormai si conduce da
lontano con fucili e cannoni. Il tono della narrazione è perciò disincantato, e la
diminuzione dell’eroe a sciocco inesperto non potrebbe risultare più evidente. Certo,
il desiderio di agire secondo grandi modelli, tipico di tanti personaggi romanzeschi,
domina sulla reale comprensione dei meccanismi della lotta militare. Peraltro,
rispetto ai proclami epici antichi, il distacco più illuministico che romantico di
Stendhal segna una nuova stagione nella modalità di rappresentazione della guerra
(che troverà poi un corrispondente nelle pagine dedicate a Waterloo in Vanity Fair,
1847-48, di William Thackeray o in quelle de Les Misérables, 1862, di Victor
Hugo).
13
Lev N. Tolstoj ha affermato a più riprese che le pagine stendhaliane di La
Chartreuse de Parme (1839) costituiscono il modello principale per le battaglie
descritte in Guerra e Pace (1863-69). Comunque sia, la guerra e la pace
rappresentano, secondo Tolstoj, la totalità della vita umana. La pace è il tempo delle
vicende quotidiane, degli amori fuggevoli e delle chiacchiere nei salotti aristocratici.
Nella guerra entra in gioco potentemente la morte. Chi riesce ad affrontarla non in
modo estetico, ma etico, rimanendo fedele a se stesso e all’impegno di guardare in
faccia la realtà proprio nei suoi aspetti più terribili, riesce anche a comprendere la
verità valida per lui.
La guerra rivela la morte, ma – proprio per questo - rivela anche la vita. La
sua negatività può trasformarsi in un bene, a patto di non ridurla a scontro di potenze,
all’esteriorità tremenda della strage, come i condottieri napoleonici. Allora la guerra
diventa lotta per niente, addirittura per il niente. Così in Guerra e Pace la visione
della guerra è portata da un piano storico-teorico ad uno autenticamente realistico, in
cui non sono descritti soltanto gli aspetti esteriori o quelli tattico-strategici, ma è
soprattutto individuata una causa dietro gli avvenimenti, che li riconduce ad una
visone totale. In questo senso il romanzo di Tolstoj rappresenta un equivalente
dell’epica antica, a partire da un mondo in cui si scontrano solo uomini e non più dei
13
Ibid., pag. 29-31.
12
o semidei o eroi. Tolstoj, per motivi anagrafici, non aveva partecipato alla guerra
contro Napoleone, e quindi il suo realismo non si basa sulla conoscenza diretta.
Aveva partecipato, invece, alla difesa di Sebastopoli contro i turchi (1854-55), e da
quell’esperienza aveva poi ricavato alcuni importanti racconti, che solo in modo
riduttivo possono essere definiti reportages di guerra. La cronaca si fonde con
l’impulso umanitario a migliorare le condizioni dei soldati semplici, e con la
continua percezione della morte incombente. Tuttavia, lo stesso Tolstoj propose
questi racconti come articoli, e non trascurò di raccontare molti aneddoti della vita
militare, adatti ad un pubblico di giornale. La differenza fondamentale rispetto alla
futura corrispondenza di guerra è che, già in questi racconti, la ricerca della verità,
dietro e nonostante i tanti avvenimenti in apparenza devianti, domina sulla pura
descrizione esteriore. Questo, secondo Alberto Casadei, fa capire perché Tolstoj
supera i numerosi resoconti di guerra che, soprattutto a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, si possono contare in quasi tutte le letterature occidentali, e che
spesso saranno apprezzati per la loro “autenticità”. In ogni caso, la grande letteratura
ci fornisce una sua forma di verità nell’interpretazione della guerra al di là della sua
esattezza referenziale, e le mistificazioni ideologiche, frequentissime nella letteratura
di guerra più corriva, non riguardano opere come Guerra e Pace, che propone
attraverso la sua stessa forma, rielaborazione di quella tradizionale dell’epica, non
una tendenziosa polemica pro o contro i conflitti armati, ma un’intera visione del
mondo.
Ribadita la centralità del modello tolstojano per la rappresentazione della realtà
bellica nell’Ottocento, occorre segnalare anche un altro importante romanzo
incentrato su una guerra, quella franco-prussiana del 1870, ossia La Débâcle (1892)
di Émile Zola. Se La Chartreuse de Parme brucia le illusioni della guerra romantica,
e Guerra e Pace pone la guerra come prova assoluta, La Débâcle rappresenta la
guerra accentuando gli aspetti del disfacimento fisico e morale che essa provoca nei
singoli uomini e nei popoli.
13
Peraltro, la guerra comincia a caricarsi di sovrainterpretazioni, come accadrà sempre
più di frequente a partire dal 1914, ma intanto Zola aumenta soprattutto l’esattezza
della descrizione, specie nei particolari tecnici e in quelli medici, che sfiorano
l’orroroso.
14
14
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 32-38.
14
b) La Prima guerra mondiale.
La Prima guerra mondiale segnò una svolta radicale nell’immaginario bellico.
Gli storici e i critici che si sono occupati di questo aspetto hanno in primo luogo
sottolineato le profonde modificazioni percettive, fisiologiche, memoriali che quella
guerra generò nei combattenti: lo spazio e il tempo apparivano sconvolti a chi aveva
passato anni nelle trincee (il luogo simbolo delle battaglie del 1914-1918). Inoltre, la
tecnologia ormai dominante (l’impiego di carri armati e aerei, ad esempio) generava
da un lato un sempre maggiore distacco dall’esercizio diretto della violenza;
dall’altro, la precisa consapevolezza che l’azione del singolo non aveva che un valore
secondario nella strategia bellica. Infine, lo spazio della biologia individuale
cominciò ad essere invaso – in modo sempre più esplicito, sistematico e
autocosciente - dalla politica e dal potere degli stati, che decisero la sorte di milioni
di prigionieri, ridotti a numeri e a problemi da risolvere in modo “pianificato”.
Di questi e altri sconvolgimenti diedero conto in prima istanza i tanti
memoriali pubblicati già a partire dall’immediato dopoguerra. Il critico tedesco
Walter Benjamin aveva affermato all’inizio del suo celebre saggio Der Erzähler
(1936) che i soldati tornavano dal fronte incapaci di raccontare la loro esperienza in
modo diretto. Ma questo se è vero rispetto ad un attonito mutismo, alla impossibilità
di esprimere fino in fondo “l’essenza” dell’esperienza della guerra, non toglie nulla
alla volontà, e alla necessità psicologica e sociale, di tentare di raccontare, un evento
bellico incomparabile con quelli fino ad allora accaduti in coloro che vi presero
parte, tanto è vero che sono state raccolte e studiate moltissime testimonianze non
letterarie (specialmente epistolari), in cui si dava conto, pur nei limiti concessi dalle
censure, di quanto stava avvenendo e, finita la guerra, la forma del memoriale
sembrò la più adatta a manifestare spesso senza retorica e con un realismo oggettivo
una verità dell’incredibile e dell’indicibile.
Va però notato che molti dei memoriali editi in quegli anni presentano tratti
letterariamente elaborati. In alcuni memoriali, episodi della Prima guerra mondiale
sono talora descritti sulla base di modelli precedenti, e questa retorica (magari
involontaria) si coglie soprattutto nelle opere di coloro che avevano ricevuto una
buona educazione letteraria scolastica, ma non erano veri scrittori.
15
Le più profonde e incisive testimonianze sulla guerra si colgono, perciò, nei
testi talvolta usciti a distanza di parecchi anni, dopo una lunga rielaborazione
interiore, e che si presentano come romanzi in cui l’autobiografismo è stato in
qualche misura decantato, grazie ad un uso consapevole del mezzo letterario.
In questo senso, uno dei testi più sconvolgenti sulla Grande Guerra è In
Stahlgewittern (1920) di Ernst Jünger, un diario molto rimaneggiato e diviso in
capitoli come un romanzo. L’opera può essere letta come una sorta di apprendistato
spirituale, in cui la carica aggressiva e la volontà di potenza del sottotenente Jünger si
confrontano con lo scenario da massacro e da morte-in-vita in cui egli combatte.
Peraltro, nota Casadei, il testo di Jünger è caratterizzato da un’evidente esaltazione
sanguinaria, che svela in realtà il tentativo di mantenere un senso all’individuo
umano di fronte al dominio tecnologico-statale, attraverso un eroismo disperato. Si
tratterebbe di un caso forse estremo di difesa degli ideali bellici e i problemi posti da
Jünger sono i più sconvolgenti che la Prima guerra mondiale lasciò come eredità
diretta.
15
Non si deve, però, dimenticare, nella letteratura di fine Ottocento-inizio
Novecento, l’importanza dell’estetizzazione della violenza (concezione che porta a
considerare artistica la manifestazione dell’energia naturale e quasi ferina, che si
scatena ogni volta che si decide di abbandonare la regolamentazione data dalla
cultura) e quella della morte eroica in battaglia.
16
Uno dei più importanti sostenitori
di quest’interpretazione della guerra è Gabriele D’Annunzio, il poeta che incarna il
mito dell’“esteta armato”. Si tratta di una versione estroversa e aggressiva del
semplice esteta, colui cioè che vuole costruire la propria vita come un’opera d’arte:
per questi, il gesto memorabile, l’azione avventurosa, il rischio, la violenza stessa
assumono, idealmente, un significato estetico, quasi che il personaggio immagini e
nell’atto di compierla percepisca la propria azione già immortalata in un’opera
d’arte.
17
La cosa, in D’annunzio, sarà ben più evidente negli anni della guerra:
l’azione militare non è mai disgiunta da rituali e compiacimenti estetizzanti.
15
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 43-46.
16
Ibid., pag. 55.
17
Sotto questa concezione c’è anche una sorta di presunzione di onnipotenza, che ha le sue radici nel
superomismo nietzscheano, nella teoria cioè di un uomo superiore le cui doti gli consentano il
dominio della realtà e della massa e gli permettano di sfiorare l’immortalità.
16
Tali attività sono tutte contrassegnate da quello che Contini definisce un
“desiderio estetizzante d’avventura ulissea”, vale a dire una vocazione a realizzare
esperienze ardimentose, a tradurre nel proprio vissuto le suggestioni derivanti dalla
mitica figura di Ulisse, ma nel contempo il bisogno di vivere tutto ciò come
un’esperienza artistica, di trasfigurazione in una luce di Bellezza (il “bel gesto”).
18
Gli uomini, e specialmente i poeti, sono sempre stati i “compari” dei
guerrieri, secondo Philip Appleman: Omero che si stupisce della carneficina
compiuta da Achille; Virgilio che celebra Enea (“Arma virumque cano..”); Chaucher
che ammira il suo “verray parfit gentil knight”; l’Enrico V di Shakespeare che
ottiene gloria grazie ad un’aggressiva guerra straniera; Lovelace che lascia il campo
di battaglia cantando “I could not love thee, dear, so much, /Loved I not honour
more”; gli eroi celesti di Milton che distruggono i ranghi serrati degli angeli caduti
con il tuono, il fulmine e una pioggia di fuoco…E così via fino ai versi di A. E.
Housman,
“I did not lose my heart in summer's even,
When roses to the moonlight burst apart.
When plumes were underfoot and steel was flying,
In blood and smoke and flame I lost my heart.
I lost it to a soldier and a foeman,
A chap who did not kill me--but he tried,
Who took the sabre straight and took it striking,
And laughed, and kissed his hand to me, and died.”
19
Secondo Appleman, i versi di Housman sono stati composti troppo tardi per
essere considerati credibili, dal momento che il poeta (1859-1936) visse “to cross the
line” tra i “vecchi” poeti, che ancora pretendevano di credere nel cavaliere nobile ed
eroico, e i “giovani” poeti, per i quali le armi di distruzione di massa hanno ridotto,
poco per volta, l’eroismo a qualcosa d’irrilevante, rimpiazzandolo con sempre più
impersonali macchine per uccidere a lunga distanza: il cannone, il bombardiere, il
missile guidato, l’arma nucleare.
18
Guglielmino, Salvatore, Grosser, Hermann, Il sistema letterario, Storia 3, Secondo Ottocento e
Novecento, Milano, Casa Editrice Principato, 2002, pag. 189.
19
Appleman, Philip, I sing of Arms and the Man (The Ghosts of War), adattato da War, Literature
and the Arts: An International Journal of Humanities, Humanist, Nov-Dec, 2001,
http://www.findarticles.com.
17
Per non menzionare il gas asfissiante, tutt’ora utilizzato per sedare violente
insurrezioni, benché fuori legge. Quando il poeta-soldato inglese Wilfred Owen,
poco prima di essere ucciso durante un’azione, osservando le trincee della Prima
guerra mondiale scrisse una poesia su una camerata asfissiata, incorpora nel testo
anche un’osservazione del poeta latino Orazio: “Dulce et decorum est pro patria
mori”, cioè “è dolce e bello morire per la patria”. La poesia si conclude in questo
modo:
“If you could hear, at every jolt, the blood
Come gargling from the froth-corrupted lungs,
Obscene as cancer, bitter as the cud
Of vile, incurable sores on innocent tongues, --
My friend, you would not tell with such high zest
The old lie: Dulce et decorum est
Pro patria mori.”
Si tratta di un grido da parte di un uomo ben diverso dal galante cicisbeo di
Housman, poiché - man mano che la guerra divenne sempre meno personale e
sempre più devastante; le vittime obiettivo di attacchi intelligenti divennero i civili e
gli eserciti; la motivazione dell’andare in guerra, l’orgoglio nazionale, divenne
sempre più discutibile - l’attenzione dei poeti si era da tempo spostata dai guerrieri
spavaldi alle loro vittime inermi. Troppo tardi, allora, salutare il nobile cavaliere sul
cavallo bianco. La preoccupazione democratica e umanistica che i comuni cittadini
non dovessero essere arbitrariamente o bizzarramente costretti ad essere carne da
cannone a vantaggio di dispute politiche, religiose od etniche, divenne gradualmente
una delle verità accettate, e così, per la gente “civile”, divenne sempre più difficile
giustificare la maggior parte delle guerre. Dopo il grande orrore della Prima guerra
mondiale, soltanto una sanzione molto persuasiva poteva spingere un’intera nazione
a sostenere una grande guerra.
20
20
Appleman, Philip, op. cit.
18
Altri importanti romanzi scritti tra le due guerre, come quelli di Louis-
Ferdinand Céline e di Robert Musil, presentano il campo delle conseguenze indotte
da quel conflitto, come il completo cambiamento degli assetti politici e la genesi di
odi, desideri di rivalsa, sentimenti di frustrazione per le vittorie mutilate, il cui
funesto epilogo si ebbe solo con il 1945. Tuttavia, in questi romanzi il tema della
guerra è affrontato in modo marginale, anche se quell’esperienza costituisce il
presupposto forse fondamentale della narrazione.
21
Un testo che rappresenta da vari punti di vista il livello medio della narrativa
sulla Grande Guerra, e che ebbe una straordinaria fortuna editoriale è Im Westen
nichts Neues (1929) di Erich Maria Remarque.
22
Subito accolto come opera
apertamente anti-militarista, il romanzo fu amato in gran parte dell’Europa e degli
Stati Uniti, ma osteggiato nella Germania ormai prossima all’avvento del nazismo.
L’azione degli uomini è ridotta alla fisiologia elementare e per tutto il romanzo la
volontà di sopravvivenza prevarrà su qualsiasi considerazione ideale. Il protagonista
Paul Börner è un adolescente tedesco chiamato a combattere sul fronte delle Fiandre,
senza nessuna propensione guerresca. La sua storia lo porta alla presa di coscienza
dell’inutilità della lotta, perché persino i vincitori risulteranno segnati per sempre
dalla violenza subita e dalla lunga attesa della morte. L’esperienza più drammatica
del giovane soldato è raccontata quasi alla fine del romanzo, ed è quella
dell’uccisione di un nemico non odiato: la sua lunga agonia fa capire a Paul che, se
scamperà, dovrà combattere contro chi ha tolto la vita non soltanto a chi è morto, ma
persino a chi sopravvive. E l’inconscio tenta di placare il senso di colpa suggerendo
l’immedesimazione con il defunto, in modo da farlo simbolicamente rivivere. Ma
proprio a pochi giorni dall’armistizio, Börner è ucciso da una granata. Un
avvenimento insignificante per il bollettino di guerra che recita: “Niente di nuovo sul
fronte occidentale”.
23
E’ un modo di concepire la guerra che, non a caso, si radicherà fortemente
nella cultura popolare.
21
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 47.
22
Si noti che, pur essendo nato in Germania, lo scrittore era di origine francese, e ciò provocò in lui
immediate ripercussioni morali durante lo scontro fra i due paesi.
23
Casadei, Alberto, op. cit., pag. 48-50.
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Dal rifiuto della guerra macello, che si esprime contro i ripetuti attacchi a
Gorizia (nella omonima canzone, maledetta “per ogni cuore che sente coscienza” a
causa dei morti che ha provocato), alla “Ballata di Piero” di Fabrizio de André e fino
alle parole visionarie di Bob Dylan.