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“Ancora” perché dopo qualche anno dalla caduta del muro di Berlino e
dal collasso dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale con la
formazione di governi non comunisti, il dibattito si è lentamente spento.
La mia tesi parte dalla premessa di fondo che se esiste una data dopo la
quale è unanimemente possibile affermare che “nulla è stato più come prima”,
questa è la data della Rivoluzione d’Ottobre, il 25 Ottobre 1917.
La storia ci offre un’immensa quantità di materiale da analizzare
riguardo al primo tentativo significativo, sia per apparato teorico che per durata
cronologica, di trasformazione rivoluzionaria e consapevole della società verso
il modello ideale tracciato da Marx nei suoi scritti, verso una nuova idea del
mondo e dei rapporti sociali, verso quel che Marx, in una lettera a Ruge del
settembre del 1843, chiama il “sogno di una cosa”, che è il sogno della
realizzazione di un mondo realmente umano perché emancipato da ogni forma
di oppressione e sfruttamento.
L’obiettivo che con questa tesi mi pongo, mediante il valido aiuto di
saggi di autorevoli autori, citati in bibliografia, che si sono occupati
dell’argomento, è quello di individuare la nascita e lo sviluppo di questa
rivoluzionaria idea che è alla base del pensiero di Marx, e di mettere in
relazione il contenuto di questa osservazione con la storia dello sviluppo della
società socialista sovietica attraverso le congiunture che ne hanno segnato
l’evoluzione, dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 sino alla sua definitiva
dissoluzione nel 1991.
Metodologicamente seguirò tre linee direttive che sono al contempo dei
presupposti teorici:
1. Analizzare il pensiero di Marx, conoscere quanto egli ha detto,
ossia ciò che si trova scritto nelle sue pagine, sulla base
dell’impressione che Marx sia, o sia diventato, uno di quegli
autori più criticati che conosciuti; considerando al contempo
l’accezione autentica del suo pensiero che vede la realtà come
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realtà aperta, attiva, perennemente in divenire, interagente con
l’apparato teorico, e non passiva di uno sviluppo deterministico.
2. Considerare il segmento di storia russa, definita con
l’espressione: “socialismo reale” per ciò che esso è realmente
stato, osservandone attentamente portata, valenza e presupposti
teorici. Mi avvarrò degli scritti dei suoi principali protagonisti
politici, ovvero Lenin e Stalin, e di vari saggi ed opere critiche
sull’argomento.
3. Mettendo in parallelo, con le dovute attenzioni, le due analisi,
valutare i punti di contatto e di divergenza tra la teoria marxiana
e l’esperienza russa al fine di valutare se nel caso dell’URSS si
può effettivamente parlare, come si è fatto, di “comunismo” o se
occorre avanzare nell’analisi per valutare che cosa essa è
realmente stata.
Il termine “comunismo” incute a tutt’oggi una certa soggezione che
colpisce tutte le parti politiche anche se con atteggiamenti diversi:
demonizzazione, cieca fede, analisi critica. Gli anticomunisti si avvalgono
della demonizzazione come utile strumento politico e di facile impiego
propagandistico, condannando senza appello teoria e pratica. La sconfitta
dell’esperienza sovietica anziché porre fine all’anticomunismo sembra averlo
alimentato tanto che gli attacchi che non possono essere più, ovviamente,
rivolti allo Stato socialista, interessano ora, con accuse alquanto generiche,
Marx stesso, come il filosofo che lo ha ispirato.
L’atteggiamento di cieca fiducia, che impedisce di mettere in
discussione gli eventi passati, così come quello di “perdita di memoria”, tipico
di ex comunisti pentiti, che non vogliono rivangare un passato più o meno
scomodo, sono ugualmente sterili, perché acritici, e non possono fornire alcun
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significativo contributo alla comprensione della vicenda sovietica nel contesto
storico del XX secolo né dal punto di vista della conoscenza, né dell’analisi.
Ovviamente coloro che si avvicinano con un atteggiamento di critica, di
volontà di comprendere, sono gli unici a poter dare un apporto rilevante;
tuttavia, spesso, le loro opere, confinate nell’ambito accademico, hanno scarso
eco.
Così, nell’accezione comune il termine “comunismo” è sinonimo di
un’economia centralizzata con il controllo statale delle industrie, della
proprietà privata, dei flussi monetari, degli scambi e dei prezzi; una società che
non garantisce la libera espressione dell’individuo e che livella ogni
caratteristica personale; la società dell’eguaglianza nella miseria.
Questo concetto è assai lontano dal sistema di nuovi rapporti sociali
basati sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione ritratta da Marx, ed
anche da Lenin, nei rispettivi scritti.
Anche la più generica lettura dei testi di Marx ci svela come la sua idea
di “comunismo” sia dissimile, discordante da quello che gli ideologi
brezneviani coniarono alla fine degli anni ‘70 con il termine di “socialismo
reale” o “realizzato”. Le dissonanze sono evidenti. Del resto l’attuazione
pratica di una teoria che pure nasce proprio dall’analisi della realtà stessa,
difficilmente in condizioni reali può realizzarsi tout court e questo vale in
special modo per la Russia, essendo una nazione con caratteristiche talmente
differenti rispetto alle nazioni verso le quali Marx volgeva la sua analisi e le
sue previsioni, da rendere assolutamente necessario un suo “stravolgimento”.
Un argomento più interessante è, per tale motivo, quello di vedere in che
misura le società socialiste del XX secolo, ed in questo caso particolare
l’URSS, si siano avvicinate o protese verso quel tipo di “comunismo” che
prevedeva un nuovo modo di produzione; esaminare se, nonostante le varie
problematiche interne ed esterne il Partito bolscevico, detto poi comunista, si
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sia mosso per lo meno programmaticamente verso la realizzazione di una
nuova società, o al contrario, se la strada intrapresa mirava ad altro.
Questo “percorso” mi sosterrà nello sviluppo della mia tesi secondo cui
l’intera storia del marxismo dopo Marx è in realtà la storia di vari marxismi e
di una serie ininterrotta di ondate revisionistiche.
Il “socialismo reale”, per raggiungere la sua efficacia pratica, ha dovuto
pagare il prezzo di mutare se stesso al punto tale da apparire irriconoscibile
rispetto alle sue premesse originarie e dando luogo, nel corso del suo sviluppo,
a una serie di varianti che lo rendono profondamente differente rispetto alla
teoria che lo ha ispirato.
La domanda che è sottintesa è se la lettura di Marx, dei suoi scritti,
abbia un valore intrinseco ed indipendente dal risultato storico dell’esperienza
socialista russa e se essa oggi sia ancora utile e necessaria.
Leggere Marx dopo il 1989 non significa avvicinarsi ad un pensiero
utopico che non ha retto il confronto con la realtà. Esso ha certamente ricoperto
il ruolo di legittimazione teorica del sistema politico sovietico ma non è
crollato assieme ad esso e mantiene una sua propria valenza.
Il pensiero di Marx, proprio perché “aperto”, può ed ha potuto, in
passato, essere variamente interpretato, ciò perché all’interno della sua teoria si
possono individuare dei nodi problematici, delle letture irrisolte ed anche delle
contraddizioni, suscettibili di varie possibili interpretazioni.
Marx da una parte afferma che la classe operaia rappresenta la prima
forza storica in grado di autoemanciparsi, sottraendosi al dominio della
minoranza, ma dall’altro che essa non può compiere la propria opera senza
sottomettersi alla “scienza rivoluzionaria” di cui era portatrice l’avanguardia,
ossia il partito. Il primato rivoluzionario spettava quindi alla classe in quanto
forza economico-sociale o all’avanguardia in quanto forza politico-ideologica?
Si potevano conciliare autorità e partecipazione, direzione e consenso? Era
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possibile scongiurare il pericolo dell’eccessiva burocratizzazione dello Stato ed
al contempo frenare le tendenze disgregatrici di stampo anarchico?
Marx aveva da un lato affermato che per mutare qualitativamente la
struttura economica della società capitalistica occorreva passare attraverso la
dittatura del proletariato, ovvero attraverso un forte rafforzamento del potere
centrale al fine della distruzione della macchina statale preesistente, dall’altro
però aveva teorizzato che lo Stato proletario doveva smantellare tutto
l’apparato centralistico ereditato realizzando la democrazia diretta e quindi
ponendo le premesse per la propria autoliquidazione. Ma era pensabile che si
realizzasse? Se il tratto caratteristico del centralismo era il fatto di essere
strumento necessario per il mutamento sociale e di salvaguardia della
rivoluzione contro i nemici interni ed esterni, secondo quali modalità ed in
quale momento del processo esso avrebbe dovuto lasciare il posto
all’autogoverno?
E per quanto riguarda il concetto di “dittatura del proletariato”, inteso
come “periodo di transizione”, si poteva conciliare l’incertezza,
l’imprevedibilità della sua durata con il mantenimento della sicura certezza di
un futuro passaggio alla fase comunista?
I dirigenti del Pcus si mostrarono molto preoccupati dall’eterno
procrastinarsi dell’ingresso nella fase comunista e temevano il distacco
ideologico da parte delle masse, tanto da porre l’accento continuamente, nei
loro discorsi, al carattere incipiente del passaggio. Chruščev accrebbe
moltissimo l’illusione della popolazione quando, durante il XXII Congresso
del partito, nel 1961, dichiarò: “questa generazione di sovietici vivrà sotto il
comunismo” e indicò, in modo del tutto irreale, nel 1980 la data in cui l’URSS
sarebbe entrata finalmente nella fase comunista raggiungendo e superando gli
Stati Uniti sul piano economico.
1
1
Cfr. Medvedev, Roj, Dal XX al XXII Congresso del Pcus, in AA.VV. Dissenso e socialismo. Una
voce marxista del Samizdat sovietico, Einaudi, Torino, 1977, pp. 59-60.
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Marx aveva da un lato configurato la rivoluzione come premessa di un
pieno sviluppo della personalità dell’individuo, della sua libertà di scelta e
della sua progettualità, ma dall’altro sottolineato che una delle caratteristiche
fondamentali del socialismo è la sottomissione del particolarismo individuale a
favore della razionalità sociale, della collettività. E chi poteva ergersi a
soggetto della razionalità collettivistica? Chi avrebbe potuto assumere il ruolo
di soggetto della pianificazione: il proletariato come classe o l’élite dei
politici?
Marx da un lato afferma che la violenza rivoluzionaria costituisce un
mezzo necessario e indispensabile per assicurare il trapasso dalla vecchia
società alla nuova, ma dall’altro che la maturità delle condizioni rivoluzionarie
avrebbe reso del tutto obsoleta, nel quadro dello scontro fra la grande
maggioranza dei proletari e la piccola minoranza degli sfruttatori, la
sanguinosa violenza tipica di tutte le rivoluzioni precedenti. Quindi la violenza
fisica era o non era un mezzo idoneo per il sovvertimento sociale e
l’edificazione del socialismo?
Marx da un lato sostiene che la rivoluzione socialista sarebbe stata, in
conseguenza della natura dell’economia moderna, figlia del capitalismo stesso,
dall’altro però aveva energicamente incoraggiato il proletariato di ciascun
paese ad operare nel proprio contesto storico statale, nazionale e sociale, sia
pure nel quadro dell’Internazionale operaia. E certamente era dell’avviso che
qualsiasi proletariato sarebbe stato in grado di prendere il potere in un certo
momento storico e in un certo paese, operando con la massima energia per
mantenersi al potere e per promuovere attivamente lo scoppio della rivoluzione
internazionale. Questo secondo l’esempio del contagio rivoluzionario
internazionale messo in luce dalle esperienze della Rivoluzione Francese.
Nel caso specifico russo post-rivoluzionario, è su questi nodi
problematici che si andranno ad innestare e sviluppare delle rilevanti
contraddizioni politiche e sociali, alcune delle quali nate nel contesto
11
rivoluzionario, ed altre già presenti all’interno del tessuto sociale russo e
risalenti al periodo dell’autocrazia zarista. Queste antinomie, che vanno
mutandosi nel corso dell’esperienza sovietica e che sono state talvolta
alimentate e talvolta indebolite dalle varie leadership di partito, sono
essenzialmente quattro: il contrasto tra operai e contadini, lo sbilanciamento di
potere tra Partito bolscevico e Soviet, il conflitto tra nazionalità russe e non
russe e tra l’URSS e l’imperialismo mondiale.
Da un punto di vista più generale, su questi diversi aspetti interni al
pensiero di Marx si sono introdotti i vari “marxismi” con un ininterrotto
processo di continuità e di rottura, di adattamento e di selezione, di fedeltà alla
tradizione e allontanamento innovativo da essa.
Si possono individuare due principali correnti revisionistiche del
marxismo, nate in relazione a due principali situazioni economico-politiche.
Nei paesi ricchi, tecnologicamente sviluppati che seguono la via dello
sviluppo in senso capitalistico, il marxismo ha messo da parte il tema della
rivoluzione e si è indirizzato verso la via delle riforme. Il rapporto tra masse ed
avanguardia si è sbilanciato nel senso del partito, che assume la funzione di
rappresentanza degli interessi della popolazione, mediante le fazioni politiche
ed i movimenti sindacali. Questo avviene ad esempio nel caso della
socialdemocrazia tedesca,e trova legittimazione nelle teorie di Bebel e
Kautsky. Lo sviluppo della democrazia politica si è unito allo sviluppo
economico, conferendo al movimento dei lavoratori il carattere di soggetti
riconosciuti del sistema politico e sociale.
Il marxismo “rivoluzionario” ha invece attecchito nei paesi arretrati,
sottosviluppati, e non ancora giunti alla fase del capitalismo, quei paesi verso i
quali non era indirizzata, per ammissione dello stesso Marx, l’analisi compiuta
ne Il Capitale, né la previsione della rivoluzione in senso socialista, quegli
Stati dove le masse popolari sono rimaste sottomesse a classi dominanti che
non le hanno mai riconosciuto dei diritti. In questo caso le opere di revisione
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non hanno riguardato il tema della rivoluzione ma non sono certamente state di
minore intensità. Ad esempio nel caso russo, oggetto del mio esame, Lenin
prima e successivamente Stalin ritengono necessario operare delle “varianti” in
conformità alla particolare situazione economica, sociale, politica russa.
Le riflessioni di Marx hanno avuto degli effetti pratici di tale portata, da
far sì che milioni di persone decidessero di dare forma a realtà politiche e
sociali che si richiamano al suo pensiero.
Certamente, come scrive Heinrich Heine, al pari dei marxisti sarebbero
potuti esserci: “kantiani che non vogliono sentire parlare di pietà, neppure nel
mondo fenomenico, e che sconvolgeranno selvaggiamente con la spada e con
l’ascia il terreno della vita europea…o fichtiani armati il cui volontarismo
egoistico non potrà essere frenato né dal timore né dall’egoismo […] ma
peggiore di tutti il filosofo della natura […] che sarà terribile perché sa entrare
in contatto con le potenze primordiali, sa evocare le forze demoniache del
panteismo”
2
.
Ogni filosofia implica una certa visione del mondo, e questo come
risposta ad un’innata esigenza dell’essere umano; quella di Marx però, a
differenza di molte altre, ha convinto milioni di persone in tutto il mondo ed è
indubbio che non ci siano tanti kantiani o fichtiani quanti marxisti.
Questo per diversi motivi. Marx si è fatto interprete del senso del
periodo storico in cui egli vive, scrive utilizzando le categorie dell’economia
politica classica, rivolto agli intellettuali, ed alla classe operaia nei paesi della
rivoluzione industriale ma contemporaneamente a tutti gli esseri umani perché
il suo linguaggio come il suo messaggio è universale.
Il pensiero di Marx comprende tutte le grandi idee dell’epoca in cui egli
scrive: l’idea di rivoluzione come produttrice di felicità ed eguaglianza; l’idea
della possibilità di un progresso materiale illimitato, fondata sulla fede nel
2
Heine, Heinrich, La Germania, Laterza, Bari, 1972, p. 313.
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processo di industrializzazione e sulla convinzione di poterne annullarne i
difetti dovuti alla forma capitalistica; l’idea della potenziale fraternità del
genere umano; l’idea che la rivoluzione proletaria moderna potesse essere
opera soltanto delle masse proletarie, fondata sugli insegnamenti delle
rivoluzioni moderne e dei loro sviluppi in Inghilterra e in Francia; l’idea che
l’incontro tra rivoluzione, masse proletarie ed intellettuali socialisti potesse
condurre l’umanità al raggiungimento di quell’armonia fra singolo e
collettività, Stato e Stato, nazione e nazione, che aveva costituito il perfetto
sogno di tutti coloro che avevano desiderato la pace universale, la fine della
miseria materiale, la felicità collettiva.
Ciò che andrebbe recuperato è la fede, la convinzione e la passione che
accompagna l’idea del rifiuto e della trasformazione di un mondo che lede ed
offende la dignità della maggior parte degli esseri umani. Ciò che senza dubbio
può e deve essere recuperato e valorizzato della teoria marxiana, perché
sempre valido ed attuale, è il suo potenziale critico nei confronti della nostra
condizione.
Molte delle aspirazioni che Marx esprime nella sua opera più conosciuta
e diffusa, il Manifesto del Partito Comunista, sono state oggi realizzate nei
paesi “capitalistici” e sono quindi divenute patrimonio comune dell’Occidente.
Mi riferisco all’abolizione del latifondo, all’imposizione fiscale
progressiva riconosciuta solennemente dalla nostra Costituzione, al controllo
statale di istituti di credito e di trasporto, al diritto al lavoro ed all’educazione
obbligatoria, all’abolizione del lavoro minorile. Nell’epoca dei nazionalismi
ottocenteschi il Manifesto incita all’internazionalismo con il motto: “Proletari
di tutti i paesi, unitevi!” e forse preannuncia l’importanza odierna per i legami
internazionali, e per le istituzioni che uniscono movimenti, sindacati, popoli,
Stati, governi.
Sbaglia chi parla di morte, di fine o crollo del comunismo come idea.
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Marx ha posto un’utopia dentro la storia e se le tendenze che aveva
proposto non si sono avverate resta valido il suo apparato valutativo ed il
potenziale critico della filosofia rispetto alla società capitalistica.
La critica di Marx alla società non è altro che la critica a un mondo che
ha bisogno di illusioni. Oggi è ancora così. Lo si vede nella perdita del senso
della realtà che tutti lamentiamo, nella volontà di evasione verso il virtuale,
nell’indifferenza, nell’atomismo, nel senso di frustrazione e impotenza.
La sensazione diffusa è che le cose non vadano bene e non si trovino
spazi adatti alla soddisfazione dei propri bisogni, tuttavia manca una speranza
progettuale tale da farci intravedere una possibilità di miglioramento futuro.
Resta viva la consapevolezza che il fallimento del socialismo russo non
coincida con la risoluzione dei problemi per risolvere i quali nacque il
“pensiero comunista” e si avverte la necessità e la speranza di affrontare quegli
stessi problemi con mezzi e strumenti nuovi. Non stiamo vivendo nel “migliore
dei mondi possibili” né siamo di fronte alla già teorizzata “fine della storia”,
percepiamo l’esigenza di modelli alternativi di trasformazione della società, ma
non si può far sì che l’“altro mondo possibile” resti uno slogan da corteo.
Se si mira ad una prospettiva futura in senso comunista o comunque non
capitalista, ed in ogni caso differente da quella attuale, non ci si può esimere
dall’analizzare l’esperienza sovietica e questo a prescindere dal giudizio che su
di essa si possa formulare.
Sappiamo che, da Marx in poi, tutto il socialismo rivoluzionario rifletté
sui fatti della Comune di Parigi, sottoponendoli ad uno studio minuzioso per
ricavarne preziose indicazioni per l’agire futuro.
Non solo ha un significato, ma è necessario e importante ragionare
sull’esperienza russa se ci sono ancora comunisti e marxisti che possono
applicare i loro strumenti teorici di comprensione della storia e che sentano la
necessità di rivendicare un’equa soddisfazione dei bisogni sociali, materiali ed
intellettuali di tutti gli uomini; se ci sono degli storici che vogliono porre fine
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al dilagante revisionismo che alimenta il disorientamento e l’incertezza; se si
vuole capire il significato del termine “comunismo”, nella teoria e nella prassi
storica; se si pensa che la “storia” senza la Rivoluzione d’Ottobre ed i suoi
lasciti si sarebbe risolta in conflitti intercapitalistici ed interimperialistici con
scarsa attenzione per le parti più deboli.
Se la sconfitta c’è stata, essa non costituisce in sé prova dell’erroneità o
della inattuabilità di idee, opinioni, programmi.
E questo perché la storia è fatta di conflitti che si risolvono con il
prevalere dell’una o dell’altra fazione, ma non necessariamente accade che
vinca chi ha ragione, spesso vince semplicemente e “materialisticamente” il
più forte. Con ciò non voglio sottendere che l’URSS sia crollata soltanto per
debolezza. Nel caso dell’esperienza storica russa la disfatta è stata
accompagnata dai segni di un fallimento che non dipendeva soltanto dalla
forza dell’avversario, esso è stato determinato da un processo in cui le finalità
progettate sono risultate stravolte, e in parte negate, da un intreccio complesso
di necessità imposte dall'esterno ma anche di limiti politici, culturali, teorici e
di deformazioni connesse all'esercizio del potere statale.
Alla luce della teoria marxiana che vuole sancire la fine della filosofia
come interpretazione del mondo, si legge nella XI tesi su Feuerbach “I filosofi
hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di
trasformarlo”
3
. Tenterò di fare un bilancio dell’esperienza sovietica per vedere
quali sono i punti di contatto e le divergenze rispetto al pensiero originale di
Marx e per capire se l’esperienza russa si può dire comunista.
3
Marx, Karl, Tesi su Feuerbach, in Marx Karl , Engels, Friedrich, La concezione materialistica della
storia, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 52.
16
CAPITOLO I
ANALISI DELLA NASCITA E DELLO SVILUPPO
DELL’IDEA DI COMUNISMO IN MARX
L’operaio ha fatto tutto; e l’operaio può
distruggere tutto, perché può tutto rifare.
(un lavoratore italiano)
1. Introduzione
Collocare l’opera di Marx nella storia della filosofia contemporanea
presenta alcune evidenti difficoltà. Da una parte, gli effetti storici e politici del
marxismo hanno avuto, per più di un secolo, una portata che va ben oltre
l'ambito della storia delle idee e che spesso si allontana notevolmente dalle
stesse teorie marxiane. Nel nome di Marx si è sviluppata la maggior parte delle
lotte e delle organizzazioni politiche operaie nei paesi occidentali; marxiste si
sono definite, in modo più o meno legittimo, le rivoluzioni del nostro secolo,
da quella dell’Ottobre sovietico a molte altre del Terzo Mondo. Negli Stati
sorti da queste rivoluzioni, una particolare versione del marxismo è divenuta
dottrina ufficiale, rigida e dogmatica, imposta dall'alto nella forma di
un'ortodossia che non ammette discussione o dissenso. Tutto ciò è comunque
molto lontano dalle intenzioni e dallo stile teorico di Marx, come pure dalla
complessità e dalla ricchezza della sua opera.
D’altra parte, lo stesso Marx non si è mai ritenuto soltanto, né in primo
luogo, un filosofo. Il suo progetto è stato quello di costruire una teoria della
società capitalistica che fosse al tempo stesso una teoria della rivoluzione
socialista. Egli ha sempre considerato la propria ricerca scientifica strettamente
connessa alla missione storico-rivoluzionaria del proletariato e al proprio
impegno politico all'interno del movimento operaio.
17
Ciò nonostante, l'eredità teorica di Marx si estende molto al di là delle
vicende del movimento operaio ed è parte integrante del patrimonio di
riflessioni contemporanee sulla natura del mondo moderno, nato dalla
Rivoluzione Industriale.
Un'altra ragione per cui Marx non è soltanto un filosofo è la sua
concezione della società come totalità, come struttura complessa da analizzare,
simultaneamente, con gli strumenti dell'economia, della sociologia, della storia,
del diritto, della critica delle ideologie. Proprio a partire da Marx si afferma
l'abitudine a pensare la società in termini di sistemi di relazioni e di strutture,
un atteggiamento teorico ormai acquisito in molte correnti della sociologia e
della storiografia del Novecento.
Tra i meriti della filosofia di Marx non possiamo includere quello di
aver fornito ricette infallibili o istruzioni da poter seguire alla lettera per
ottenere un risultato annunciato. La sua opera, nel momento in cui si allontana
dall’analisi storica, è un documento di occasioni e di possibilità politiche e non
certo una dichiarazione di probabilità o di certezze.
Marx sa che “non è possibile elaborare un’immagine precisa di ciò che
si vuole realizzare perché solo il senso dell’opposizione all’esistente è
determinato, non la nuova forma che sarà il risultato dell’azione”
1
. Quella
dell’azione è una categoria sempre in corso che “può presentarsi solo alla fine
dei tempi, nel momento in cui il dominio dell’uomo sulla natura è in vista e
l’uomo è nella realtà storica ciò che è in sé, nel momento in cui si comprende
come libertà nel soddisfacimento”
2
.
Ciò che Marx ha tentato di realizzare, non solo nella sua opera di
filosofo ed economista, ma nella sua stessa attività politica, è
un’interpretazione dell’uomo e del suo mondo, dell’insieme dei rapporti
sociali, che sia al contempo un impegno di trasformazione di quella stessa
1
Weil, Eric, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani, Milano, Guerini, 1988, p. 258.
2
Ibid., p. 259.
18
realtà. Trasformazione alla quale l’uomo stesso perviene, non attraverso la
speculazione ma tramite l’azione criticamente illuminata e diretta.
Un’interazione di filosofia e politica che si risolve, mediante una sorta di
scambio delle tradizionali sfere di competenza, con la concretizzazione della
filosofia e la riflessione della politica.
Marx ci ha fornito un’analisi molto chiara della relazione tra l’essere
umano con la sua personalità e l’ambiente sociale; quest’analisi antropologica
è fondamentale per riuscire a comprendere la capacità innovatrice e
rivoluzionaria della filosofia marxiana.
L’essenza dell’uomo non è astratta, il suo essere è determinato nel suo
rapporto con gli altri uomini e con la natura che gli dà il sostentamento ed i
mezzi di sussistenza. Scrive Marx che “si possono distinguere gli uomini dagli
animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi
cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i
loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro
organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini
producono indirettamente la loro stessa vita materiale”
3
. E’ dunque attraverso
il lavoro come rapporto attivo con la natura che l’uomo è in un certo senso il
creatore di se stesso. Non solo per quanto riguarda la sua esistenza materiale,
ma anche del suo modo di essere come capacità di espressione di se stesso.
“Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la
riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi esso è già un modo
determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli
individui esternano la loro vita, così essi sono”
4
.
L’essere umano è effettivamente tale in quel rapporto attivo con la
natura e con la società che è il lavoro, o la produzione dei beni materiali.
3
Marx, Karl, Engels, Friedrich, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 8.
4
Ibid., pp. 8-9.