2
svalutazione), il creditore consegue un vantaggio economico, mentre il
debitore subisce una perdita.
Qualora si adotti invece un criterio valoristico nella
determinazione quantitativa della prestazione pecuniaria, l’ammontare di
questa sarà sensibile alle variazioni del potere d’acquisto della moneta,
perciò il debitore dovrà liberarsi con una somma maggiore o minore
rispetto a quella indicata nel titolo, a seconda che si sia verificata una
svalutazione o una rivalutazione della moneta. E’ chiaro che l’utilizzo di
un criterio valorista, in una situazione economica caratterizzata da
inflazione, tenderà a privilegiare le ragioni del creditore, sacrificando
quelle del debitore. Ovviamente vale il discorso contrario in caso di
rivalutazione della moneta.
Da queste considerazioni balza subito all’attenzione che il criterio
valoristico appare, dal punto di vista del rapporto tra le parti, più equo e
giusto rispetto al criterio nominalistico. L’applicazione di quest’ultimo,
in una realtà economica come la nostra caratterizzata da una persistente
inflazione, sacrifica l’interesse del creditore a mantenere immutato il
valore effettivo del proprio credito. E si può dire che tale interesse è
sacrificato ingiustamente. Appare infatti alquanto strano che il creditore,
favorendo il debitore con la rinuncia ad un pagamento in contanti, debba
subire un ulteriore pregiudizio derivante dalla svalutazione monetaria
intervenuta tra la nascita e la scadenza del debito.
3
Tuttavia, e specialmente in questa materia in cui diritto, economia
e politica economica sono strettamente correlati, una visione troppo
ristretta della problematica che si limiti a prendere in considerazione solo
il rapporto tra le parti e i loro interessi, rischia di essere fuorviante. Infatti
non sempre la soluzione che appare più equa in relazione al singolo
rapporto tra le parti, lo è anche nella prospettiva dell’ordinamento
considerato nel suo complesso, poiché in tale prospettiva viene in rilievo
l’interesse generale, che per essere perseguito efficacemente, può
richiedere il sacrificio di interessi particolari. Ed è appunto in quest’ottica
che ci si deve porre per comprendere i motivi che hanno portato
all’affermazione nel nostro ordinamento del principio nominalistico,
considerato superiore e preferibile rispetto al più equo criterio valoristico.
Prescindendo per ora dall’analisi del diritto positivo e dalla
problematica relativa alla ricerca di un fondamento giuridico del
principio nominalistico
1
, ne va innanzitutto ricercato il fondamento
politico-economico.
1
Vedi infra par. 3 e ss.
4
2. Il fondamento politico-economico.
In una economia sviluppata come quella moderna, il criterio
nominalistico di quantificazione della prestazione garantisce una
maggiore certezza nelle contrattazioni e sicurezza nei traffici rispetto al
criterio opposto. Gli operatori economici infatti, al fine di pianificare
efficacemente la propria azione sul mercato, hanno la necessità di
predeterminare anticipatamente e con certezza i costi che dovranno
sostenere
2
. Il principio nominalistico permette appunto al soggetto
economico di considerare le proprie obbligazioni pecuniarie come entità
costanti, senza che sul loro ammontare possano influire eventuali
mutamenti del potere d’acquisto della moneta
3
. Sotto questo aspetto tale
principio, oltre ad evitare un gran numero di controversie
4
, permette il
perseguimento dell’interesse superiore dell’economia nazionale, in
quanto la disponibilità di fattori di calcolo costanti, garantendo la
certezza delle contrattazioni, stimola la produzione. Questa convinzione
2
Cfr. E. Quadri, Principio nominalistico e disciplina dei rapporti monetari, I, Profili
generali, Milano, 1979, 70.
3
Cfr. la Relazione al codice civile, n°592, in cui viene sottolineata “l’esigenza razionale
della vita economica di raffigurare i debiti pecuniari come entità costanti e cioè di
ridurre a certezza l’entità economica di ogni debito”.
4
Cfr. A. Di Majo, Le obbligazioni pecuniarie, Torino, 1996, 58, il quale sottolinea le
difficoltà che incontrerebbe il giudice nello stabilire la misura della modificazione
dell’ammontare nominale dei debiti.
5
trova conferma nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha
sottolineato la corrispondenza del principio nominalistico “con le
esigenze di una economia sviluppata”
5
.
Il criterio nominalistico di quantificazione delle prestazioni
pecuniarie, oltre a incoraggiare lo sviluppo economico permettendo agli
imprenditori la programmazione della propria attività, assume anche un
notevole rilievo politico e sociale.
Occorre qui precisare che dal punto di vista storico,
l’affermazione del nominalismo è da mettere in relazione con la
formazione dello Stato moderno e il conseguente accentramento politico,
quale reazione alla polverizzazione del regime feudale. In tale processo
assunse sempre più importanza la sovranità dello Stato sulla moneta,
quale efficace strumento di politica economica. In particolare il principio
nominalistico, collegato ad una concezione cosiddetta “regalistica” della
moneta, trovò un autorevole sostegno nella dottrina del Pothier. Questi
infatti affermava, in relazione al contratto di mutuo, che “la nostra
giurisprudenza è fondata su questo principio, che nella moneta non si
considerano i corpi o specie monetarie, ma soltanto il valore che il
principe vi ha annesso. Le monete in specie non sono che il segno
pubblico di questo valore, che solo viene considerato… e perciò questo
valore egli (il mutuatario) si obbliga di restituire, e restituendolo adempie
5
Cfr. Corte Cost. 8 novembre 1979, n.176, in Foro it., 1979, 2814.
6
alla sua obbligazione, quantunque il principe abbia fatto qualche
cangiamento nei segni che lo rappresentano”
6
.
In relazione alla sovranità statale sulla moneta, la soluzione
nominalista, ancora oggi, garantisce l’efficacia di politiche di
svalutazione che perseguono l’obbiettivo di alleggerire il peso finanziario
gravante sulle categorie debitrici. Tali politiche infatti, per avere
efficacia, presuppongono l’insensibilità del credito alle variazioni del
potere d’acquisto della moneta. Esse infatti non produrrebbero alcun
effetto favorevole alla parte debitrice, se i creditori potessero invocare a
loro difesa l’applicazione di un criterio valoristico di quantificazione
della prestazione
7
. Ma anche nel caso di fenomeni inflazionistici che si
verificano indipendentemente dall’intervento statale in materia monetaria
(e basta pensare alle vicende monetarie durante i due conflitti mondiali),
il mantenimento della vigenza del principio nominalistico costituisce una
precisa scelta politica che influisce sul processo di redistribuzione della
ricchezza, avvantaggiando i debitori di somme di denaro.
In particolare il nominalismo, nel nostro sistema economico
caratterizzato da una fisiologica inflazione e basato sul credito finalizzato
alla produzione, tende ad avvantaggiare la classe imprenditrice. Infatti il
6
Cfr. J. R. Pothier, Trattato del contratto di Prestito di consumo, in Opere, Trad. it.,
Livorno, 1842, 231.
7
Cfr. A. Di Majo, Le obbligazioni pecuniarie, cit., 58.
7
continuo aumento dei prezzi delle merci, collegato alla rigidità dei costi
di produzione quale conseguenza dell’applicazione del principio
nominalistico ai debiti pecuniari assunti dalla classe imprenditrice,
permette a quest’ultima l’accumulazione di capitali
8
. Il reimpiego di tali
capitali stimola lo sviluppo economico e quindi il benessere generale.
Bisogna comunque sottolineare che al vantaggio ottenuto dagli
imprenditori per tale via, corrisponde una perdita subita dalla classe
risparmiatrice che può rivelarsi disastrosa in caso di forte inflazione.
In definitiva, i fenomeni monetari, e la loro incidenza in base alle
norme giuridiche applicabili, sono potenti fattori di modificazione della
struttura economica e dell’equilibrio di forze di un paese
9
. Proprio la
considerazione nominalistica delle obbligazioni pecuniarie consente ai
poteri statali, attraverso politiche inflazionistiche e deflazionistiche, di
realizzare un sistema economico in cui vengano salvaguardati gli
interessi dei gruppi sociali considerati meritevoli di tutela, e ciò avviene
inevitabilmente a discapito dei gruppi sociali titolari di interessi
contrapposti. Sotto questo punto di vista, il nominalismo viene
considerato uno strumento necessario per uno sviluppo “ordinato”
8
Cfr. E. Quadri, Principio nominalistico e disciplina dei rapporti monetari, cit., 73.
9
Cfr. T. Ascarelli, In tema di risarcimento dei danni di mora nei debiti pecuniari, nota a
Cass. 11 gennaio 1951, n.47, in Foro it., 1951, I, 164.
8
dell’economia, cioè indirizzato nella direzione voluta dallo Stato
10
. In
relazione a tale funzione dirigistica del principio nominalistico, le tesi
valoristiche costituiscono quindi il tentativo di neutralizzare l’intervento
dello Stato che attraverso manovre economiche e monetarie cerca di
influire sugli equilibri economici-sociali
11
.
Infine, da un punto di vista strettamente economico, il
nominalismo svolgerebbe l’importante funzione di fattore di stabilità
della moneta. Si ritiene infatti che l’applicazione di un criterio valoristico
ai debiti pecuniari porterebbe, attraverso il progressivo aumento del loro
ammontare nominale, ad una ulteriore perdita del potere d’acquisto della
moneta. In tal caso la valorizzazione opererebbe quale “volano
dell’inflazione”.
Contro tale opinione si è però osservato che se è vero che il
creditore riceve di più ottenendo la valorizzazione del suo credito, è vero
anche che il debitore viene a disporre di una corrispondente minor
quantità di denaro.
10
Cfr. E. Quadri, Principio nominalistico e disciplina dei rapporti monetari, cit., 81.
11
Cfr. E. Quadri, Principio nominalistico, in AA.VV., Dizionari del diritto privato, a
cura di N. Irti, 5, Diritto monetario, a cura di N. Irti e G. Giacobbe, Milano, 1987, 557.
9
In realtà la portata inflazionistica o meno della valorizzazione dei
debiti pecuniari deriva essenzialmente da chi viene, alla fine, a
sopportare il relativo aumento numerico della somma da pagare. Infatti
quando è lo Stato ad addossarsi un tale aumento, liberandone il singolo
debitore (di solito attraverso alleggerimenti di carattere fiscale), si
produrrà l’effetto inflazionistico, mentre ciò non avverrà qualora
l’aumento venga a gravare esclusivamente sul debitore
12
.
12
Cfr. E. Quadri, Principio nominalistico e disciplina dei rapporti monetari, cit., 102.
10
3. Il fondamento giuridico: la disciplina codicistica.
Il fondamento giuridico del principio nominalistico va
innanzitutto ricercato nella disciplina predisposta dal legislatore. Prima di
analizzare le disposizioni vigenti, è utile un accenno alla normativa
prevista nel codice civile del 1865, in particolare agli articoli 1821 e
1231.
L’art.1821 stabiliva che “l’obbligazione risultante da un prestito
in danaro è sempre della medesima somma numerica espressa nel
contratto”, e che anche in caso di “aumento o diminuzione delle monete
prima che scada il termine di pagamento, il debitore deve restituire la
somma numerica prestata”. Tale articolo, pur dettato in tema di mutuo,
era considerato di valenza generale e quindi applicabile a tutti i rapporti
obbligatori aventi ad oggetto una somma di denaro. L’art. 1231 stabiliva
che il risarcimento del danno da ritardo nell’esecuzione del debito di
denaro era limitato al solo pagamento degli interessi legali, escludendo il
risarcimento di un eventuale maggior danno da svalutazione. In tali
regole veniva riconosciuta la incontestabile vigenza del principio
nominalistico. Entrambe infatti sancivano, a carico del creditore,
l’irrilevanza delle oscillazioni del potere d’acquisto della moneta, e ciò
11
sia nel caso di un ordinario svolgimento del rapporto (art.1821) che nel
caso di mora del debitore (art.1231 )
13
.
Venendo alla normativa vigente, l’art 1277 1° comma del codice
civile stabilisce che “i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente
corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore
nominale”.
L’interpretazione di questa norma non è pacifica. Una parte della
dottrina
14
e la giurisprudenza
15
ritengono che attraverso di essa il
legislatore abbia inequivocabilmente ribadito la vigenza del principio
nominalistico nel nostro ordinamento.
Altri autori sostengono invece che l’art. 1277 c.c. non sancisce
direttamente il principio nominalistico, come sembra invece suggerire
l’inciso “e per il suo valore nominale”, ma si limiti ad individuare il
diverso principio del potere liberatorio della moneta per il suo valore
13
Cfr. A. Di Majo, Le obbligazioni pecuniarie, cit., 13.
14
Cfr. L. Mosco, Gli effetti giuridici della svalutazione monetaria, Milano, 1948, 49,
per il quale la regola del principio nominalistico “sta scritta in modo chiaro ed
inequivocabile” nell’art. 1277 c.c.
15
Cfr. Cass. 11 gennaio 1951, n.47, in Foro it., 1951, I, 163, secondo cui l’art.1277
dispone “che le oscillazioni eventuali del valore di scambio della moneta, durante il
termine del pagamento, non abbiano alcun riflesso sulla somma nominale risultante dal
titolo”.
12
nominale, peraltro già previsto dalla legge penale
16
. Questo consiste nella
facoltà riconosciuta al debitore di liberarsi pagando con qualsiasi specie
di moneta avente corso legale che sia nominalmente corrispondente alla
somma dovuta. In pratica il debitore obbligato a pagare 100 euro al
creditore si libera prestando pezzi monetari o banconote equivalenti a
100 euro (per esempio una banconota da 100 euro, o 100 monete da un
euro), facendo riferimento al valore nominale impresso su di esse. A sua
volta il creditore non può rifiutare il pagamento contestando lo strumento
utilizzato dal debitore per adempiere, se questo è moneta avente corso
legale e se il valore nominale impresso sulle monete coincide con il
multiplo o sottomultiplo della unità di misura legale dovuto dal debitore.
Il principio del potere liberatorio della moneta per il suo valore nominale
concentra la sua portata su un aspetto del denaro che riguarda la sua
qualità di mezzo di pagamento e, in particolare, il suo funzionamento è
riferibile esclusivamente ad un momento preciso del rapporto
obbligatorio, quello dell’estinzione, in cui si pone il problema della
qualità dei mezzi con cui effettuare il pagamento. Tale problema viene
appunto risolto dal legislatore il quale ha stabilito che nel ragguaglio tra
le unità monetarie dovute e gli strumenti di pagamento debba assumere
16
Cfr. l’art. 693 c.p. depenalizzato nel 1981, secondo cui “chi rifiuta di ricevere, per il
loro valore, monete aventi corso legale nello Stato, è punito con la sanzione
amministrativa fino a lire sessantamila”.
13
rilevanza il solo valore nominale impresso su di essi, non potendo quindi
il creditore rifiutare il pagamento nominalmente esatto, per motivi ad
esempio relativi al valore intrinseco degli strumenti utilizzati.
Problema diverso sarebbe invece quello che riguarda la quantità
della somma da offrire in pagamento, che si pone anch’esso al momento
dell’estinzione del debito, ma trova la sua “origine” al momento del
nascere del rapporto obbligatorio, e solo se vi è un lasso di tempo tra la
costituzione del debito e la sua estinzione, escludendosi dunque la sua
sussistenza nel caso di contratto con pagamento a contanti
17
. In questo
lasso di tempo è infatti possibile che la moneta subisca una perdita del
proprio valore reale (c.d. potere d’acquisto) pur mantenendo inalterato il
proprio valore nominale. E’ in relazione a questo aspetto che nel nostro
ordinamento si ritiene vigente il principio nominalistico, in base al quale
il debitore si libera dal proprio debito con una quantità di moneta
corrispondente a quella nominalmente dovuta a prescindere dalle
variazioni del suo potere d’acquisto. Tale principio dunque, a differenza
del principio del potere liberatorio della moneta per il suo valore
nominale, riguarda la determinazione della quantità di denaro da offrire
in pagamento, e non quello della qualità dei mezzi di pagamento.
17
Cfr. T. Ascarelli, Le obbligazioni pecuniarie, in Commentario del codice civile a cura
di Scialoja A. e Branca G., Libro quarto. Delle obbligazioni, Bologna, 1963, sub artt.
1277-1284, 176.