2
cambiamento. Benedetti e Scalfari chiesero ad Adriano Olivetti, il padrone
dell’omonima azienda di macchine per scrivere, di finanziare il loro
progetto, che era poi quello di creare un giornale per il mercato, che non
fosse come “Il Mondo” solo un giornale di gruppo rivolto ad un pubblico
d’élite. Olivetti era interessato, però chiarì che non poteva permettersi di
sostenere da solo tutti i costi e si impegnò quindi a cercare altri finanziatori,
fra cui Enrico Mattei, fondatore dell’Eni
3
. Mattei si dimostrò disposto a
stanziare una cifra superiore rispetto a quella di Olivetti o anche a farsi
carico interamente di tutte le spese da affrontare, ma Benedetti e Scalfari
ebbero qualche esitazione perché temevano di assoggettarsi ad un
padrone e di compromettere quindi l’indipendenza del giornale. Di fronte
all’impossibilità di trovare altri soci e dopo averci pensato a lungo, decisero
di accettare l’offerta di Olivetti, cioè quella di dare vita a un settimanale
invece che a un quotidiano, perché comportando costi minori avrebbe
potuto sostenerli. La spinta decisiva all’uscita dell’“Espresso” venne in
seguito a uno scandalo che coinvolse Gualtiero Jacopetti, il direttore di
“Cronache”: il suo arresto portò il proprietario, Roberto Tumminelli, a
liquidare il giornale e ad acquistare una quota dell’“Espresso”. Così i
giornalisti di “Cronache” e i fuoriusciti dell’“Europeo” iniziarono a lavorare
insieme sotto la direzione di Benedetti. La redazione originaria
dell’“Espresso” era così composta: Benedetti direttore, Scalfari direttore
amministrativo e redattore per l’economia, Carlo Gregoretti impaginatore,
Fabrizio Dentice, Enrico Rossetti, Sergio Saviane, Paolo Pernici, Mauro
Agatoni, Franco Lefèbvre, Marialivia Serini redattori, Lily Marx segretaria di
redazione. Il primo numero vendette oltre 100.000 copie, poi si assestò
sulle 60/70.000.
Benedetti e Scalfari scelsero “L’Espresso” come nome rifacendosi
all’“Express” di Jean-Jacques Servan Schreiber “che proprio in quel periodo
era diventato il giornale di punta della sinistra democratica francese”
4
. La
parola d’ordine di cui il giornale doveva tenere conto era “Anni sessanta”,
cioè socialismo, industria, libertà. Dedicarono molto tempo, con l’aiuto di
3
Mattei nell’aprile del ‘56 fondò “Il Giorno”, quotidiano finanziato dall’Eni e diretto da Gaetano
Baldacci.
4
E. Scalfari, La sera andavamo in via Veneto, Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1986, p.176.
3
alcuni collaboratori del “Mondo” come Mario Pannunzio (che ne era il
direttore) e Franco Libonati, alla scelta del menabò: scelsero il formato
lenzuolo sia per differenziarsi dagli altri settimanali, evitando così di rendere
possibile il confronto in termini di numero di pagine, sia per sottolineare la
somiglianza con il quotidiano, conferendogli l’aspetto di un giornale
politicamente impegnato. L’impiego di quel formato e del bianco e nero
(tratti caratterizzanti anche dell’“Europeo”) se da una parte allontanava la
pubblicità a colori e il pubblico medio-inferiore, dall’altra “richiamava il ceto
dei lettori impegnati, tendeva a diventare uno status symbol”
5
e aveva
come vantaggio il fatto di comportare costi piuttosto ridotti di carta e
stampa. Lo stile aggressivo che il giornale doveva avere trovò espressione
anche nel carattere tipografico utilizzato per i titoli, ovvero il “bastone”, che
faceva “macchia”, era semplice ed essenziale. Per quanto riguarda gli
argomenti trattati, la politica, le notizie e le inchieste ricoprivano le prime tre
pagine, in quarta pagina si trovavano commenti di collaboratori illustri sulla
politica interna e internazionale, e poi seguivano l’economia, l’attualità varia
e le cronache italiane fino all’ottava pagina, che dava invece inizio alla
parte dedicata alla cultura e agli spettacoli con rubriche affidate a nomi
prestigiosi. Il primo anno ogni numero contava in tutto sedici pagine,
diventate poi venti fino ad assestarsi il secondo anno sulle ventiquattro.
La grande novità dell’“Espresso” era l’economia, o meglio il nuovo modo in
cui veniva affrontata, tanto che Scalfari e Benedetti sono stati definiti gli
inventori del giornalismo economico. Infatti “L’Espresso fu il primo giornale
italiano [...] a seguire sistematicamente e giornalisticamente i fatti
dell’economia e della finanza”
6
cercando di far capire ai lettori la loro
essenza e descrivendo i protagonisti, i personaggi. Proprio per questa
necessità si è posto più volte all’inizio il problema del linguaggio da
impiegare e della collocazione dell’argomento all’interno del giornale, che
infatti è spesso cambiata, finendo però per trovare un suo spazio fra le
prime pagine.
5
Ivi, p.177.
6
Ivi, p.178.
4
Il sodalizio di Adriano Olivetti con “L’Espresso” non durò a lungo perché già
poche settimane dopo l’avvio del settimanale, a causa di alcuni articoli
scritti contro la Democrazia Cristiana, la Confindustria invitò le aziende
associate a boicottare le macchine per scrivere Olivetti, e a non acquistare
spazi pubblicitari sull’“Espresso”. Questo boicottaggio (a cui però non
aderirono FIAT, Montecatini, Pirelli, Snia, Eni e aziende dell’IRI) procurò
delle perdite all’azienda di Ivrea e destò una certa preoccupazione nella
famiglia Olivetti, che non aveva accettato molto volentieri l’avventura di
Adriano all’“Espresso”. Olivetti quindi era sottoposto a delle pressioni e a
sua volta premeva su Benedetti per un cambiamento di rotta. L’estate del
1956 trascorse cercando compromessi che però non andarono a buon fine,
infatti in un incontro dell’autunno fra Benedetti, Scalfari e Olivetti,
quest’ultimo, di fronte al rifiuto della sua proposta di nominare condirettore
Romano Bilenchi, decise di andarsene
7
. In realtà c’era anche un altro
motivo alla base del solco che si aprì fra Olivetti e “L’Espresso”, e cioè il
fatto che i due fondatori non accettassero di fare del giornale il portavoce di
“Comunità”, il movimento filosofico-culturale fondato da Olivetti nel 1947,
che conteneva “un misto di solidarismo cristiano, di residui del movimento
fabiano, delle teorie sull’azienda come nucleo promotore di progetti sociali
e, appunto, comunitari”
8
, e che fra l’altro intendeva trasformarsi in un
soggetto politico presentandosi alle successive elezioni.
Olivetti possedeva il 70% delle azioni della società editrice e al momento
della sua uscita regalò il 60% a Carlo Caracciolo, che divenne azionista di
maggioranza (avendo già il 10%), e divise l’altro 10% a metà fra Benedetti
e Scalfari
9
. A Tumminelli, lo stampatore, rimase il 20%.
Grazie alla presenza di Caracciolo (che rimase l’editore fino al 1974) e di
due manager come Gianfranco Alessandrini e Lio Rubini, “L’Espresso”
riuscì in pochi anni a diventare un’impresa giornalistica aggressiva.
7
Giancarlo Perna parla di “condirettore” mentre Scalfari accenna al ruolo di “redattore capo”.
8
E. Scalfari, La sera andavamo in via Veneto, cit., p.182.
9
E’ Scalfari a sostenere che le azioni di Olivetti furono divise a metà fra lui e Benedetti, mentre
secondo Perna a Benedetti ne spettarono di più.
5
“L’Espresso” nel 1956
“L’Espresso” ha fornito un’importante contributo al panorama della stampa
italiana: intorno ad esso e al gruppo di persone che vi lavorava si formò una
struttura d’opinione, si aggregò cioè l’opinione pubblica “liberal” del paese.
Questa “struttura d’opinione” “ha attraversato [...] la storia d’Italia degli
ultimi trent’anni senza mai venir meno alle proprie convinzioni e ai propri
radicati principi”
10
, ovvero l’indipendenza di giudizio, la lotta contro il
sistema di potere democristiano, la difesa delle minoranze, la disponibilità a
comprendere ciò che è diverso.
Nel generale conformismo dell’epoca, “L’Espresso” ha rappresentato una
novità soprattutto per la sua schiettezza e il coraggio di prendere posizione
in modo netto e anticonformista, costituendo un punto di riferimento per tutti
coloro che desideravano far emergere le disfunzioni della società italiana
per dare vita ad uno stato moderno, incorrotto ed efficiente.
Dal 1956 fino ai primi anni Sessanta il quadro economico e sociale italiano
mutò radicalmente e un nuovo tipo di società iniziò a sostituirsi a quella
tradizionale, in quanto anche l’Italia fu coinvolta nella crescita generale del
nuovo capitalismo europeo
11
. A fronte dei problemi nuovi creati dallo
sviluppo della società italiana corrispondeva però una sterilità del dibattito
politico, che non riusciva ad emanciparsi da formule e schemi ormai vecchi;
“L’Espresso”, “Il Mondo” e il gruppo dei liberal-radicali che li animavano
svolsero l’importante funzione di rinnovare i termini di quel dibattito,
costituendo un luogo dove le idee nuove che si agitavano nei partiti della
sinistra democratica potevano precisarsi e svilupparsi fino in fondo, senza i
timori e le compromissioni della vita di partito.
Nel dicembre 1955, dalla scissione dell’ala sinistra del Partito Liberale,
nacque il Partito Radicale
12
, formato da elementi democratici provenienti da
diverse esperienze politiche e diverse formazioni, che si pose come
10
I libri dell’Espresso, L’Espresso 1955-1980, Roma, Editoriale L’Espresso, 1981, p.14.
11
Sullo sviluppo economico italiano si vedano: G. Crainz, Storia del miracolo italiano: cultura,
identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Donzelli Editori, 1996 e E.
Caperdoni, Lo sviluppo economico italiano del dopoguerra, Venezia, Marsilio, 1968.
12
Sul Partito Radicale si vedano: G. Aghina, Storia del Partito Radicale, Milano, Gammalibri, 1977
e M. Del Bosco, I radicali e “Il Mondo”, Torino, ERI, 1979.
6
obiettivo principale la costituzione di un vasto schieramento politico che
comprendesse tutte le forze laiche e democratiche e costituisse una terza
via fra i due grandi partiti di massa, ossia la Dc e il Pci. “L’Espresso” non
divenne l’organo di quel partito, ma ne condivise l’impegno per l’effettiva
instaurazione dello Stato laico e liberale e le numerose battaglie condotte in
nome del progresso civile ed economico: nel ’56, ad esempio, pubblicò la
grande inchiesta di Manlio Cancogni “Capitale corrotta = Nazione infetta”
realizzata in seguito a un convegno degli “Amici del Mondo”
13
sul tema “I
padroni della città” e diretta contro le speculazioni edilizie della Società
Generale Immobiliare con la complicità degli amministratori democristiani
del comune di Roma, fra cui il sindaco Rebecchini. Tale inchiesta si
concluse, fra l’altro, con un processo a carico di Cancogni e Benedetti, che
in primo grado decise per l’assoluzione per insufficienza di prove, mentre in
appello sancì la loro condanna a otto mesi e a un’ammenda di 70.000 lire.
Fu comunque un’inchiesta importante perché il Parlamento, per prevenire
ulteriori speculazioni, ne dovette tenere conto nel preparare le nuove leggi
urbanistiche
14
.
Le grandi battaglie condotte dal gruppo del “Mondo” contro i monopoli, per
la libera concorrenza, per la riforma fiscale e la nominatività dei dividendi
azionari costituirono, soprattutto attraverso i convegni, una fondamentale
piattaforma programmatica su cui sorse il centro-sinistra agli inizi degli anni
13
Gli “Amici del Mondo” era un’associazione creata nel 1955 da Tullio Ascarelli, Francesco
Compagna, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Eugenio Scalfari e Bruno Visentini, avente come
scopo la realizzazione di convegni destinati a portare un determinato argomento al livello
dell’opinione pubblica, coinvolgendo anche forze politiche, economiche e culturali. L’associazione
aveva un gruppo di lavoro permanente, costituito da Pannunzio, Rossi, Piccardi e Scalfari,
incaricato di scegliere i temi da analizzare, e gruppi di lavoro specifici, che si creavano a seconda
del tema prescelto e dovevano occuparsene fino allo svolgimento del convegno.
14
Altre inchieste pubblicate nei primi anni furono: “I pirati della salute”, sulle truffe operate dalle
industrie farmaceutiche; “Il pentagono Vaticano”, che mostrò come dietro il Papa ci fosse il potere
di cinque cardinali; “I nipoti del Papa non pagano le tasse”, riguardante la legge ideata dal ministro
delle Finanze Andreotti che evitava ai nipoti di Pio XII di pagare le tasse; “Rapporto sul vizio”,
un’indagine alla vigilia della chiusura della case di tolleranza; “Avete mai provato a bere un
asino?”, sulle frodi alimentari; “Mafia e potere”, che mise in luce i legami fra mafia e uomini
politici in Sicilia e spinse il Parlamento a creare una commissione d’inchiesta; “L’Africa in casa”,
sulle condizioni di vita dei contadini del sud. Negli anni Sessanta sono da ricordare le inchieste sul
neocapitalismo, sulla corrente elettrica e sul golpe del Sifar che, svelando i retroscena del
complotto, mise in evidenza per la prima volta il ruolo pericoloso che avevano i servizi segreti nella
vita politica italiana e portò “L’Espresso” in tribunale contro il generale De Lorenzo.
Per un elenco completo delle grandi inchieste realizzate fino al 1980 si veda: I libri dell’Espresso,
L’Espresso 1955-1980, cit., pp.312 e segg.
7
Sessanta
15
. Attraverso i convegni i radicali individuarono e analizzarono a
fondo i principali problemi alla base dell’arretratezza italiana e indicarono
quelle soluzioni ritenute indispensabili per un rinnovamento radicale del
paese e che diventarono poi gli elementi più significativi del centro-sinistra.
“L’Espresso”, appoggiando tali soluzioni, contribuì alla crescita dell’opinione
pubblica, preparandola al grande incontro tra la Dc e i socialisti; non fu però
fin dall’inizio favorevole a una collaborazione dei socialisti al governo,
perché in un primo momento sperava che fosse possibile costruire
un’alternativa democratica, cioè uno schieramento delle forze laiche e
democratiche che, con l’apporto fondamentale del Psi, avrebbe potuto
rappresentare un’alternativa alla Dc. Tuttavia, una volta resosi conto che un
simile schieramento non avrebbe scalfito il predominio della Dc, se non
attraverso un’alleanza con il Pci (esclusa per motivi ideologici),
“L’Espresso” alla fine degli anni ’50 appoggiò l’idea del centro-sinistra, per
non ridursi a svolgere una funzione di mera protesta e preparare invece il
terreno per realizzare le riforme necessarie alla società italiana.
Comunque nel periodo che prenderemo in considerazione, il 1956,
l’obiettivo principale dell’“Espresso” era ancora quello della formazione di
una coalizione di partiti laici che riuscisse a togliere alla Dc il monopolio del
potere e al Pci quello dell’opposizione: un motivo ricorrente sulle pagine
dell’“Espresso” di quell’anno fu infatti l’invito rivolto alle forze di democrazia
laica e socialista ad unirsi, a costituire uno schieramento in grado di
frapporsi fra la Dc e il Pci. Gli avvenimenti internazionali del ‘56
contribuirono a rafforzare tale intendimento: il XX Congresso del PCUS del
febbraio e la pubblicazione del rapporto segreto nel giugno accelerarono,
infatti, il processo di sganciamento del Psi dal Pci, iniziato già qualche anno
prima con il varo della “politica delle cose” da parte di Nenni e con la messa
in discussione del Patto d’unità d’azione che legava i due partiti dal 1946.
15
Tra il marzo 1955 e il marzo 1964 vennero realizzati 11 convegni, che affrontarono argomenti
come la lotta contro i monopoli, la scuola, l’energia elettrica, i rapporti Stato-Chiesa, l’unificazione
europea, l’economia.
8
Le rivelazioni di Kruscev dei crimini staliniani provocarono una crisi grave
all’interno del partito comunista e spinsero anche i socialisti ad assumere
una posizione critica e a rivedere i termini del rapporto con i comunisti; di
conseguenza nel corso dell’estate si rafforzò l’ala autonomista del Psi
guidata da Nenni. Ma furono soprattutto le rivolte dell’Est europeo
dell’ottobre a mettere in luce le notevoli divergenze fra i due partiti e a
determinare il loro distacco. La prospettiva di un Psi finalmente
indipendente dal Pci portò “L’Espresso” a sostenere la centralità dei
socialisti all’interno dello schieramento da esso propugnato, e a battersi per
la riunificazione dei due partiti socialisti (Psi e Psdi) che si erano separati
nel 1947
16
.
L’incontro di Pralognan fra Nenni e Saragat rappresentò una tappa
importante del processo di riavvicinamento fra i due partiti socialisti e
“L’Espresso” accolse favorevolmente la notizia, ma senza farsi troppe
illusioni perché sapeva che tale incontro era soltanto un primo passo
compiuto nella direzione sperata, dal momento che i socialdemocratici,
insieme ai liberali e ai repubblicani, sostenevano il quadripartito.
La disapprovazione nei confronti del quadripartito è presente fin dai primi
numeri pubblicati, poiché “L’Espresso” riteneva che il centrismo fosse una
formula politica ormai priva di contenuto e incapace di adattarsi ai
cambiamenti in atto nella società italiana. Della politica centrista venivano
criticati soprattutto l’inefficienza, la mancanza di volontà nell’attuare le
riforme e l’immobilismo sociale ed economico, contrastante con lo sviluppo
generale del paese. Le critiche maggiori, come vedremo, erano rivolte alla
Dc, accusata in più occasioni di essere un partito troppo legato al potere e
ai privilegi che da esso derivavano: “L’Espresso” riteneva che l’opposizione
della Dc all’idea di un partito socialista riunificato e a un’eventuale
16
Il Psiup (Partito Socialista di Unità Proletaria), nato nel ’43, si divise nel ’47 con la scissione di
Palazzo Barberini in Psi e Psli (Partito socialista dei lavoratori italiani). Nel ’49 Romita, uscito dal
Psi, fondò il Movimento Socialista Autonomista, che insieme alla sinistra del Psli formò il Psu
(Partito Socialista Unitario). Nel ’51 il Psu e il Psli si fusero e dettero vita al Psdi (Partito
socialdemocratico italiano).
9
collaborazione con esso fosse dettata più dal timore di perdere la sua
posizione egemonica che non da ragioni ideologiche
17
.
“L’Espresso” non comprendeva neppure il motivo per cui i repubblicani e i
socialdemocratici restavano ancorati alla Dc e più volte rivolse loro l’invito
ad assumere una posizione chiara, uscendo dalla maggioranza
quadripartita e dando vita a quello schieramento democratico la cui
realizzazione era diventata più concreta da quando il Psi aveva preso le
distanze dal Pci, prima in merito alle rivelazioni dei crimini di Stalin, poi in
seguito ai fatti polacchi e ungheresi e infine con il Congresso di Venezia del
’57, che sancì il definitivo distacco fra i due partiti.
Un altro punto fermo della linea seguita dall’“Espresso” fu l’opposizione al
Pci, in particolar modo per incompatibilità etico-politica: i liberal-radicali
dell’“Espresso” ritenevano infatti che le masse dovessero essere inserite
nella vita dello Stato non scendendo a patti con il partito comunista ma
togliendo ad esso il consenso popolare con una coraggiosa politica di
riforme. “L’Espresso” manifestò la sua contrarietà alla politica del Pci
analizzando dettagliatamente le reazioni provocate in quel partito dal XX
Congresso del PCUS e dalla pubblicazione del rapporto segreto, e
l’atteggiamento tenuto da Togliatti, il quale mirava principalmente ad
attenuare e contenere i malumori e le proteste della base comunista che
per anni aveva vissuto nel mito di Stalin e che tutt’a un tratto aveva assistito
alla sua demolizione. “L’Espresso” in particolare denunciava la mancanza
di spirito critico e di autonomia di giudizio di molti comunisti e accusava il
Pci di seguire passivamente le direttive impartite dall’Urss. La critica più
dura rivolta al Pci, come avremo modo di osservare, fu senz’altro quella di
aver accettato l’interpretazione che i sovietici dettero della rivolta
ungherese dell’ottobre del ’56 e di aver, di conseguenza, appoggiato
l’intervento armato russo contro gli insorti. In tale occasione la presa di
posizione dell’“Espresso” fu molto chiara: difese i diritti degli insorti e
condannò l’intervento sovietico e tutti coloro che non si schierarono contro
17
Sulla Democrazia Cristiana e il centrismo si vedano: G. Galli, Storia della Dc, Roma-Bari,
Laterza, 1978; C. Giovannini, La Democrazia Cristiana dalla fondazione al centro-sinistra (1943-
1962), Firenze, La Nuova Italia, 1978; P. Possenti, Storia della Dc dalle origini al centro-sinistra,
Roma, Ciarrapico, 1978.
10
di esso. Concesse invece un ampio spazio agli interventi di quei comunisti
che si erano distaccati dal partito, come Onofri e Giolitti, e invitò in più di
un’occasione il Psi, il cui giudizio sulla crisi ungherese fu ben lontano da
quello del Pci, a farsi interprete dei comunisti delusi accogliendoli nelle sue
file. Per “L’Espresso, infatti, i comunisti che avevano preso le distanze dal
Pci dovevano entrare a far parte di quella coalizione politica che avrebbe
avuto il proprio perno nel partito socialista e per obiettivo la battaglia di
rinnovamento del paese.
In seguito alla crisi apertasi nel Pci, la costituzione di tale coalizione
sembrava ancora più vicina, in quanto erano emerse chiaramente le
differenze esistenti fra il partito socialista e quello comunista; inoltre un fatto
positivo fu l’uscita dei repubblicani dalla maggioranza quadripartita,
appoggiando alcuni provvedimenti ideati dai radicali. La riunificazione
socialista invece non si verificò nei termini auspicati, ma “L’Espresso”
continuò a premere in tale direzione, constatando che essa avrebbe
richiesto un tempo maggiore e modi diversi di attuazione, ritenendo tuttavia
che fosse comunque l’unica via percorribile per attuare le riforme che la Dc
e la destra economica avevano interesse a rimandare e che erano però
necessarie per la società italiana
18
.
Tuttavia, nonostante la crisi del governo Segni e la fine del centrismo, il
progetto dell’“Espresso” di costituire un grande partito socialista in grado di
ridurre la forza del Pci si rivelò illusorio perché alle elezioni del 1958 i
comunisti mantennero intatta la loro forza elettorale, dimostrando il loro
radicamento nella realtà del paese.
18
La riunificazione dei due partiti socialisti nel Psu (Partito Socialista Unificato) avvenne soltanto
nel ’66 e durò fino al ’69. In merito si veda: C. Rossi, F. Achilli, L’unificazione socialista, Milano,
Palazzi, 1969.
11
CAPITOLO 1: IL XX CONGRESSO DEL PCUS E LE SUE
CONSEGUENZE SULLA VITA POLITICA ITALIANA
1.1 Il dopo Stalin e il XX Congresso del PCUS
La morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, inaugurò un periodo nuovo
per l’Unione Sovietica, basato su una divisione dei poteri fra tutti i membri
del gruppo dirigente; già il 6 marzo venne liquidato il Consiglio segreto,
ovvero la segreteria personale di Stalin, e venne formato un nuovo
Praesidium
19
composto da sole dieci persone, in modo da renderlo più
funzionale, abbandonando così il sistema dei due organismi –praesidium e
ufficio politico- che era servito a Stalin per accrescere il suo potere
personale. Il sistema della direzione collegiale che si stava avviando
doveva basarsi su una separazione dei poteri, in modo che il governo, il
partito e il Soviet supremo avessero dei compiti ben precisi e differenziati:
la presidenza del Consiglio dei Ministri fu affidata a Georgi Malenkov;
Nikolai Bulganin, Kaganovic e Molotov divennero vice-primi ministri,
Lavrentij Berija ministro degli Interni, Kliment Voroscilov Presidente del
Soviet supremo e Nikita Kruscev il più importante dirigente del partito, ma
vista l’importanza maggiore attribuita al governo rispetto al partito, non si
poteva immaginare che nel giro di poco tempo si sarebbe verificata la sua
repentina ascesa. L’inizio del “disgelo” non si fece sentire solo nel gruppo
dirigente ma anche fra le masse, che misero in atto degli scioperi generali
in varie città, anche dei paesi satelliti, come a Berlino est, contro l’aumento
delle “norme di lavoro”
20
e la mancanza di derrate alimentari; solo
l’intervento delle truppe sovietiche, insieme alla revoca delle norme di
lavoro maggiorate, riuscì a stroncare tali scioperi.
19
Il Soviet Supremo era composto da due camere, il Soviet dell’Unione e il Soviet delle
Nazionalità, che detenevano il potere legislativo; all’interno del Soviet Supremo veniva nominato
un Praesidium, che aveva il potere esecutivo, e il cui presidente era nominalmente il Capo dello
Stato.
20
Le norme di lavoro erano delle quote di produzione che dovevano essere raggiunte da ogni
operaio.
12
Nelle prime riunioni la direzione collegiale cercò un accordo su diverse
questioni: decise di aumentare i salari e ridurre i prezzi al consumo, adottò
un decreto di amnistia per coloro che dovevano scontare pene inferiori a
cinque anni di carcere, riabilitò alcuni uomini accusati di complotto da Stalin
e in seguito anche altre vittime delle purghe staliniane, e, in tema di politica
estera, cercò di fare uscire il paese dall’immobilismo. Tuttavia nel giro di
poche settimane si aprì una frattura all’interno del gruppo dirigente e ebbe
inizio una lotta politica che portò poi alla concentrazione dei poteri nelle
mani del solo Kruscev.
“L’Espresso” pubblicò, nel giugno del ’56, un’indagine di Sandro De Feo
sulla destalinizzazione, che aveva ad oggetto il modo in cui Kruscev era
riuscito a prevalere all’interno della direzione collegiale: Malenkov, dopo la
morte di Stalin, gli affidò la guida del partito, forse perché riteneva di non
dover accumulare più cariche da solo, e Kruscev non si fece problemi a
mettersi contro di lui, facendosi portavoce di coloro che si sentivano
danneggiati dalle riforme ideate da Malenkov, cioè dell’esercito, contrario
alla politica dei beni di consumo a scapito dell’industria pesante, della
vecchia guardia staliniana, contraria alla distensione in politica estera, e
della polizia e del partito, contrari alla distensione interna. Kruscev sferrò il
primo attacco a Malenkov nell’ambito del Praesidium, ma visto che il capo
del governo non voleva arrendersi, propose di portare la questione davanti
al Comitato Centrale (C.C.) del partito. Era una novità perché con Stalin
tutto veniva risolto nell’ambito ristretto del Praesidium, composto da circa
dieci persone contro le 130 del C.C., ma se anche poteva sembrare un
modo di liberalizzare la vita interna del partito, in realtà, come affermò De
Feo, “era per Kruscev il modo più sicuro e rapido di decidere a suo favore
la questione del potere”
21
, visto che il C.C. era ormai composto da uomini di
sua fiducia, entrati in seguito alla destituzione o al trasferimento dei vecchi
funzionari. Per liberarsi di Malenkov, Kruscev si servì di Dmitrij Scepilov,
uno dei dottrinari più rigorosi del regime, il quale aveva il compito di trovare
le giustificazioni teoriche negli scritti di Marx e Lenin delle scelte politiche
21
S. De Feo, Tutti i capi in Russia sono uguali ma Kruscev è più uguale degli altri, “ L’Espresso”,
3 giugno 1956, n.23.
13
adottate: nel caso in questione, Malenkov fu accusato di deviazione
antimarxista per le sue idee favorevoli alla politica dei beni di consumo. Il
suo posto alla testa del governo fu assunto da Bulganin il 9 febbraio 1955,
ma sia lui che Kruscev non esitarono a riprendere la politica di Malenkov e
a mettere in atto alcune riforme, come l’annullamento dei debiti dei kolchoz
(le aziende collettive) e dei kolchoziani, l’aumento degli investimenti nelle
campagne e dei prezzi dei prodotti agricoli.
In seguito alla morte di Stalin ci furono importanti novità anche nell’ambito
delle relazioni internazionali, come il riavvicinamento alla Jugoslavia di Tito,
sancito dal viaggio di Kruscev e Bulganin a Belgrado, il riconoscimento
della neutralità dell’Austria e il sostegno alla Conferenza di Bandung dei
Paesi “non allineati”. Il fatto più ricco di conseguenze fu senz’altro il XX
congresso del PCUS (Partito comunista dell’Unione Sovietica), che ebbe
inizio il 14 febbraio 1956 nella Sala Bianca del Cremlino, alla presenza di
1424 delegati del partito e centinaia di rappresentanti dei partiti comunisti
stranieri
22
. Dopo il rito di apertura, il primo ministro Bulganin dette la parola
al segretario del partito Kruscev, il quale parlò per sette ore senza mai
nominare Stalin: trattò diversi argomenti quali la situazione internazionale,
l’evitabilità della guerra, la coesistenza pacifica e le vie verso il socialismo,
vale a dire la possibilità per ogni paese comunista di elaborare forme
originali di edificazione socialista che riflettessero le proprie particolari
condizioni storiche, economiche e sociali; solo nella parte finale del
discorso accennò al rispetto della legalità e alla costituzione che era stata
violata da una certa personalità.
Giuseppe Boffa, il corrispondente da Mosca dell’“Unità”, nel commento
all’intervento, riportò “ampi stralci del discorso del segretario del PCUS, ma
non un cenno al fatto più importante, ossia all’inizio ufficiale della
demolizione del mito di Stalin”
23
. Il primo a pronunciare il nome di Stalin fu il
delegato cinese Chu Teh, nella seconda giornata di congresso,
ricordandolo come un educatore dei comunisti; il giorno seguente
intervenne invece Anastasi Mikoian, accusando per la prima volta Stalin e
22
La delegazione italiana era composta, oltre che dal segretario del Pci Palmiro Togliatti, da
Scoccimarro, Bufalini, Cacciapuoti, Montagnana e da Vidali per il Partito comunista di Trieste.
23
F. Froio, Il PCI nell’anno dell’Ungheria, Roma, L’Espresso, 1980, p.16.
14
affermando che per venti anni c’era stata una direzione dispotica del paese
e del partito. Pure di questo intervento Boffa non dette notizie precise,
anche perché le sue corrispondenze venivano sempre concordate con
Togliatti, il quale stava già elaborando la strategia da tenere in Italia e
voleva quindi evitare dei grossi contraccolpi. Lo stesso Togliatti prese
parola il 17 febbraio e trattò dei problemi del socialismo, dei piani
quinquennali, della riduzione della giornata lavorativa; si soffermò in
particolare sulla situazione italiana e sui progressi del Partito comunista in
un paese capitalistico, ritenendo fosse giunto il momento di elaborare una
via italiana al socialismo che tenesse conto della storia e delle
caratteristiche del paese. Questo comportava, constatando la crisi
dell’egemonismo sovietico, il fatto di non dover considerare più l’Urss e il
PCUS come lo stato e il partito guida, dato che esperienze diverse non
potevano più essere unificate. Un altro intervento di rilievo fu quello di
Malenkov, ex braccio destro di Stalin, che denunciò il culto della personalità
e i gravi errori commessi negli anni staliniani. Si alternarono poi interventi
più o meno importanti fino al 24 febbraio, giorno di chiusura del congresso,
o meglio della sua parte ufficiale. Infatti, subito dopo, si tenne un’altra
riunione, a porte chiuse, alla quale parteciparono soltanto i delegati del
partito e che si caratterizzò per la critica di Kruscev al culto della
personalità e a i crimini commessi da Stalin
24
. “Un simile culto per un uomo,
e precisamente per Stalin, è stato diffuso tra di noi per molti anni” è una
delle prime affermazioni del rapporto segreto, che continua: “Stalin non
operava mediante una chiara spiegazione e una paziente collaborazione
con gli altri, ma imponendo le proprie vedute ed esigendo un’assoluta
sottomissione ai suoi voleri. Chiunque si opponesse a tali vedute o
cercasse di far valere il proprio punto di vista e la validità della propria
posizione era destinato ad essere eliminato dagli organi collegiali direttivi e,
di conseguenza, ad essere annientato moralmente e fisicamente. […] Fu
Stalin a formulare il concetto di “nemico del popolo”.
24
Come ha sostenuto Gruppi “la sua fu una requisitoria appassionata, violenta, ma da cui non
emergevano le ragioni per cui tali fenomeni avevano potuto prodursi, e per cui la direzione di Stalin
aveva trovato il consenso di tanti altri dirigenti sovietici.” (L. Gruppi, Togliatti e la via italiana al
socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1976, p.143)
15
Questo termine rese automaticamente superfluo che gli errori ideologici di
uno o più uomini implicati in una controversia venissero provati. Questo
termine rese possibile l’uso della repressione più crudele, in violazione di
tutte le norme della legalità rivoluzionaria, contro chiunque che in qualsiasi
modo fosse in disaccordo con Stalin, contro coloro che fossero appena
sospettati di intenzioni ostili, contro coloro che non godessero di buona
fama”
25
.
La critica continuava affermando che Stalin aveva ripudiato il metodo
leninista della persuasione e dell’educazione a favore della violenza statale,
della repressione di massa e del terrore, e che se i processi contro i
cosiddetti nemici del popolo si concludevano con una confessione
dell’accusato era perché questi veniva sottoposto a torture, ridotto a uno
stato di incoscienza e privato della facoltà di pensare. Il rapporto
proseguiva per pagine e pagine condannando l’azione di Stalin e il suo
essere troppo esaltato e sospettoso nei confronti di chiunque, per terminare
infine con un appello a tutti i compagni ad abolire una volta per tutte il culto
della personalità, combattendo ogni tentativo di ripristinarlo e rispettando il
principio fondamentale della direzione collegiale, caratterizzata dal rispetto
delle norme di vita del partito e da un’applicazione pratica della critica e
dell’autocritica.
Nei giorni successivi al Congresso furono distribuite diverse copie del
rapporto alle organizzazioni del partito perché potessero leggerlo, e “i
presenti venivano avvertiti del carattere straordinario e riservato della
riunione e delle ragioni per cui era vietato prendere appunti”
26
. In seguito
vennero organizzate assemblee per la lettura del rapporto nelle fabbriche,
nei ministeri, nei kolchoz, e in questo modo milioni di persone ne vennero a
conoscenza. La prima notizia ufficiale apparve il 16 marzo sul “New York
Times”, poi su altri giornali fra cui “L’Humanité” e lo jugoslavo “Borba”, che
“ne riferì i punti essenziali con ricchezza di particolari”
27
. Ma fu il “New York
Times” a pubblicare integralmente il testo il 4 giugno.
25
Kruscev accusa Stalin, supplemento all’“Espresso” del 10 e 17 giugno 1956, nn.24 –25.
26
A. Guerra, Il giorno che Chruščëv parlò, Roma, Editori Riuniti, 1986, p.80.
27
F. Fejto, Storia delle democrazie popolari. Il dopo Stalin. 1953-1971, Milano, Bompiani, 1977,
p.43.