IV
Le minoranze e maggioranze si scontrano sempre più spesso su tematiche quali i
diritti linguistici, l’autonomia regionale, le politiche per l’immigrazione, i programmi
educativi. La grande sfida per le democrazie contemporanee e per i teorici di politologia
consiste nel trovare delle soluzioni per questi problemi che siano moralmente
accettabili, ma anche politicamente praticabili. Inoltre, il trattamento delle minoranze
viene sempre di più considerato una questione non solo di politica interna, ma anche di
legittima sorveglianza da parte degli attori esterni.
Lo scopo di questo lavoro è analizzare lo sviluppo delle macropolitiche di uno
Stato post-comunista – la Repubblica Ceca - nei confronti delle sue minoranze etniche,
durante il periodo della transizione dal regime post-totalitario al regime democratico.
Particolare attenzione viene prestata alla minoranza Rom, in quanto rappresenta
un gruppo etnico molto diverso dagli altri non solo per il fatto di non avere uno Stato
d’origine, ma anche perché sono una comunità transnazionale, non-territoriale,
considerando inoltre che più di sette secoli di loro presenza sul territorio europeo non
sono stati sufficienti per completarne l’integrazione.
La questione delle macropolitiche per la regolazione della diversità etnica,
applicata in particolar modo al caso del Popolo Rom in Repubblica Ceca, verrà trattata
suddividendo l’analisi in quattro capitoli.
Il primo capitolo sarà dedicato all’analisi delle teorie esistenti che si focalizzano
sulla questione delle nazioni, delle etnie, delle minoranze e della loro interazione con lo
Stato. Si esaminerà poi anche la prassi internazionale riguardante la questione delle
minoranze. Nel secondo capitolo, attraverso l’esame del background storico e
dell’identità dell’etnia Rom, si risalirà alle cause della loro situazione attuale in Europa
centro-orientale, ponendo naturalmente un maggior accento sugli eventi occorsi nel
territorio che oggi costituisce la Repubblica Ceca.
Nel capitolo terzo si studierà la situazione generale in cui vertono le minoranze
etniche della Repubblica Ceca, e ciò sempre nell’ambito delle condizioni storiche che
hanno caratterizzato il periodo della transizione democratica. In particolare si
sottolineerà come, per tutt’un insieme di fattori, la posizione dei Rom si sia sempre
nettamente differenziata da quella delle altre minoranze presenti sul territorio.
V
Il quattro capitolo verrà riservato all’esame dei provvedimenti specifici presi
dalle autorità ceche per migliorare complessivamente la condizione dei Rom. Si noterà
come sia opinione comune che influenze e pressioni internazionali, esercitate sul
governo ceco, abbiano contribuito notevolmente a cambiare la realtà quotidiana della
minoranza Rom.
1
Capitolo I
Il concetto di minoranza etnica nel dibattito teorico, nel
diritto e nella prassi internazionali.
1.1. Dibattito teorico.
“Tutte le nazioni del mondo hanno le loro minoranze”: suona come una
condanna la frase di Gérard Chaliand (1993). Di fatto i due concetti: Stato-nazione
e minoranza, sono più legati di quello che possa sembrare a prima analisi. I
problemi delle minoranze, come li conosciamo oggi, derivano direttamente dallo
Stato-nazione. Solo con la nascita di quest’ultimo, con una definizione rigida delle
frontiere politiche e con l’avvenimento di un governo centralizzato all’interno del
territorio da queste frontiere definito, solo allora i popoli minoritari sono diventati
un “problema” che sembra, anche, irrisolvibile. E di conseguenza, le minoranze
lottano per avere i propri Stati-nazione sempre più piccoli che permettano loro di
difendere i propri diritti dalle non soddisfacenti strategie dello Stato-nazione
grande, dominato da una maggioranza
Nella vastissima bibliografia politologica che tratta il tema del
nazionalismo, delle nazioni ed del loro rapporto con lo Stato, si trovano
relativamente poche opere che trattino dei diritti delle minoranze. Diciamo che i
pensatori politici degli ultimi due secoli si sono occupati molto di problemi come la
legittimazione dello Stato, la formazione della nazione, della nazionalità,
dell’istituto di cittadinanza, ma meno della gestione delle differenze culturali.
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Nelle pagine seguenti vengono trattati solo alcuni aspetti di questo ampio dibattito,
utili ai fini dell’obiettivo di questa ricerca. Comunque vengono tralasciate le opere
del pensiero socialista poiché il marxismo classico pensa al conflitto etnico in
termini di conflitto di classe camuffato e crede che l’umanità trarrebbe solo qualche
vantaggio liberandosi dal pregiudizio del nazionalismo.
1
Per differenze culturali qui si intendono quei fenomeni che derivano dal fatto di appartenere a
diverse etnie, lasciando fuori dalla discussione tutte le problematiche delle diversità sociali che
possono dar luogo al linguaggio o ai tipi di comportamento più vari (come il femminismo, le
subculture giovanili, etc.).
2
Alcuni dei teorici comunisti hanno elaborato delle dottrine bendisposti nei
confronti delle minoranze,
2
purtroppo ben poco di ciò è stato realizzato: è vero che
nella Unione Sovietica è esistita la Repubblica Autonoma Ebrea, ma era nelle
vicinanze estreme del Gulag.
3
Anthony D. Smith nel suo ormai classico “Le origine etniche delle nazioni”,
pur elaborando un approccio diverso da quelli esistenti all’epoca, dedica comunque
dello spazio all’analisi delle virtù e dei limiti di queste teorie opposte alla sua, e
cioè alla teoria “primordialista” e quella “modernista”.
La teoria “primordialista” afferma che la nazione sia una caratteristica
altrettanto naturale della società umana come la famiglia e la lingua. Si danno per
scontate le divisioni nazionali, il nazionalismo, ed addirittura si giustifica
l’aggressività verso le persone diverse (Barbu 1967); la nazione viene considerata
come una costante anche quando ci si rende conto del cambiamento delle sue forme
nel tempo e nello spazio. La posizione più complessa è quella di Armstrong dove
l’etnia e la nazione sono viste come interscambiabili e strettamente connesse, come
un insieme di percezioni, consuetudini e sentimenti sia del carattere religioso che di
classe, ma lo spartiacque storico presentato dal nazionalismo che distingue le
nazioni premoderne da quelli postmoderne (Armstrong 1982). Alcuni eventi alla
fine del XX secolo mettono in discussione queste convinzioni: come, ad esempio, si
possano assimilare unità sempre più piccole, come le “tribù” africane, all’interno
del concetto europeo classico di nazione. Dall’altra parte, la nascita delle grandi
organizzazioni sovrastatali, delle imprese multinazionali le quali minacciano
l’esistenza stessa dello Stato-nazione, mette in dubbio anche la teoria dell’eternità
delle nazioni.
La visione “modernista” delle nazioni e del nazionalismo di Gellner
presenta le nazioni ed il nazionalismo come fenomeni esclusivamente moderni,
legati alla comparsa dello Stato-nazione e della società di massa.
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“Una nazione ha il diritto di decidere liberamente il suo destino. Ha il diritto di organizzarsi come
le aggrada, naturalmente senza calpestare i diritti delle altre nazioni. Questo è fuori discussione.” (lo
scritto di Stalin J. che risale al 1913, Stalin J., 1955)
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“Nacque così (1934) la regione autonoma degli Ebrei, situata nell’Estremo Oriente sovietico al
confine con la Manciuria. Questo territorio, con capoluogo Birobidžan, non fu in realtà mai
occupato da una maggioranza di Ebrei, i quali continuarono a vivere con il resto della popolazione
delle varie repubbliche. Su quasi due milioni di Ebrei sovietici alla fine degli anni Cinquanta,
soltanto 100.000 vivevano nella regione autonoma, che per il resto (90% della popolazione) era
abitata da Russi pur avendo lo jiddish come lingua ufficiale” (Toso 1996:388).
3
Lo Stato è visto dall’autore come “innanzitutto, il protettore non di una fede
ma di una cultura, il garante di un sistema educativo standardizzato e
inevitabilmente omogeneo” (Gellner 1992: 125).
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La nazione, intesa come cultura,
viene imposta agli individui di una società in cui in precedenza dominavano culture
inferiori. Le unità (gli Stati) che il nazionalismo genera “sono culturalmente
omogenee, basate su una cultura che cerca in tutti i modi di diventare una cultura
superiore”, “la loro popolazione è anonima fluida e mobile, e non ha bisogno di
intermediari; gli individui appartengono a queste unità direttamente, in virtù di loro
stile culturale e non in virtù di un’appartenenza a sotto-gruppi inseriti uno
nell’altro. L’omogeneità, l’istruzione, l’anonimità sono i tratti chiave” (Gellner
1992: 156).
Con l’avvento della società di massa, mobile, anonima, centralizzata, la
situazione delle minoranze cambia in maniera molto radicale e profonda rispetto al
passato. E questo vale soprattutto per le minoranze impegnate in attività finanziarie,
commerciali e in generale per le occupazioni urbane specializzate.
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Con la mobilità
universalmente diffusa e con costanti avvicendamenti occupazionali, non è più
possibile che un gruppo culturale particolare conservi il monopolio in qualche
attività. Nelle condizioni create dalla modernizzazione i gruppi minoritari un tempo
specializzati perdono le loro limitazioni, ma anche ahimè il loro monopolio e le loro
relative protezioni. La debolezza politica e militare di tale gruppo scaturisce dalla
sua condizione di minoranza e, molto spesso, dal fatto di essere disperso in una
varietà di centri urbani e di mancare di una base territoriale compatta, propria e
difendibile.
Stando così le cose, la minoranza si trova a scegliere tra poche opzioni
disponibili. Può lasciarsi assimilare; e talvolta l’intera minoranza, o comunque sue
porzioni più considerevoli, accetta di esserlo. Alternativamente può sforzarsi di
abbandonare sia la sua specializzazione sia il suo status minoritario, per creare uno
Stato proprio, quale nuovo protettore di una nuova cultura nazionale. Ma un gruppo
disperso avrà delle difficoltà ad acquisire una necessaria base territoriale.
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La teoria di Gellner considera la cultura e quindi l’accesso all’istruzione come l’elemento più
importante del nazionalismo. Costruisce la sua tipologia del nazionalismo sulle combinazioni dei
fattori quali la possibilità dell’accesso o meno al potere da una parte ed all’istruzione, dall’altra.
5
Esempi di queste minoranze per Gellner sono gli Ebrei, gli Armeni, i Greci, i Parsi (Gellner 1992).
4
Anche se Smith afferma che quella di Gellner è “l’esposizione più
convincente della tesi secondo cui le nazioni e nazionalismo sono fenomeni
esclusivamente moderni” (Smith 1992: 43), comunque la critica ed elabora un
approccio originale. Secondo la sua teoria, le nazioni non nascono né dal nulla con
l’avvento del modernismo, né si formano contemporaneamente con la società
umana, ma “le nazioni moderne , nonostante i loro aspetti nuovi ed originali, sono
spesso basate su legami e memorie etniche premoderni, e talvolta antichi” (Smith
1992: 10). Le etnie (comunità etniche) sono “popolazioni umane designate da un
nome che hanno in comune miti di discendenza, storia e cultura, sono associate con
un territorio specifico e hanno un senso di solidarietà” (Smith 1992: 84). Tali
comunità sono diffuse in tutte le epoche della storia e caratterizzano tuttora molte
aree del pianeta e si trovano anche nella maggior parte degli Stati modernizzati del
mondo industrializzato. In seguito agli eventi legati alla dissoluzione delle tre
pseudofederazioni dell’ex blocco sovietico, Smith, come tanti, cerca di capire le
cause del revival etnico che ha invaso tutto il pianeta. Anche il problema delle
minoranze risale, per lui, all’epoca premoderna perché quelle che oggi si chiamano
minoranze, allora erano “le etnie periferiche”. Queste comunità etniche nel passato
erano alienate e subordinate alle etnie dominanti di maggioranza, le cui élite
governavano lo Stato nel quale questi erano stati incorporati “secoli fa dai signori o
monarchi espansionisti o più recentemente dalle potenze coloniali europee” (Smith
1995: 61).
Questa combinazione delle etnie dominanti e subordinate, o centrali e
periferiche, è servita da background storico per la formazione di molti Stati in
Europa, ma anche fuori di essa. Inoltre queste minoranze sono state spesso
maltrattate dalla maggioranza, sono state soggette agli sfruttamenti economici, alle
esclusioni sociali, alle discriminazioni e alle assimilazioni culturali. Infine, oggi le
minoranze etniche continuano ad avere il senso del loro “essere separati”
(separateness), come la caratteristica “non solo delle etnie di diaspora come gli
Armeni, i Greci, gli Ebrei e i Rom, ma ugualmente anche delle etnie di residenza
come i Baschi, gli Sloveni, i Cechi e gli Ucraini” (Smith 1995: 62).
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Una simile distinzione/contrapposizione tra i gruppi minoritari aventi un
nesso con il territorio dove risiedono da una parte, e i gruppi che formano una
minoranza considerevole in seguito alla concentrazione degli immigrati, viene
ripresa dai più studiosi.
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Lijphart con il suo studio ottimistico dei quattro casi classici delle
democrazie consociative (Belgio, Svizzera, Austria e Olanda), elabora un’idea
normativa sulla stabilità politica degli Stati multietnici. Questa stabilità viene
garantita dai quattro fattori, il primo e il più importante dei quali è il governo con
larghe coalizioni dei leader politici che rappresentino tutte le comunità
significative. Gli altri tre sono: il potere di veto delle minoranze nella legislazione
che tocca i loro interessi vitali, il principio di proporzionalità in tutte le sedi
rilevanti, e un’alta autonomia nella gestione dei diversi segmenti della società.
Come lui stesso afferma il messaggio del suo libro alle èlite politiche sarebbe
quello di incoraggiarle a “diventare ingegneri consociativi” (Lijphart, 1977: 223).
Le critiche rivolte a questo approccio hanno sottolineato la debolezza che sta nel
considerare principalmente l’interazione tra le èlite, ma ignora gli strati più larghi
della popolazione; e nella sua tendenza di “congelare le relazioni etniche, facendo
delle divisioni culturali la base della vita politica e delle istituzioni. E così, si
potrebbe affermare, può promuovere le divisioni culturali.” (Ryan 1995: 18)
Anche al centro dell’analisi di Keating stanno sempre i paesi dell’Europa
Occidentale, ma trattandosi di esperienze diverse (Francia, Gran Bretagna e
Spagna), conclude che il fallimento dei movimenti nazionalisti di minoranze in
Europa Occidentale si spiega con il fatto che il nazionalismo delle minoranze e il
regionalismo sono dei fenomeni complessi, composti da elementi molto diversi e
discutibili. Keating critica i gruppi minoritari per la frammentazione interna e la
difficoltà di entrare nel sistema partitico esistente, ma soprattutto per la loro
incapacità di sviluppare una credibile alternativa al modello tradizionale dello
Stato-nazione.
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Le due categorie di Ted Gurr sono i “gruppi regionalmente concentrati che hanno perso la loro
autonomia a favore degli Stati espansionistici ma che conservano ancora una parte della loro
specificità culturale e linguistica e desiderano tutelare o ripristinare in qualche misura un’esistenza
politica separata” e i gruppi che “hanno un determinato status socio-economico o politico… basato
su una combinazione di etnia, passato da immigrati, ruoli economici o religione e sono interessati a
proteggere o conservare quello status” (Gurr 1993: 15).
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Deboli progressi sono stati raggiunti grazie all’interessamento da parte di
alcuni partiti di sinistra ai temi di decentralizzazione e regionalismo (il Partito
Socialista in Francia) che sono riusciti ad elaborare il progetto dell’autonomia
regionale che garantisse comunque l’integrità dell’economia centralizzata.
Insomma, le minoranze etniche sfidano lo Stato, causandone magari anche la crisi,
ma alla fine, grazie anche a tutte le secessioni del Novecento, lo Stato-nazione è
diventato la forma universale del sistema internazionale odierno (Keating 1990).
Se i classici del nazionalismo, come Anthony Smith, Ernest Gellner,
Benedict Anderson, Eric Hobsbawn, non mettono in dubbio l’esistenza delle
nazioni, ma si limitano a discutere il loro significato o l’origine, c’è invece chi,
come Brubaker, si propone come il sostenitore dell’approccio “relativo”.
Contraddicendo Smith lui afferma che il nostro non è un mondo delle nazioni, ma è
“un mondo dove l’essere nazione (“nationhood”) è stato diffusamente
istituzionalizzato nella prassi dello Stato e nei meccanismi del sistema statale… E’
un mondo dove la nazionalità (nationness) può improvvisamente e violentemente
“capitare”. Ma niente di ciò implica un mondo delle nazioni, intese come
collettività stabili e durature” (Brubaker 1996: 21).
È originale la sua teoria del nesso triadico, la quale coinvolge tre tipi di
nazionalismi, distinti ed antagonisti tra di loro. Il primo è il nazionalismo
nazionalizzante, caratteristico per gli Stati di recente indipendenza, che si fa il
promotore della nazionalità definita in termini etnoculturali, distinta dall’istituto di
cittadinanza. Una sfida diretta a questo tipo di nazionalismo è rappresentata dalle
patrie nazionali esterne, che si riservano il diritto di monitorare le condizioni,
promuovere il benessere, proteggere i diritti dei loro connazionali residenti in altri
Stati. In mezzo a questi due nazionalismi stanno le minoranze nazionali, che
possiedono il loro proprio nazionalismo, inteso come pretesa di riconoscimento da
parte dello Stato di una loro nazionalità distinta dalla maggioranza. Un buon
esempio di nesso triadico è l’Europa Centro-Orientale nel periodo tra le due guerre
mondiali: i nuovi Stati indipendenti con una politica fortemente nazionalizzante,
come la Polonia o la Cecoslovacchia, i milioni di Tedeschi che sono diventati delle
minoranze all’interno di essi e la Germania, come la patria esterna per loro.
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La minoranza nazionale, lo Stato nazionalizzante e la patria esterna: ognuno
di essi deve essere concepito non come un’entità data e analiticamente irriducibile,
ma piuttosto come un insieme di posizioni differenziate e concorrenti tra di loro.
Per cui “il nesso triadico tra questi tre elementi è una relazione tra i campi relativi; e
le relazioni tra i campi sono molto interconnesse con le relazioni interni o
costituenti di ciascun campo” (Brubaker 1996: 67). L’aspetto centrale di questa
relazione triangolare è un continuo monitoraggio reciproco dei campi: gli attori di
ogni campo prestano una costante attenzione agli eventi negli altri due, da qui
deriva la loro interdipendenza ed interconnessione irreversibile.
Una delle teorie più discusse e criticate degli ultimi anni è quella dello
scontro delle civiltà di Samuel Huntington. Egli afferma che “l’elemento più
centrale e più pericoloso dello scenario politico internazionale che va delineandosi
oggi è il crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà”. Superando tutte le
tendenze contemporanee, come la globalizzazione, l’omogeneizzazione, la
modernizzazione, l’occidentalizzazione, la diffusione di una formazione universale
e anonima, sono “la cultura e le identità culturali – che al livello più ampio
corrispondono a quelle delle rispettive civiltà” – a caratterizzare il mondo post-
guerra fredda, stando alla base dei processi di coesione, disintegrazione e
conflittualità (Huntington 2001: 7, 14-15).
Nel nuovo sistema internazionale, dopo l’uscita di scena del conflitto
ideologico principale tra le due potenze mondiali protagoniste della guerra fredda,
sono soprattutto le affinità culturali e l’appartenenza ad una od altra civiltà a
definire le coalizioni o la rivalità tra gli Stati. E la possibilità di evitare “una guerra
globale tra opposte civiltà dipende dalla disponibilità dei governanti del mondo”
(l’Occidente o meglio gli USA, che lo rimarranno comunque ancora per poco, visti
i mutamenti attuali degli equilibri del potere) “ad accettare la natura “a più civiltà”
del quadro politico mondiale e a cooperare alla sua preservazione.”
Questo approccio uniformale, tendente a spiegare tutto ciò che è accaduto
nel mondo dopo la fine della guerra fredda con l’incompatibilità delle diversità
culturali, ha suscitato le critiche di tanti studiosi. Kymlicka (2003, p. 142), per
esempio, arriva alla conclusione che, se l’idea di Huntington venisse accolta, ci
sarebbe ben poco spazio per le questioni inerenti l’equità e la giustizia verso le
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minoranze nelle società multiculturali. Più recentemente Huntington parla del
multiculturalismo come di una minaccia (Huntington 2004). Analizzando i
cambiamenti della società america in seguito alle immigrazioni crescenti e continui
nelle Stati Uniti, arriva alla conclusione che la resistenza degli ispanici
all’integrazione, a differenza delle ondate di immigrazioni precedenti (provenienti
maggiormente dall’Europa), porterà inevitabilmente alla trasformazione
irreversibile della base stressa della società nordamericana.
Kymlicka vede il problema diversamente:
Il problema centrale della democrazia non è quello della rappresentanza , o delle garanzie
per le minoranze politiche, o della partecipazione o della selezione dell’élite, bensì quello della
tutela delle identità culturali delle molteplici minoranze di cui oggi constano sia le società
occidentali sia quelli dei paesi ex-comunisti (Kymlicka W. e Opalsky M. 2003 (a cura di): 10)
Con le sue opere Kymlicka tenta di elaborare una soluzione adeguata alla
realtà di compresenza di più etnie sul territorio di uno Stato. La sua classificazione
delle etnie riprende sostanzialmente gli elementi di quella di Gurr e di Smith, anche
se è più confusa nei termini. Per quanto riguarda invece le strategie delle comunità
minoritarie, in generale esse si trovano a scegliere tra quattro opzioni disponibili
all’interno di uno Stato con il processo di nation-building in corso, che
inevitabilmente finisce con il privilegiare gli appartenenti alla cultura maggioritaria.
Le alternative sono: emigrare in massa, qualora esista uno Stato prospero e ospitale
disposto ad accoglierli; accettare d’integrarsi nella cultura maggioritaria,
negoziando magari le condizioni migliori; tentare di procurarsi diritti e poteri di
autogoverno, necessari al mantenimento della propria cultura sociale; accettare una
marginalità permanente e preoccuparsi solo che nessuno venga a disturbarli (Ibidem
2003).
In seguito Kymlicka elabora tre condizioni la cui presenza rende legittimo
un nation-building maggioritario e le nove differenze tra un nation-building liberale
e nazionalismo illiberale. Le condizioni per un nation-building legittimo sono: 1. a
nessun gruppo di residenti di lunga data deve essere impedito di far parte della
nazione (l’accesso alla cittadinanza); 2. il pluralismo e la tolleranza sono i criteri ai
quali dovrebbero ispirarsi sia la concezione dell’identità che l’integrazione nella
nazione; 3. alle minoranze nazionali deve essere consentito d’avviare un proprio
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nation-building (Ibidem: 104-105). I nove elementi che differenziano le democrazie
liberali dal nazionalismo illiberale sono:
- il grado di coercizione a cui si ricorre per promuovere una comune identità nazionale;
- una nozione di “spazio pubblico” a cui interno dovrebbe esprimersi l’identità nazionale
dominante (più ristretta in uno Stato liberale) e una nozione della sfera “privata”, entro la
quale sono tollerate le differenze ( più ampia in uno Stato liberale);
- la scarsa propensione degli Stati liberali a proibire forme di dibattito o di mobilitazione
politica, che contestino il privilegio concesso all’identità nazionale;
- gli Stati liberali hanno una nozione più aperta di comunità nazionale;
- un concetto più debole dell’identità nazionale in uno Stato liberale;
- il nazionalismo illiberale tende assai a ravvisare nella nazione il valore supremo;
- il carattere “cosmopolitico” che assumano le culture nazionali liberali in virtù della
debolezza culturale e l’inclusività etnica;
- le nazioni liberali sono meno inclini ad insistere sul carattere esclusivo dell’identità
nazionale;
- le nazioni liberali riconoscono e dividono lo spazio pubblico con le minoranze nazionali, la
cui diversità sia affermata in modo energico ma democratico (Ibidem: 114-122).
Il problema non è se gli Stati intraprendano il nation-building, ma di che
tipo sia e in che fase esso si trovi. Non è la mancanza di una componente culturale
nell’identità nazionale, bensì il fatto che chiunque può integrarsi nella cultura
comune a prescindere dalla razza o dal colore della pelle che determina la
distinzione tra le nazioni “civiche” e quelle “etniche”. L’uso degli strumenti di
nation-building sia da parte dello Stato che delle minoranze etniche (una giustizia
etnoculturale consiste proprio nell’assicurare alle minoranze gli stessi poteri di
nation-building che sono riconosciuti alla maggioranza) è un problema inerente
all’equilibrio fra diritti individuali e di gruppo.
Tra i diritti del gruppo Kymlicka distingue due specie di diritti rivendicabili
da un gruppo minoritario che lui chiama “restrizioni interne” (i diritti che il gruppo
minoritario fa valere nei confronti dei propri membri e che servono a proteggerlo
dall’impatto destabilizzante del dissenso interno) e “tutele esterne” (i diritti del
gruppo nei riguardi della società che servono a proteggerlo dalle pressioni esterne)
(Kymlicka 2003: 73-75).