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È questo il motivo per cui i paesi maggiormente industrializzati, nel caso
in cui la contrattazione collettiva non avesse già, di fatto, efficacia
generalizzata (ad es. in Gran Bretagna), hanno approntato dei meccanismi
in grado di assicurare efficacia erga omnes agli accordi sindacali.
Il congegno si è rinvenuto, in genere, nell'estensione dell'efficacia
soggettiva in seguito ad un atto emanato dalla pubblica autorità (ad es. in
Francia e Germania).
In Italia, invece, dopo la caduta del fascismo, si è optato per un sistema
diverso il quale, per varie ragioni, si è rivelato inattuabile.
Permanendo, quindi, l'esigenza di assicurare un’adeguata protezione ai
lavoratori non sindacalizzati, il compito di ovviare a tale problematica è
ricaduto sulla giurisprudenza. Il tentativo del legislatore di estendere
l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi attraverso un sistema
alternativo a quello previsto dall’art. 39 (l. 14 luglio 1959, n. 741), si è
rivelato, infatti, costituzionalmente illegittimo.
I giudici, non disponendo degli strumenti atti a porre rimedio ad un
siffatto stato di cose, si sono avvalsi di molteplici meccanismi al fine di
operare un’estensione indiretta dell'efficacia soggettiva degli accordi
sindacali.
L'intervento giudiziale, come si vedrà, si è però rivelato parziale e non
del tutto adeguato, oltre che per la mancanza di un valido supporto
legislativo, anche per la non sufficiente uniformità di giudicati che spesso
si è verificata.
Nel corso della trattazione sarà, quindi, affrontata analiticamente sia la
questione della ricostruzione teorica dell'efficacia soggettiva dei contratti
collettivi, che le problematiche conseguenti alla mancata attuazione dell'art.
39 Cost.
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Capitolo I
“La contrattazione collettiva prima dell’entrata in vigore
della Costituzione”
§ 1 Il periodo precorporativo
Nella seconda metà del secolo scorso, le profonde trasformazioni
economiche e sociali determinate dalla rivoluzione industriale posero in
primo piano l'esigenza di una disciplina specifica del contratto e del
rapporto di lavoro, per i quali fino allora si era ritenuto sufficiente il diritto
comune.
La legislazione ottocentesca nemmeno prevedeva una disciplina propria
del contratto di lavoro. Il Codice Civile di allora si limitava a vietare
l'assunzione dell'obbligo di lavorare senza termine, mentre al fenomeno del
lavoro subordinato erano tradizionalmente applicate, per analogia, le
disposizioni dettate per il contratto di locazione, ad una specie del quale - la
locazione di opere - veniva ricondotto il contratto di lavoro.
Eppure, anche in Italia, il fenomeno dell'industrializzazione rendeva
sempre più acuto il conflitto fra gli interessi contrapposti dei detentori dei
mezzi di produzione e dei lavoratori. In siffatta situazione l'ordinamento
non cercò di assolvere a qualsiasi funzione equilibratrice. I problemi sociali
erano avvertiti ma si riteneva da una parte, che alla loro soluzione fosse
sufficiente il riconoscimento formale della parità di diritti tra datori e
prestatori di lavoro e, dall'altra, che non dovesse essere turbato l'equilibrio
del mercato, in osservanza dei canoni liberisti dell'epoca, nel presupposto
che questo avrebbe potuto realizzare la soluzione ottimale per tutti.
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Le condizioni alle quali il lavoro era prestato rendevano, però,
indifferibile un'efficace tutela degli interessi essenziali dei lavoratori, per i
quali la sola garanzia di uguaglianza formale rispetto ai datori di lavoro si
traduceva in una sostanziale disuguaglianza. Tale tutela fu realizzata
mediante la spontanea coalizione degli stessi interessati, quindi attraverso
l'associazionismo operaio. Questo fenomeno fu osteggiato a lungo dallo
Stato sia per la sua connessione con movimenti politici ritenuti eversivi
dell'ordine pubblico, e sia per l'idea che l'azione coalizzata dei lavoratori
potesse impedire lo spontaneo equilibrio del mercato.
Anche il sindacalismo italiano, imitando modelli già presenti in altri
Paesi europei, impose il suo riconoscimento alla controparte mediante lo
sciopero. Peraltro questo era originariamente considerato un delitto ed i
lavoratori scioperanti perseguiti penalmente. Solo in un secondo momento,
e cioè quando il movimento sindacale si diffuse maggiormente, lo sciopero
venne tollerato essendone esclusa la rilevanza penale, anche se l'astensione
dal lavoro continuò ad essere considerata un inadempimento
dell'obbligazione di lavorare, repressa, soprattutto a livello aziendale, con
varie forme di intimidazione e di rappresaglia.
L'azione sindacale si orientò, ben presto, alla stipulazione del contratto
collettivo, il quale inizialmente determinava le sole retribuzioni minime
(c.d. concordato di tariffa). Questo nuovo strumento non era né previsto né
regolato dalla legge e, pertanto i suoi effetti furono inizialmente individuati
avendo esclusivo riguardo al diritto comune dei contratti.
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Restò così impossibile estendere l'efficacia del contratto collettivo al di
là dei singoli lavoratori iscritti al sindacato stipulante e, soprattutto, ai
lavoratori dipendenti da datori di lavoro che si fossero rifiutati di
sottoscrivere il contratto collettivo o di aderire alle organizzazioni sindacali
dei datori di lavoro.
Il concordato di tariffa, in assenza di una legge che ne prevedesse effetti
adeguati alla funzione assolta, oltre che inefficace se una sola delle parti
stipulanti l'accordo individuale non fosse stata sindacalizzata, poteva inoltre
essere validamente derogato con il contratto individuale, anche se in questo
fossero previste condizioni meno favorevoli per il lavoratore.
La dottrina dell'epoca, il cui maggiore esponente fu il Messina,
cominciando ad occuparsi di questo nuovo istituto, affermò l'inderogabilità
del contratto collettivo spiegando il rapporto tra aderente e soggetto
collettivo stipulante in termini di rappresentanza (costruzione teorica
ripresa in seguito dal Santoro Passarelli).
Tale Autore si espose, però, alla critica di chi rilevava che, se le
associazioni sindacali avessero agito in nome e per conto dei soci, cioè dei
singoli datori di lavoro e dei lavoratori, in realtà ciascuna coppia di costoro
nello stipulare il singolo contratto di lavoro avrebbe potuto modificare
quanto pattuito tra le parti collettive.
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Il Messina, consapevole di questo limite, ritenne che in base al diritto
comune delle obbligazioni non si potesse affermare la prevalenza
automatica delle clausole del contratto collettivo su quelle difformi del
contratto individuale (c.d. efficacia reale, di cui è dotata l'odierna
contrattazione collettiva grazie al disposto dell'art. 2113 c.c.), ma era
tuttavia possibile assicurare al contratto collettivo una sanzione di natura
obbligatoria, perché la sua deroga costituiva violazione di un obbligo al
quale sarebbe stato possibile reagire con un’azione risarcitoria.
La volontà espressa dall'associazione, per effetto delle clausole
statutarie, si doveva, quindi, considerare vincolante per i soci, attuali e
futuri; anche se si trattava di un vincolo con effetti obbligatori e non reali.
Il problema più delicato concerneva, però, i non soci, i quali potevano
appropriarsi del contenuto del contratto, idoneo a soddisfare anche il loro
interesse, solamente con pattuizioni e comportamenti individuali (oggi si
parla di recezione o adesione anche per facta concludentia), oppure per
estensione delle clausole ad opera della giurisdizione dei collegi probivirali
(speciale magistratura istituita sul finire del secolo scorso, composta da
rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori e da un magistrato con
funzioni di presidente) e dei poteri di equità ad essi riconosciuti.
Altre tesi, alternative a quella del Messina, come quella tendente a
considerare il contratto collettivo come una specie di uso, non trovarono
invece seguito ed utilizzazione.
I tentativi, quindi, di risolvere il problema dell'efficacia per i non soci
non ebbero successo; anche se i sindacati dei lavoratori tendevano a
considerare le pattuizioni aperte a tutti i soggetti interessati, attraverso vari
modi quali: la successiva adesione all'organizzazione stipulante, la
recezione, gli interventi equitativi dei collegi probivirali.
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§ 2 L’instaurazione dell’ordinamento corporativo
L'avvento del fascismo segnò un modo nuovo di concepire
l'organizzazione sindacale. Il fascismo utilizzò, infatti, il sindacato come
strumento per realizzare la sua politica di ordine pubblico e, con
l'instaurazione dell'ordinamento corporativo, lo inserì nell'organizzazione
stessa dello Stato. Ciò fu possibile perché l'ideologia corporativa negava
l'inevitabilità di un conflitto di interessi fra datori e prestatori di lavoro.
Il corporativismo teorizzò di poter eliminare tale conflitto riconducendo,
per legge, gli opposti interessi ad un interesse comune: l'interesse pubblico
dell'economia.
L'organizzazione sindacale corporativa aveva come presupposto il
concetto di categoria professionale. Questa, considerata come un dato
preesistente a quello dell’organizzazione, era configurata come l'insieme di
tutti i soggetti (datori e prestatori di lavoro) operanti nello stesso settore
della produzione. Le categorie professionali furono individuate e definite
per legge, secondo criteri che facevano riferimento alle categorie
merceologiche della produzione.
Il sindacato era costituito in corrispondenza ed in conformità
dell'inquadramento collettivo costitutivo, cioè di un piano organico per
effetto del quale venne ripartito l'intero campo delle attività professionali,
individuandosi così le categorie precostituite per cui bisognava creare il
sindacato.
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Principio cardine del periodo corporativo fu, infatti, la concezione in
base alla quale la categoria professionale era preesistente al sindacato, era
un prius che avrebbe delimitato l'ambito di azione dell'organizzazione
sindacale, e non viceversa (come nella situazione odierna in cui è il
sindacato che liberamente stabilisce la propria sfera d'azione).
L'ordinamento corporativo fu creato dalla legge 3 aprile 1926, n. 563,
recante " Disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro ". Essa
prevedeva il sindacato unico per ogni categoria della produzione (" Non
può essere riconosciuta legalmente, per ciascuna categoria di datori di
lavoro, lavoratori, artisti o professionisti, che una sola associazione ", art. 6
comma 3).
Il sindacato, con il riconoscimento, diveniva persona giuridica di diritto
pubblico ed era sottoposto ad un penetrante controllo da parte dello Stato,
che si riservava il potere di revocare i dirigenti sindacali, comunque
designati, ed esercitava poteri di vigilanza e di tutela sull'attività delle
associazioni sindacali corporative; ad esso venivano riconosciuti poteri nei
confronti degli iscritti ed anche dei non iscritti.
Al sindacato corporativo veniva, infatti, conferita la rappresentanza
legale di tutti i componenti della categoria (" Le associazioni sindacali
legalmente riconosciute hanno personalità giuridica rappresentano
legalmente tutti i datori di lavoro, lavoratori, artisti e professionisti della
categoria per cui sono costituite "); a ciò conseguiva la previsione
dell'efficacia erga omnes del contratto collettivo stipulato dalle suddette
associazioni.
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Coronamento del sistema fu l’istituzione delle corporazioni, enti di
diritto pubblico di grado superiore, che, formate dalle rappresentanze dei
sindacati contrapposti dei datori e dei prestatori di lavoro, erano chiamate a
realizzare " l'organizzazione unitaria delle forze della produzione " (VI
dichiarazione della Carta del lavoro), realizzando l'armonia dei fattori della
produzione. A tal fine esse erano investite di poteri di
autoregolamentazione in materia economica e di rapporti di lavoro
(attraverso le c.d. ‘ordinanze corporative’).
La legge, inoltre, attribuì alla Corte d’Appello funzioni di Magistratura
del Lavoro; a questa dovevano essere deferite, oltre che le controversie
individuali di lavoro in grado d'appello, tutte le controversie collettive, non
solo quelle relative all'applicazione dei contratti collettivi, ma anche quelle
che sorgevano dalla richiesta di nuove condizioni di lavoro in caso di
mancato accordo in sede di contrattazione collettiva.
In questo caso il giudice avrebbe svolto una funzione di supplenza
dell'azione sindacale, nel momento in cui i contrapposti sindacati
corporativi non fossero riusciti a stipulare un valido contratto collettivo. La
Magistratura del Lavoro doveva giudicare, in linea con i canoni corporativi,
secondo equità, contemperando gli interessi dei datori di lavoro con quelli
dei lavoratori, e tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della
produzione (in altre parole l'interesse pubblico dell'economia).
A conclusione di questa costruzione il legislatore fascista sancì l'illiceità
penale dello sciopero e della serrata che, in un sistema siffatto, furono
qualificati come delitti contro l’economia pubblica.
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Il contratto collettivo stipulato dai sindacati corporativi era, dunque,
efficace nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria professionale,
proprio perché i sindacati agivano come rappresentanti legali di chiunque
facesse parte di quest'ultima, indipendentemente da una manifestazione di
volontà.
In teoria potevano essere costituiti anche sindacati non riconosciuti,
poiché, però, ai loro iscritti si sarebbe applicato comunque il contratto
collettivo stipulato dai sindacati corporativi, di fatto, questi non vennero
costituiti.
Il contratto collettivo corporativo, in quanto destinato a perseguire
interessi pubblici, era annoverato tra le fonti del diritto (art. 1 disp. prel.
c.c.) e, come tale, era inderogabile se non a favore dei lavoratori (art. 2077
c.c.). Nella legge 3 aprile 1926, infatti, il contratto collettivo si presentava
ancora come un contratto vero e proprio, anche se stipulato da sindacati che
- trasformati in organi di diritto pubblico e inseriti nello Stato - avevano
assunto la rappresentanza legale delle categorie professionali.
Nello sviluppo dell'ordinamento corporativo, invece, le posizioni della
legge del ‘26 vennero superate rimarcandosi il distacco del contratto
collettivo dalla sua funzione originaria.
In seguito all’approvazione della Carta del lavoro, le organizzazioni
sindacali, divenute formalmente enti autarchici, persero in realtà ogni
connotato associativo. Esse vennero incasellate come organi decentrati
dello Stato, con una posizione sostanziale di comando verso le categorie
economiche, operanti in modo corrispondente alle ripartizioni
amministrative territoriali.
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Si giunse così al codice civile del 1942, dove il contratto collettivo venne
inquadrato nella categoria delle norme corporative come " fonte giuridica ",
insieme alle ordinanze corporative (adottate dalle corporazioni) ed alle
sentenze (in materia di controversie collettive) pronunciate dalla
Magistratura del lavoro.
In questa categoria, il contratto collettivo ebbe una regolamentazione
propria e distinta, che peraltro lo mantenne nella tipologia della legge in
generale anche se con disposizioni specifiche che tendevano a metterne in
luce l'originaria qualificazione di atto espressivo di autonomia privata. Esso
divenne, quindi, una fonte normativa secondaria subordinata alle leggi ed ai
regolamenti.
La contrattazione collettiva perse, dunque, ogni carattere di espressione
di autocomando per assumere quello di fonte eteronoma, emanazione di un
potere superiore; espressione di un sistema in cui i singoli non disponevano
neanche in origine della scelta degli interessi da curare attraverso la
creazione dell'associazione sindacale.
Il contratto collettivo venne quindi ad assumere la qualificazione di atto
stipulato da organizzazioni sindacali le quali, divenute enti di diritto
pubblico, erano dotate di un potere di imperio nei confronti di tutti gli
appartenenti alla categoria professionale.
Con la caduta del fascismo e la conseguente soppressione
dell'ordinamento corporativo, nel 1944 venne meno anche il contratto
collettivo corporativo. Tuttavia il d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 369, che
abrogò l'ordinamento corporativo, mantenne in vigore tutti i contratti
stipulati dalle organizzazioni disciolte, perché non si volle privare, ad un
tratto, i lavoratori della tutela costituita dalle norme ivi contenute.
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Tale decreto abrogò la fonte di produzione, menzionata nell'art. 1 delle
disposizioni preliminari al codice civile tra le " norme corporative ", mentre
mantenne in vigore le norme che essa aveva prodotto nel passato e che
risultavano vigenti in quel momento, disponendo (art. 43) che i contratti
collettivi corporativi rimanessero in vigore " salvo le successive modifiche
". Inciso che il legislatore inserì riferendosi ad una definitiva sistemazione
della materia, che si pensava dovesse realizzarsi entro pochi anni.