8
2. Metodologia.
I regimi politici oggetto d’indagine sono diversi gli uni dagli altri e non
obbediscono ad un modello comune prestabilito; allo stesso modo, quelli
che si ricollegano alla matrice comune dell’Islam quale religione di Stato,
l’organizzazione e l’esercizio dei poteri si ispirano a principi e valori tra
loro variabili e non esistono caratteri sufficientemente comuni che
consentano di indurre una forma di organizzazione politica specifica per il
mondo islamico.
Le costituzioni vigenti in questi Stati non emergono dalla medesima
cultura politica. I loro principi ispiratori richiamano in alcuni casi la
tradizione religiosa, in altri casi principi democratici moderni, infine, in
altri ancora, una sorta di compromesso tra tradizione religiosa e
democratica attraverso travagliati tentativi di conciliazione.
Oltre all’analisi storica, che contribuisce ad evidenziare il rilievo
connesso a qualificazioni reputate indispensabili in taluni momenti e
secondarie in altre, la trasformazione dei singoli ordinamenti, il dipanarsi
di cicli costituzionali e l’interrelazione essenziale che intercorre tra forma
di Stato e Costituzione condizionano le definizioni costituzionali.
2
Non
meno importante è l’influenza esercitata dalla famiglia giuridica
d’appartenenza, spogliata delle innumerevoli ibridazioni e degli influssi
dei costituzionalismi.
Dal punto di vista metodologico, come indicano Pegoraro e Baldin,
occorre in primo luogo individuare le procedure selettive delle definizioni
dei vari ordinamenti onde valutare quali caratteristiche dichiarino testi di
singole Costituzioni e di ulteriori classi di ordinamenti; in secondo luogo
vagliare le caratteristiche, tra le tante predicabili, strettamente correlate
alle vicende peculiari dell’ordinamento stesso o delle classi di volta in
volta ravvisate; analizzare il carattere anche simbolico delle definizioni e
dei principi a queste connessi, la loro eventuale natura dichiarativa e
programmatica, ed esaminarne l’assiologia. Unitamente, i summenzionati
criteri contribuiscono a far emergere eventuali crittotipi.
3
2
L. Pegoraro, S. Baldin, Costituzioni e qualificazioni degli ordinamenti. Profili comparatistici,
in L. Mezzetti, V. Piergigli (a cura di), Presidenzialismi, semipresidenzialismi, parlamentarismi:
modelli comparati e riforme istituzionali in Italia, Atti del Convegno di Udine, 5 marzo 1997,
Giappichelli, Torino, p. 13.
3
L. Pegoraro, S. Baldin., ibid., p. 15.
9
All’analisi delle Costituzioni e dei relativi principi che ci si appresta a
svolgere, spesso difettano topoi tipici della storiografia moderna.
4
Si
considerino concetti quali “stato territoriale”, “opinione pubblica”, “stato
nazionale”, “economia politica”: nel caso in cui si ricorra ad alcuni di
questi non manca quasi mai un accenno alla loro estraneità rispetto alla
cultura islamica. Per esteso, ove alla nozione di costituzione si attribuisce
il significato di testo fondamentale che traduce la volontà di limitare
ovvero di delimitare il potere e di garantire i diritti dei cittadini, si intende
esaminare l’attitudine delle costituzioni oggetto ad organizzare la struttura
statuale, l’esercizio dei poteri e la tutela delle libertà fondamentali.
Parametri di riferimento nell’affrontare i caratteri del costituzionalismo
nel mondo islamico possono essere i valori individuati da Barbera:
autonomia e separazione fra sfera politica e sfera religiosa; esistenza o
meno di un testo costituzionale, o tutt’al più fondamentale, frutto di una
decisione sovrana del popolo; legittimazione dei poteri sovrani dello Stato;
status di cittadino legittimante l’acquisizione dei diritti e di doveri;
primato dei diritti dell’uomo rispetto a valori trascendenti e loro
subordinazione al potere pubblico stesso; adozione del principio di
maggioranza quale procedura fondamentale di attuazione delle decisione
politiche; subordinazione alla legge del soggetto che detiene il potere, sia
esso di estrazione popolare o successoria; garanzia della separazione dei
poteri o, quanto meno, loro limitazione; potere legislativo fondato su un
Parlamento elettivo in almeno una delle due Camere; previsione di una
tutela dei diritti dei cittadini, anche nei confronti del potere pubblico,
tramite giudici inseriti in un ordine indipendente; garanzia del controllo di
costituzionalità delle leggi, diffuso od accentrato.
5
Per la natura stessa dell’impostazione analitica, è precluso l’utilizzo dei
testi originali nella maggior parte dei casi, e ciò rende ineluttabile il
ricorso a documenti tradotti: a seconda del contesto, dell’utilità e della
possibilità ci si è avvalsi delle Costituzioni apparse in lingua inglese e
francese nella loro versione più nota ed aggiornata fornita principalmente
dal sito internet dell’Università di Würzburg: l’indagine, infatti, verterà
principalmente sui testi in vigore, salva la segnalazioni di esempi
significativi, idonei ad illustrare una tendenza, un’evoluzione storica, la
circolazione di un modello, la sua recezione.
6
4
Pegoraro L., Forme di governo, definizioni, classificazioni, in L. Pegoraro, A. Rinella. (a cura
di), Semipresidenzialismi, n° 3 dei Quaderni giuridici del Dipartimento di Scienze politiche
dell’Università degli studi di Trieste, CEDAM, Padova, 1997, pp. 3-24.
5
A. Barbera (cur) Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, IV ed., 2000, Roma-Bari,
pp. 4-5.
6
Website ICL, http://www.uni-wurzburg.de/law/home/htm, aggiornato al 2 maggio 2003.
10
In misura minore, ma non per questo prescindibile, tra le nostre fonti
cognitive vanno annoverate la raccolta di costituzioni operate da
Blausteine Flanz,
7
il sito internet dell’Università di Richmond
8
(Texas), i
testi raccolti dall’Istituto di Studi Orientali
9
di Lipsia e numerosi studi
pubblicati on line da ONG, ed articoli di testate giornalistiche arabe in
lingua inglese. Abbiamo cercato di ovviare all’alea che è propria dei
documenti peer viewed selezionando testi che garantissero la scientificità
degli elaborati attraverso l’attendibilità dei providers fornitori.
3. Struttura dell’opera
L’analisi svolta ha preso l’avvio dall’individuazione di due aree tematiche:
l’interrogativo sull’effettiva esistenza di un sistema di diritto islamico attraverso
un indagine del suo peculiare costituzionalismo, e i caratteri delle costituzioni e
soprattutto il loro diverso atteggiamento nei confronti della šarī‛a. Tale
selezione tematica si riflette nella suddivisione dell’opera in due parti.
La prima parte ha una funzione di inquadramento teorico ed in una prospettiva
diacronica cerca di individuare i “confini” del mondo islamico, i caratteri
precipui dell’Islam a livello politico e, infine, come si sia giunti alle attuali
costituzioni.
La seconda parte, più prettamente analitico-comparativa, pone a confronto in
chiave sincronica i contenuti di dette costituzioni concentrando l’attenzione sul
rapporto tra šarī‛a e le singole istituzioni e sugli esiti organizzativi degli
ordinamenti.
7
H. P. Blaustein, G. H. Flanz, Constitutions of the Countries of the World, Oceana, Dobbs
Ferry (NY), 1996.
8
http://www.uni.richmond /edu, aggiornato al 2 maggio 2003
9
http://www.islamcatalogue.uni-leipzig.de/islawindex.html, aggiornato al 24 aprile 2003.
11
PARTE PRIMA
IL SISTEMA DI DIRITTO MUSULMANO:
I PRINCIPI TRA EVOLUZIONE E IBRIDAZIONE
12
Capitolo I
Un’istantanea dell’Islam nel mondo
1. Geografia dell’Islam
Alla luce delle considerazioni sulla sostanziale unità storica e culturale
menzionata, si possono distinguere all’interno del mondo islamico più
aree tra loro simili per lingua, popoli e costumi. Sull’originario ceppo
arabo si sono innestati almeno altri due apporti culturali, linguistici e
sociali: il mondo iraniano prima, e il mondo turco poi. La lingua sacra del
Corano, l’arabo, ha dovuto in tal modo essere adattata alle esigenze di due
lingue con radici diverse dall’arabo: l’iraniano ed il turco non sono lingue
semitiche, la prima è una lingua indoeuropea e la seconda appartiene al
ceppo uralo-altaico.
10
Oggi l’arabo e una lingua parlata da una minoranza dei musulmani nel
mondo; da tempo è in corso un lavoro di mediazione linguistica fra i testi
sacri dell’Islam e le lingue nazionali. La traduzione del Corano, un tempo
ritenuta impossibile, poiché l’arabo era considerato la lingua sacra della
rivelazione, indi intraducibile, oggi invece si è imposta come
un’operazione necessaria sia nei Paesi non di lingua araba, sia in Europa
dove le seconde e terze generazioni di immigrati, nate all’interno della
Comunità europea o negli Stati Uniti, hanno meno dimestichezza con
l’arabo, nonostante le loro famiglie provengano da Paesi arabi. La
traduzione del Corano costituisce un indicatore molto importante per
misurare la capacità, oltre alla volontà, delle comunità islamiche in Europa
e negli U.S.A. di radicarsi nella cultura e nella lingua dei paesi dove si
concentrano in quantità sempre più assidua donne e uomini di fede
musulmana. Si possono tuttavia distinguere più gruppi di Paesi.
11
Un primo gruppo è costituito da quelli di maggioranza musulmana che
prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica vivevano sotto l’egemonia
di questa o erano repubbliche socialista indipendenti: Albania,
Kazakhistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Azerbaijan,
Kirghizistan. In questi Stati, fondati sul principio del materialismo storico
proprio della dottrina marxista-leninista, le autorità costituite guardavano
alla religione musulmana come ad una falsa verità. Dunque non v’era
10
I.M. Lapidus, Storia delle società islamiche. La diffusione delle società islamiche, Einaudi,
Torino, 1994, pp. 26 e ss.
11
R. David, I grandi sistemi giuridici contemporanei, CEDAM, Padova, 1994, IV ed., pp. 422
e ss.
13
premura di salvaguardare il diritto musulmano, considerato come una
manifestazione di oscurantismo destinata a difendere una struttura di
classe ormai scomparsa. Oggi il diritto di questi Stati è laico, tende ad
istituire una società di tipo nuovo, basata su principi del tutto diversi da
quelli dell’Islam. Il diritto musulmano non vi è più applicato da nessun
organo giudiziario; può continuare ad esser osservato, in margine al diritto
statale, quasi clandestinamente, da popolazioni che la filosofia ufficiale
vuole distaccare dall’Islam.
Un secondo gruppo è invece composto dagli Stati che meno hanno
subito l’influenza del pensiero occidentale, i Paesi della penisola araba
(Arabia Saudita, Oman, Yemen, Bahrein, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi
Uniti) e l’Afghanistan. Questi Stati, ognuno con diversa intensità, hanno
fondato i propri ordinamenti sulla base delle prescrizioni sciariatiche,
talora adattando principi propri del costituzionalismo occidentale. La
nostra analisi sarà rivolta principalmente a quest’area, in grado più delle
altre di esprimere caratteri originali e identificativi in relazione
all’orientamento generale.
Un terzo gruppo è costituito dagli Stati in cui il sincretismo di diritto
musulmano e consuetudine è stato conservato solo per regolare il settore
della vita sociale inerente allo statuto personale e alle fondazioni pie e
talvolta il regime fondiario, mentre per reggere la contestualizzazione dei
principi del costituzionalismo è stato scelto un diritto rinnovato. A sua
volta questo insieme si suddivide in due sottogruppi, a seconda che il
diritto in questione sia stato elaborato sul modello di common law
(Pakistan, India, Brunei, Bangladesh, Niger, Nigeria), o su quello del
diritto francese e quindi di civil law (Maghreb, Mashreq, Africa
occidentale, Iran), od olandese (Indonesia). Un caso particolare è
costituito dal Sudan: un’ordinanza in tema di giustizia civile prescrisse ai
tribunali, nel 1900, di colmare le lacune del diritto giudicando «secondo
giustizia, equità e coscienza». In applicazione di questa formula furono
recepite molte leggi ordinarie inglesi.
La Turchia, paese non arabo, legato all’Europa occidentale da legami
politici ed economici stretti, proiettata verso l’ingresso nella Comunità
Europea, occupa una posizione particolare tra i Paesi a popolazione
musulmana.
12
Giuridicamente, tuttavia, si contrappone agli altri Paesi
musulmani meno di quanto si ritenesse nell’immediato dopoguerra. La
rivoluzione kemalista non ha implicato quell’abiura dell’Islam
gratuitamente addotta allo scopo di svilirne i risvolti democratici: le
medesime riforme sono state in seguito compiute, o sono in via di
12
A. Pizzorusso, Sistemi giuridici comparati, Giuffrè, Milano, II ed., 1998.
14
attuazione, in numerosi altri Paesi musulmani e, su questa strada, la
Turchia non è stata altro che un precursore. Non mancano infatti gli Stati
islamici che da tempo hanno adottato costituzioni di tipo occidentale che
limitano la portata del diritto musulmano in via giurisprudenziale o
mediante la codificazione, sia in Maghreb che in Mashreq.
2. La diffusione dell’Islam nel Maghreb
Tunisia, Marocco, Libia e Algeria sono i principali Stati che
convenzionalmente entrano a fare parte del Maghreb (“dove tramonta il
sole”, l’occidente in arabo), un’area storicamente non araba, e tanto meno
musulmana: le popolazioni originarie del Maghreb sono berbere. Solo alla
fine del VII secolo è iniziato un processo di islamizzazione e di
arabizzazione sotto la dinastia degli Omayyadi. Mentre il primo non ha
incontrato ostacoli molto forti, il secondo processo è stato molto
contrastato. Occorre arrivare al XV secolo per poter parlare di una quasi
integrale acculturazione all’arabo dei popoli autoctoni; parziale perché
ancora oggi esistono delle estese aree del Maghreb dove vivono
popolazioni berberi che difendono la loro identità dall’egemonia politica e
linguistica delle élites arabe.
13
Le popolazioni berbere che facevano resistenza al dominio della dinastia
omayyade si piegavano alle nuove idee religiose, ma finivano per dare
ascolto piuttosto ai dissidenti che perseguitati dagli omayyadi si
rifugiavano in aree relativamente periferiche.
14
Fu così che queste popolazioni recepirono l’Islam secondo un punto di
vista eterodosso: un rigorismo etico e religioso si integrò spontaneamente
con una concezione della Legge centrata sul rispetto formale e letterale
delle prescrizioni e delle norme in essa contenuta propria della scuola
malakita.
Ciò da un lato ha favorito l’affermarsi di un ceto di specialisti, ‘ulema e
fuqaha, rispettivamente custodi della lettera della Legge e garanti
scrupolosi dell’osservanza rituale in essa stabilita, organici al potere di
volta in volta costituito; dall’altro, per contrasto, gli strati inglobati nel
sistema di credenza sono diventati i veicoli di una spiritualità e di una
religiosità personali molto diffuse sino ad oggi soprattutto fra i ceti
popolari.
13
H. El-Boudrari, L’islam maghrebino, in Atlante delle religioni, UTET, Torino, 1996, p. 154.
14
E. Pace, Sociologia dell’Islam: fenomeni religiosi e logiche sociali, Carocci, Roma, 1999,
pp. 191-202.
15
3. L’islam africano
Attraverso le grandi vie carovaniere e commerciali percorse dai mercanti
arabi, l’Islam arriva nell’Africa subsahariana, una delle zone del mondo
dove continua a conoscere un’estesa diffusione. A riprova della sua
originaria forza propulsiva, l’Islam conquista in primo luogo le città
africane. Fenomeno spiccatamente urbano, l’Islam si è altresì felicemente
sposato con le prime forme di corporazioni economiche, vere e proprie
continuazioni dello spirito di clan o tribale trapiantato nei luoghi deputati
agli scambi commerciali. La prima area ad entrare in contatto con l’Islam
è stata la zona del Corno d’Africa, per i noti contatti della prima comunità
islamica con l’Abissinia. Le caratteristiche dell’Islam subsahariano sono
sostanzialmente tre. La prima è la ancor più marcata presenza del modello
della confraternita come reale veicolo della fede musulmana. La seconda
caratteristica si manifesta nei movimenti collettivi che hanno interpretato
il precetto coranico della jihad come luogo teologico escatologicamente
non in linea con la tradizione sunnita che, in modo maggioritario, tuttavia
ispira l’Islam africano. Il terzo elemento è lo stretto legame fra
colonizzazione e il nuovo impulso musulmano: l’Islam apparirà a molti
popoli oppressi dalle potenze europee una religione meno distante dalle
loro tradizioni locali e soprattutto non associata alle tradizioni occidentali.
4.1 L’Islam in Asia: Indonesia
L’Islam in Asia si espande nell’intero continente ad eccezione del
Giappone. La contaminazione è la caratteristica precipua dell’Islam
asiatico. Se escludiamo il Medio Oriente, culla della civiltà islamica,
osserviamo che la cultura islamica intreccia rapporti singolari in India
(dalla quale nel 1947 la comunità islamica si separerà sancendo la nascita
del Pakistan), ed in Indonesia. Nonostante la presenza di numerose
comunità islamiche alcuni Stati ostacoleranno la diffusione dell’Islam, in
nome della salvaguardia della religione cattolica (Filippine) o
dell’ideologia comunista (Cina, ex repubbliche sovietiche).
L’Indonesia è oggi lo Stato con la più grande nazione al mondo di fede
musulmana, almeno nominalmente. L’Islam comincia la sua penetrazione
nel XIII secolo. I contatti commerciali aprono le porte alle merci e agli
scambi di beni fra l’Indonesia ed i mercanti provenienti dal subcontinente
indiano e attraverso questi contatti si impiantano le confraternite mistiche
sufi, la cui attività pubblica principale all’inizio fu l’apertura di scuole
16
coraniche che permisero di creare centri di socializzazione. L’apertura
delle scuole nei centri urbani e nei villaggi conferisce ai capi delle
confraternite uno status particolare: essi, oltre a farsi riconoscere come
leader carismatici, acquisiscono un’autorità locale, influenzando la vita
collettiva soprattutto a livello di piccoli e medi villaggi, divenendo così
delle autorità politiche in senso lato.
Gli olandesi, che per secoli controllarono l’intero arcipelago
indonesiano, si mostrarono permissivi nei confronti della nuova religione
che non mostrava di volere aizzare moti popolari contro il dominio
coloniale. La dicotomia storicamente presente nella società, santri e
abaangan, è alla base di una più moderna distinzione fra riformisti e
conservatori, fra coloro che ritengono necessario rivitalizzare l’Islam dal
basso e ridefinire le basi stesse della costituzione dello Stato moderno e
coloro che ritengono più opportuno conservare il principio che assurge a
norma generale del nuovo Stato indonesiano così come enunciato
all’indomani dell’indipendenza ottenuta nel 1945: il cosiddetto paca-
sila.
15
Questi due termini significano che nella costituzione del nuovo
Stato la linea che prevale non è quella che avrebbe voluto fondare sulla
Legge coranica gli ordinamenti statali, ma la linea opposta: dare vita ad
uno Stato che riconosce apertamente nel suo ordinamento la fede in Dio,
senza identificare questo Dio con quello dei musulmani o di altre religioni.
I cinque pilastri della nuova costituzione disegneranno uno Stato non
confessionale in una società a maggioranza musulmana con la finalità di
favorire la cooperazione fra le diverse comunità etniche e religiose e per
promuovere più facilmente il processo di identità nazionale. Identità
nazionale e fede in Dio sono i due fondamenti principali; ad essi si
aggiungono il rispetto dei diritti umani, la difesa del sistema democratico e
la tutela dei diritti sociali da parte dello Stato. Come si può notare l’Islam
indonesiano non produce uno Stato islamico, bensì un modello, almeno
inizialmente di tipo democratico volto a promuovere l’interazione pacifica
fra cultura e fedi diverse.
Artefice di questo progetto politico è stato il primo presidente della
Repubblica indonesiana, Sukarno. Questo modello ha conosciuto alterne
vicende; con l’ascesa al potere del suo successore, Sukarto, avvenuta nel
1968 grazie all’appoggio dell’esercito, lo Stato diventa uno strumento del
presidente e delle corporazioni militari ed industriali che sorreggono
l’assetto del potere costituito. Sukarto prosegue l’opera di netta distinzione
15
Constitutionalism and the Rule of Law, in http:// www. idea.int/ publications/
democratization_in_Indonesia /5_constitutionalism.pdf, aggiornato al 13 febbraio 2003.
17
fra la gestione della sfera politica ed il ruolo sociale dell’Islam; è il
periodo del cosiddetto Nuovo Ordine.
L’emarginazione dell’Islam da parte di Sukarto spinge i capi delle
confraternite e le organizzazioni socio-religiose islamiche a riconquistare
potere e autorità a livello locale.
Tuttavia anche nel momento di massima crisi politica, nel 1997, che
segna la caduta di Sukarto, non si delinea nessuna forza decisamente
orientata in senso fondamentalista che invochi l’instaurazione della Legge
coranica. Esiste un gruppo di radicali, il dewan dakhwan islamiyan, che si
ispira a Qutb e all’ideologia dei Fratelli Musulmani, ma è minoritario. Il
movimento che raccoglie la maggior parte delle adesioni si chiama
muhammadya e raccoglie i riformisti, coloro che ritengono necessario
trovare un punto di equilibrio fra tradizione religiosa e modernità,
esercitando l’interpretazione razionale della Legge codificata e
cristallizzatasi nel tempo. Al contrario un ulteriore movimento, il
nahdalatul ulama (letteralmente “la rinascita degli ‘ulama”), si propone di
conservare i caratteri storici dell’Islam indonesiano, sostenuto da un
seguito non indifferente.
Il modello indonesiano è interessante proprio perché l’Islam sembra
poter convivere felicemente sia con uno stato laico che con
l’organizzazione pluralistica della comunità dei credenti. Lo stesso partito
della rinascita degli ‘ulama nel 1984, per voce del suo leader, pur
riaffermando la necessità di difendere l’integrità della tradizione islamica
contro ogni forma di innovazione indebita, ribadiva la necessità di
distinguere l’Islam dallo Stato: ogni sovrapposizione, sosteneva, avrebbe
trasformato l’Islam in uno strumento di dittatura.
16
16
A. Feillard, Islam et société dans l’Indonésie contemporaine, L’Harmattan, Parigi, 1995.
18
4.2 Il subcontinente indiano: Pakistan e Bangladesh
Nel subcontinente indiano, invece, l’Islam conserva una sua specificità.
In ogni regione la società musulmana locale è nata dal rapporto di un
nucleo di immigrati con le caste o, più spesso, con segmenti di caste indù
convertite all’Islam. Si ha così una versione islamica del sistema delle
caste. Gli immigrati occupano, con i rari convertiti delle alte caste, il
livello più elevato della scala sociale. Al di sotto, i convertiti hanno
conservato la loro organizzazione in caste endogame e gerarchizzate, con
le loro professioni ereditarie. I musulmani in India, che sono una
minoranza comunque cospicua, circa il 20 % della popolazione, hanno
potuto integrarsi senza perdere la loro identità religiosa. Già i lavori
preparatori del 1946, alla vigilia dell’indipendenza dalla corona inglese,
prevedevano a nord est la consegna di alcune province alle comunità
islamiche; tali province, ad esclusione del Kashmir, tuttora territorio
oggetto di scontro fra indiani e pakistani, andranno a costituire il nuovo
Stato pakistano, fondato dunque sull’idea che i musulmani d’India
formassero una nazione e avessero diritto ad una loro patria territoriale.
17
Il problema principale del Pakistan era quello di creare un’identità
nazionale che riflettesse la realtà delle nuove frontiere politiche, e di dare
un regime accettabile e stabile ad un popolo diviso da nette differenze
etniche, linguistiche, ideologiche e religiose.
A differenza della Turchia, dove le élite erano dichiaratamente laiche e
nazionaliste, la lotta dei musulmani con una popolazione indù
maggioritaria e le profonde divisioni etniche tribali e locali presenti tra i
musulmani stessi, costrinsero l’élite politica ad adottare una forma
islamica di nazionalismo quale emblema unificante dello Stato
pakistano.
18
La lotta sul ruolo dell’Islam in Pakistan portò ad una lunga serie di
compromessi costituzionali. Una costituzione del 1956 dichiarò il Pakistan
Stato islamico e sottopose tutta la legislazione del Parlamento alla
revisione di un Istituto per la ricerca islamica.
17
G. Austin, The Indian Constitution, Oxford University Press, New Delhi, III ed., pp. 7 e 51,
2000.
18
I.M. Lapidus, Storia delle società islamiche. I popoli musulmani, Einaudi, Torino, 1995, I
ed., pp. 213 e ss.
19
Nel 1958 tale costituzione fu abolita e fu proclamata la Repubblica del
Pakistan, che cercò di piegare il potere dei capi religiosi. Nel 1963 furono
restaurate la maggior parte delle norme islamiche del 1956. Nel 1973 il
Primo ministro Bhutto ha dichiarato il Pakistan Repubblica Socialista
Islamica; il leader successivo, il generale Zia ul-Haq, ha proclamato
nuovamente il Pakistan Stato islamico.
A differenza del Pakistan, ad est dell’India il Bangladesh, ottenuta
l’indipendenza, ha imboccato la via del nazionalismo anziché quella
dell’islamismo. La costituzione del 1972 ha accolto il laicismo fra i propri
principi fondamentali ed ha bandito l’azione politica dei partiti religiosi,
Nel 1977, tuttavia, il nuovo regime militare ha attenuato il divieto
costituzionale delle attività musulmane ed ha sostituito il principio del
laicismo con un riferimento alla fede in Dio.
19
Dalle elezioni del 1979, il Partito nazionalista, che governa il
Bangladesh, ha riportato una vittoria schiacciante sui partiti islamici e
sostiene un programma di rinnovamento laico combinato con un generico
spirito di appartenenza religiosa islamica.
19
M.A. Ul-Islam, Manipulating the Constitution: Bangladesh and Pakistan as Case Study, in
http://www.eur.nl/frg/ccr/index.html, previa sottoscrizione come modificato dall’8 aprile 2003.