II
ascoltarlo anche lo stesso direttore spirituale del sultano, quel mistico sufi Ibrahim Farisi
sul cui cippo funerario al Cairo è ricordato l’incontro con il “famoso monaco”.
Questa menzione dell’incontro con Francesco sulla lapide funeraria indica che, al di là
delle incomprensioni, delle divergenze, delle ostili indifferenze, un segno, nella sensibilità
di quel religioso islamico, il passaggio del santo dovette averlo lasciato. E nemmeno
troppo superficiale, se si pensa che fu ritenuto significativo al punto di essere registrato
sull’ultimo, estremo contatto di quel musulmano con le generazioni superstiti.
D’altra parte, il biografo del santo, Tommaso da Celano, così riporta:
E una volta a un frate, il quale gli aveva domandato perché mai raccogliesse con tanta diligenza
anche gli scritti dei pagani e quelli in cui non era il nome di Dio, rispose: “Figlio mio, perché
tutte le lettere possono comporre quel nome santissimo; d’altronde, ogni bene che si trova negli
uomini, pagani o no, va riferito a Dio, fonte di qualsiasi bene!”
(1 Cel 82)
Francesco non era un nostro contemporaneo, né poteva avere una sensibilità di tipo
moderno. Ma la sua risposta al confratello dimostra che egli era qualcosa di più: era un
mistico.
Così, credo che dal suo incontro con il sultano egli seppe cogliere che nei rapporti con i
musulmani, più che una predicazione attiva, o un dispiegamento concettuale dei capisaldi
dottrinali del Cristianesimo, sarebbe stata assai più comunicativa una disposizione a
conoscere e a farsi conoscere scevra da sensi di superiorità, appoggiata a una condotta
semplice e sommessa. Al di là dell’apparente insuccesso s’intravede un approccio
estremamente innovativo, ispirato all’idea chiave di inserirsi nei differenti contesti socio
religiosi per conoscere e far conoscere la propria fede senza clamore, esprimendola più
col proprio modo d’essere che non verbalmente.
Così, se pure si può ritenere che anche per Francesco, uomo del suo secolo, fosse
piuttosto difficile conciliare la coscienza di possedere la rivelazione della vera fede con
l’apparente insuccesso religioso, possiamo nondimeno pensare che il santo abbia saputo
vedere, in ciò che gli accadde in Egitto, potenziali sviluppi inimmaginabili dai suoi
contemporanei e intuire che il suo commiato dal sultano avrebbe potuto non costituire la
parola “fine” sui rapporti con l’Islam. Egli infatti tracciò delle direttive di dialogo che
III
non vennero comprese dai suoi contemporanei e che solo diversi secoli dopo vennero
riscoperte e comprovate nella loro giustezza e modernità direttamente sul campo delle
relazioni interreligiose quotidiane.
Se questo fu veramente il suo atteggiamento, non si può non mettere in luce che
Francesco seppe perfettamente incarnare l’insegnamento coranico secondo cui “a Dio
solo appartiene l’argomento conclusivo”, e pertanto sospendere il proprio giudizio verso
gli “infedeli”, rinunciando così all’ultimo, forse, dei suoi possessi.
1
Capitolo I
L’Occidente all’alba del XIII secolo
● 1.1 La situazione politica
Il Duecento si distingue come il secolo che segna il ritorno dell’universalismo papale e la
crisi dell’impero. La morte prematura di Enrico IV di Svevia, avvenuta a Messina nel 1197,
sancì il fallimento dell’ambizioso programma di restaurazione del primato imperiale in
Italia e consegnò l’impero a una grave crisi politica.
La lotta per la successione, infatti, vedeva il partito svevo mettere da parte il figlio ancora
fanciullo di Enrico, Federico, e designare imperatore il fratello di Enrico, Filippo di Svevia.
La fazione avversaria, i guelfi, si oppose a tale scelta, eleggendo a sua volta Ottone di
Brunswick. Il contrasto tra i sostenitori dei due partiti finì ben presto per allargarsi sul
piano internazionale, coinvolgendo Riccardo I d’Inghilterra e Filippo Augusto di Francia,
che appoggiavano rispettivamente Ottone e Filippo.
E’ in questo clima di grandi contrasti politici e di diffusa incertezza che, l’8 gennaio 1198, il
nobile Lotario dei conti di Segni fu elevato al soglio pontificio con il nome di Innocenzo
III (1198-1216). Innocenzo III prese il timone della Chiesa in un momento di grave
confusine politica e di grande debolezza dell’impero, ma anche la Chiesa attraversava una
grave crisi, travagliata com’era al suo interno dalla crescente presenza di gruppi ereticali.
1
E’ questo il momento dell’apogeo del papato, in cui come vedremo sarà il papa stesso a
imporsi nella diatriba imperiale sottolineando così il momento di maggior debolezza della
figura imperiale, seppur a soli dieci anni dalla morte di Federico Barbarossa, crisi che però
prelude ad un’altra potente personalità, quella dell’imperatore Federico II (1216-1250). Nei
suoi trentacinque anni di regno Federico II si atteggiò in modo così diversificato nei
confronti dei poteri a lui concorrenti da essere definito di volta in volta re dei preti, martello
della Chiesa, Messia, Anticristo, Sultano Battezzato e difensore della cristianità. La continua
alternanza di atteggiamenti che caratterizzò il suo operato si riverberò costantemente nella
sua vita: ai successi più inaspettati succedettero infatti le più clamorose sconfitte.
1
G. Gentile, L. Ronga, A. Salassa Corso di storia, L’età Medievale pag.390-391
2
Tale comportamento era comunque dovuto alla coscienza ch’egli aveva di riunire sotto il
suo scettro una molteplicità di entità politiche diverse (la Germania, il Regno Italico, il
Regno di Sicilia), ciascuna con le proprie peculiari tradizioni da rispettare. Questo
convincimento consigliò all’imperatore l’esercizio di una politica pragmatica, tutt’altro che
uniforme, strettamente condizionata dalle circostanze.
Rimasto orfano in giovanissima età, il futuro imperatore venne affidato alla tutela di papa
Innocenzo III il quale, approfittando del fatto che la protezione esercitata sul sovrano gli
garantiva anche la reggenza temporanea del Regno, cercò coerentemente di inserire la
Sicilia fra i territorio alle dipendenze della Santa Sede.
Raggiunta la maggiore età Federico, eletto nel frattempo anche re di Germania nel 1212,
divenne in pochi anni l’unico candidato al trono imperiale: con la morte di Ottone di
Brunswick nel 1214 ogni altro pretendente al trono era stato eliminato. La candidatura di
Federico, inoltre, era stata caldamente appoggiata da Innocenzo III, che sperava di poter
proseguire il suo programma di egemonia universale con il consenso imperiale.
Tuttavia, pur basandosi sulla solida alleanza con la gerarchia ecclesiastica per sostenere e
rafforzare il suo potere politico, Federico dimostrò ben presto di non essere disposto a
rinunciare alla propria autonomia. Infatti, sotto il pontificato di Onorio III (1216-1227)
fece subito venir meno uno dei presupposti dell’espansione dell’autorità papale: la
separazione tra Impero e Regno di Sicilia. In tal modo lo spettro dell’accerchiamento
incombeva di nuovo sui territori della Chiesa. Nel 1220 Federico tornò in Italia per
trattare con il papa; in questa occasione riuscì a farsi incoronare imperatore a Roma, dietro
promessa di affiancare l’azione papale contro gli eretici, di difendere le libertà
ecclesiastiche e di mettere il proprio potere al servizio della Chiesa. Inoltre aveva
promesso al papa di partire al più presto in aiuto della quinta crociata; ma una volta
rientrato in Sicilia si dedicò invece alla riorganizzazione amministrativa del regno secondo
il criterio dell’accentramento monarchico.
E’ da notare come la politica di Federico II si sia ispirata, in Germania e in Sicilia, a due
indirizzi diametralmente opposti: in Germania l’imperatore fece larghe concessioni ai
principi garantendo loro autonomia, indebolendo la corona e accelerando il processo di
disgregazione dello stato germanico in una confederazione di principati alleati del re; in
3
Sicilia invece la sua azione si concretizzò nella restaurazione dei privilegi regi e nel
consolidamento della propria autorità. Il suo progetto politico però non poteva limitarsi
alla sola Sicilia: questa anzi sarebbe dovuta diventare, nelle sue intenzioni, il centro di un
impero mediterraneo. Partendo da tali presupposti egli tentò di estendere anche al Regno
Italico i criteri di governo accentrati che stava perseguendo in Sicilia, entrando
inevitabilmente in conflitto con la realtà complessa ma economicamente e politicamente
matura dell’Italia padana. Va da sé che le forze che avrebbe dovuto combattere erano i
Comuni, ormai totalmente indipendenti, e il papato, per il quale l’espansione regia
nell’Italia settentrionale avrebbe significato l’essere chiuso in una morsa.
Dopo un estremo salvataggio della situazione ad opera del legato pontificio Ugolino da
Ostia la situazione minacciò nuovamente di precipitare nel 1226 quando Federico,
nell’intento di riaffermare la sua sovranità sulla Lombardia, indisse una dieta a Cremona: le
città padane, forti dell’appoggio di Onorio III reagirono rinnovando la Lega Lombarda,
ma l’opera di mediazione dei rappresentanti ecclesiastici ancora una volta impedì la guerra
aperta.
I rapporti col papato si guastarono quando, alla morte di Onorio III (1227) venne eletto
Ugolino da Ostia come Gregorio IX: non solo Federico continuava a rinviare la
partecipazione alle crociate ma, in linea con la sua politica siciliana di tolleranza nei
confronti dell’Islam, aveva addirittura concluso un pacifico accordo con il sultano d’Egitto
al-Malik al-Kāmil. Ne seguì il lancio di una scomunica che portò ribellioni in Italia e
Germania e che venne annullata solo nel 1230.
2
Tutto ciò fu solo il preludio di futuri e più accesi scontri tra Federico, i Comuni e il papato
che portarono ad una serie di successi per l’impero e una seconda scomunica per
l’imperatore, culminando con una condanna senza appello e conseguente deposizione da
ogni titolo attuata dal nuovo papa Innocenzo IV nel 1245 e che causò un’ondata di
ribellioni e guerre intestine durante le quali Federico stesso morì (1250).
Se si guarda oltre i due grandi pilastri del panorama politico del tempo è chiaro che il XIII
secolo vide compiersi passi importanti nel processo di formazione delle monarchie
nazionali in Francia, Inghilterra, nella penisola iberica, nella regione scandinava e anche nel
2
Ibid pag. 410-412
4
centro Europa: non si trattò di un processo omogeneo ma di una tendenza diffusa
all’affermazione del potere pubblico. Infatti il declino dei poteri universali del papato e
dell’impero, che andò di pari passo con il formarsi delle monarchie nazionali, fu lento e
graduale.
Strettamente legata al graduale affermarsi delle monarchie nazionali fu l’evoluzione del
pensiero politico: la ripresa del diritto romano fece sì che le prerogative che esso aveva
attribuito all’imperatore venissero ora attribuite alla figura del sovrano al fine di perseguire
il bene comune. Fenomeni connessi furono: la centralizzazione del potere al fine di
limitare i poteri locali, la differenziazione del potere con la nascita dei primi consigli,
l’emanazione di norme al fine di regolare la gestione del potere.
3
Non a caso, infatti, è in questo periodo che viene emanata in Inghilterra la Magna Charta
(1215), frutto sicuramente di un momento di debolezza politica di Giovanni Senza Terra
ma che continuò poi a sussistere, sebbene in via formale ed epurata degli articoli troppo
lesivi della dignità regia. Effettivamente la Magna Charta può essere variamente intesa: può
essere interpretata come momento di regressione verso l’antico ordine politico e un
attacco alle pretese autocratiche e accentratrici dei sovrani inglesi o come anticipazione
delle moderne concezioni monarchico-costituzionali.
4
Nello stesso periodo la graduale formazione della monarchia francese visse un momento
fondamentale con Filippo II Augusto (1180-1223), il quale per primo assunse il titolo di
“re di Francia” e non più di “re dei francesi” e che con il decreto di Innocenzo III
Venerabilem (1204) si vide riconosciuto il fatto che “rex est imperator in regno suo”.
5
In Spagna invece, con la battaglia di Las Navas de Tolosa (1212), ebbe termine sia la fase
del predominio musulmano sulla penisola iberica sia il periodo più glorioso della
Reconquista, mentre si può dire che abbia avuto inizio la storia dei regni cristiani di
Spagna. Dopo la clamorosa sconfitta, infatti, gli Almohadi tornarono in Africa e la parte
musulmana della Spagna, quella meridionale, si frantumò in una miriade di emirati locali,
spesso in lotta tra loro, assai deboli politicamente e privi di ambizioni espansionistiche.
3
Ibid pag. 419
4
Ibid pag. 422
5
Ibid pag. 419
5
Dopo un primo momento in cui i sovrani di Castiglia ed Aragona, i più importanti regni
cristiani della penisola, a cui si deve aggiungere Navarra, piccolo regno dislocato nella
Spagna settentrionale, s’impegnarono nell’ampliamento dei confini dei loro stati, essi
preferirono poi rivolgere la loro attenzione al rafforzamento del loro potere.
6
Infine è di estremo interesse ricostruire la situazione bizantina poiché proprio in questi
anni nasce una realtà effimera dal punto di vista temporale ma fondamentale per i rapporti
con l’Europa orientale: la nascita dell’Impero Latino d’Oriente. Nei piani di Innocenzo III
volti a rendere più salda l’autorità della Chiesa romana c’era l’idea di una nuova crociata.
Tale crociata, la quarta, avrebbe dovuto rappresentare un’altra delle tappe dello scontro tra
la Cristianità e l’Islam; in realtà, a motivo della ridda di interessi politici ed economici che
intorno ad essa si coagularono, non fu altro che una crociata deviata, poiché di fatto non si
svolse contro gli infedeli ma contro i cristiani d’Oriente. I veneziani infatti s’impegnarono
a procurare ai crociati le navi, i viveri e l’equipaggiamento, in cambio di una cifra favolosa,
intravedendo nell’impresa la possibilità di consolidare la propria posizione in Oriente. Al
tempo, comunque, i veneziani avevano fortissimi interessi a Costantinopoli e si erano
convinti che la loro posizione di privilegio economico sarebbe stata garantita soltanto se
essi fossero riusciti ad impadronirsi dell’Impero d’Oriente, o almeno a controllarlo
politicamente.
L’Impero, dal canto suo, stava vivendo un grave momento di crisi interna sotto la debole
dinastia degli Angeli (1185-1204): nel 1195 aveva preso il potere, con un colpo di stato,
Alessio III che aveva deposto, accecato e imprigionato il suo predecessore Isacco II,
mentre il figlio di questi, Alessio, era riuscito a fuggire e a rifugiarsi in Occidente cercando
aiuto presso i veneziani per deporre l’usurpatore. Per Venezia tale richiesta rappresentava
l’occasione tanto attesa per intervenire nelle vicende politiche dell’Impero ed allontanare il
basileus Alessio III che aveva avviato una politica antiveneziana. I capi della crociata
guardavano anche loro con favore alla possibilità di porre sul trono un basileus amico viste
le continue difficoltà e ostacoli che, nelle precedenti crociate, i sovrani bizantini avevano
opposto ai progetti della cristianità. A tutto ciò si aggiunga che i crociati non avevano il
denaro necessario per pagare i servigi offerti dalla Repubblica ed erano perciò costretti a
6
Ibid pag. 424
6
scendere a patti con essa. Si cominciò così con la conquista di Zara. Il pontefice, venuto a
conoscenza del saccheggio della città, scomunicò l’intera spedizione ma, allorquando
Alessio comunicò che, se avesse ricevuto l’aiuto desiderato, avrebbe provveduto a pagare i
debiti crociati e soprattutto avrebbe favorito l’unione della chiesa bizantina a Roma,
Innocenzo III, visti gli indubbi vantaggi, non ostacolò più l’impresa.
L’esercito crociato giunse a Costantinopoli nel giugno del 1203. L’imperatore fuggì senza
quasi opporre resistenza e Isacco II ed Alessio IV ripresero il potere, ma non furono in
grado di mantenere le promesse fatte né di consolidare la loro posizione politica: furono
infatti deposti da una sommossa della popolazione, esasperata dal loro atteggiamento
filolatino e dalla loro gravosa politica fiscale. Gli occidentali approfittarono della situazione
per impadronirsi del trono e per saccheggiare la città con inaudita ferocia e rapacità (1204)
scegliendo poi uno dei capi della crociata, Baldovino di Fiandra, come imperatore.
Nasceva così un organismo politico atipico, l’Impero Latino d’Oriente, frutto sia della
degenerazione dell’idea di crociata, sia del deterioramento dei rapporti tra Oriente e
Occidente, sia delle cupidigie della feudalità occidentale. Il nuovo organismo politico
presentava tuttavia gravi motivi di debolezza: perché era caratterizzato da una notevole
frammentazione territoriale, perché la parte asiatica dell’Impero sfuggiva totalmente al suo
controllo, perché costantemente minacciato dagli antichi nemici di Bisanzio (Bulgari,
Turchi, Serbi), perché, infine, condizionato dalla fragilità delle sue strutture di governo.
Difatti si attribuiva al potere centrale un’autorità assai limitata e si garantiva notevole
autonomia alle signorie locali; tali premesse spiegano come mai l’Impero fosse precipitato,
sin dalla sua fondazione, in una situazione d’anarchia che portò con sé una forte instabilità
economica ed un endemico malcontento sociale. Ecco perché già nel 1261 i bizantini
riuscirono a riconquistare Costantinopoli ponendo fine all’effimera avventura dell’Impero
Latino d’Oriente: le compiaciute vanterie dei crociati di aver posto fine allo scisma e
riunito la Chiesa non divennero mai una realtà, al contrario la loro crudeltà lasciò un
ricordo che non sarebbe più stato perdonato.
7
7
Ibid pag. 391- 394
7
● 1.2 Il fenomeno delle crociate
Le crociate furono l’autorappresentazione di una società. Esse non erano una realtà stabile
né un obbligo religioso ma una realtà sporadica. Erano il frutto delle ambizioni dei papi,
delle pratiche devozionali del laicato, dello sviluppo del culto cavalleresco e del codice
aristocratico fondato sull’onore, dell’espansione economica di alcune parti dell’Europa e,
infine, delle iniziative religiose dei riformatori della Chiesa. Le crociate effettivamente non
furono il fenomeno uniforme che immaginiamo ma furono una realtà mutevole, un
mezzo per soddisfare i bisogni più diversi.
Non a caso la prima crociata venne vissuta dai contemporanei come un evento unico e
irripetibile, un’occasione eccezionale offerta ai fedeli da Dio, non certo come fu vista in
seguito, cioè come una nuova forma di guerra santa. E lo stesso si può dire della seconda:
non si mirava a creare un movimento organizzato né si fu in grado di dare un nome al
fenomeno, tant’è che non vi era effettiva distinzione tra il guerriero e il pellegrino, tra la
spedizione armata e il pellegrinaggio penitenziale. Il motore delle prime crociate fu quindi
un forte impulso di devozione, il desiderio di un atto di pentimento e di remissione dei
peccati, e queste non erano altro che motivazioni tradizionali imbevute delle aspirazioni e
ansie spirituali del tempo.
Al contempo però cominciarono a instaurarsi delle tradizioni: la più importante era
l’adozione cerimoniale della croce cui si accompagnava una sorta di remissione delle pene
e dei peccati, e un insieme di privilegi come la protezione della Chiesa, l’immunità giuridica
per il tempo della spedizione e la moratoria sui debiti. L’atto cerimoniale del prendere la
croce conferiva protezione e immunità personale in quanto emblema devozionale e voto
pubblico e sanciva il momento in cui i privilegi divenivano effettivi assurgendo al
particolare status di portatore della croce.
Solo con la perdita di Gerusalemme nel 1187 e con la terza crociata lo status crociato
venne definito ufficialmente con una netta separazione dal “pellegrino” e il termine
crucesignatus ne divenne la designazione standardizzata. In particolare, una svolta decisiva si
deve a Innocenzo III che codificando le tendenze in atto contribuì concretamente a farne
un’istituzione attraverso le bolle Quia Maior (1213) e Ad Liberandam (1215). Oltre a statuire
una volta per tutte l’indulgenza plenaria, le protezioni e i benefici, si introduceva per la
8
prima volta la possibilità di sciogliersi dal voto della croce per denaro, una possibilità che si
rivelò economicamente vantaggiosa: il “crociato” otteneva indulgenze e protezioni penali
proporzionali al denaro versato per sciogliersi dal voto del viaggio in Terra Santa.
Comunque lo sviluppo del movimento crociato continuava ad essere alimentato più dalla
prassi che dalla teoria; l’imprecisione ne era una caratteristica intrinseca ed elemento
portante della sua malleabilità. E’ un fatto che la crociata fu la risposta su vasta scala ai
problemi di difesa, espansione e controllo: fu utilizzata in Siria, in Egitto, ma anche in
Italia, in Grecia, in Germania e in Inghilterra; contro musulmani, eretici, ribelli e ovunque
si presentassero rivali politici del papato, anche se è vero che le crociate non dirette in
Terra Santa non goderono mai del consenso generale.
Il motore delle crociate fu sicuramente la predicazione: ai frati venne attribuito il compito
specifico di creare sermoni che spiegassero gli obblighi e mostrassero gli incentivi così da
creare un contesto morale e provvidenziale entro cui calare un esempio stimolante. Il fine
era l’evangelizzazione di massa. I predicatori utilizzavano i sermoni per dare pratica alla
nuova teologia pastorale: attuare la riforma morale, incitare al pauperismo, incoraggiare la
confessione personale e la penitenza.
Gli storici distinguono storicamente otto grandi crociate. La prima crociata (1095-1099)
nasce con l’appello lanciato da Urbano II alla conclusione del concilio di Clermont (1095).
L’entusiasmo è generale, caricato anche da segni e aspettative escatologiche: la pietà, la
penitenza, il miraggio della Gerusalemme celeste spingono nobili e villani alla partenza.
Effettivamente due sono le crociate che si svolgono: quella “ufficiale” detta Crociata dei
principi, comandata da Goffredo di Buglione, Roberto di Normandia, Raimondo di
Provenza e Boemondo di Taranto, e la Crociata popolare guidata da Pietro l’Eremita.
Quest’ultima, nata dal fervore popolare, ha però vita breve: mal organizzata e male armata,
presa la via dei Balcani finisce massacrata dai Turchi nel 1096. Le armate regolari invece,
sorrette in battaglia da segni divini, riescono dopo molte vicissitudini a conquistare
Gerusalemme (e a saccheggiarla) nel 1099. Grave mancanza dei crociati fu quella di dare
per scontata la totale sconfitta dei musulmani e non consolidare le proprie posizioni in
Terra Santa lasciando solo un piccolo contingente armato nella città santa.
9
La seconda crociata (1145-48), difatti, viene a seguito del risveglio dell’Islam: il
governatore di Mossul, ‘Imād ad-Dīn Zengī, ottiene un reale sostegno popolare al suo
appello alla jihād e riesce a conquistare Edessa, la capitale del primo stato fondato dai
franchi in Oriente. Gli eserciti che si schierano in campo per l’Occidente sono quello
tedesco di Corrado III e quello francese di Luigi VII. Le forze tedesche vengono
rapidamente annientate nel 1147 e l’anno seguente la fanteria franca subisce lo stesso
destino. I contingenti rimasti, riunitisi a Gerusalemme, decidono di attaccare Damasco ma,
alla notizia dell’avvicinarsi dell’esercito nemico, fuggono ignominiosamente. L’ideale
crociato sembra morire sotto il mare di critiche e l’accusa della sconfitta come castigo
divino per i peccati commessi dai crociati.
Ma il 1187 è una data cruciale: il Saladino (Salāh ad-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb), unificatore
dell’Egitto e della Siria e padrone dell’Iraq, annienta l’esercito franco ad Hattīn e
riconquista facilmente Gerusalemme. La chiamata alle armi di Clemente III per la terza
crociata (1188-92) è ascoltata dall’Imperatore Federico Barbarossa, dal re d’Inghilterra
Riccardo Cuor di Leone e dal sovrano capetingio Filippo Augusto. Come nella crociata
precedente il basileus di Costantinopoli crea difficoltà al passaggio dei soldati tramando
persino il tradimento ma viene scoraggiato dalle minacce dei crociati. Dopo un
promettente avvio però l’esercito tedesco è costretto a rinunciare: Federico Barbarossa
muore annegato durante un guado in Cilicia. L’esercito franco di Filippo invece ritorna in
patria dopo aver liberato San Giovanni d’Acri, che sarà per i cent’anni a venire la capitale
del secondo Regno Latino, senza però tentare di spingersi oltre. Resta solo l’esercito
inglese di Riccardo: dopo una serie di esaltanti vittorie che lasciano libera la strada per
Gerusalemme e che spingono il Saladino a proporre uno stato misto franco-musulmano
con Gerusalemme città aperta, all’ultimo il re inglese preferisce impadronirsi di una ricca
carovana proveniente dall’Egitto piuttosto che sferrare il colpo decisivo. Smanioso di
ritornare in patria dove suo fratello, Giovanni Senza Terra, trama contro di lui, conclude
una pace frettolosa in cui viene riconosciuto il nuovo stato latino e l’accesso a
Gerusalemme è garantito ai pellegrini disarmati. L’esito perciò è miserevole: la città santa è
ancora in mano ai musulmani e il Regno Latino è ridotto a una lingua di terra affacciata sul
mare.
10
Abbiamo poi visto come la quarta crociata (1202-04), nata dall’iniziativa papale, sia stata
piegata agli interessi veneziani e combattuta contro Bisanzio, irrigidendo l’ortodossia
antiromana e aggravando la separazione delle chiese, separazione che dura ancora ai giorni
nostri.
E’ alla quinta crociata (1217-21) che dobbiamo rivolgere particolare interesse. Nel 1215
Innocenzo III indice un concilio in Laterano durante il quale vengono stabiliti nel dettaglio
i criteri organizzativi della missione, la cui partenza è fissata per il 1° giugno 1217.
L’intenzione è quella di suscitare una mobilitazione generale dell’Europa cristiana,
preparata spiritualmente con preghiere e processioni. L’istanza viene poi raccolta dal
nuovo papa, Onorio III, dopo la morte di Innocenzo III nel 1216.
L’appello attecchisce negli stati periferici dell’Occidente che mai in precedenza avevano
aderito alle iniziative crociate: l’Ungheria di Andrea II e l’Austria di Leopoldo VI. Tutte le
tecniche attuate dai crociati in combattimento si rivelano infruttuose: i musulmani,
numericamente inferiori, si dileguano al sopraggiungere del nemico e, applicando la tattica
della terra bruciata già utilizzata dal Saladino, distruggono le fortificazioni che farebbero
assai comodo ai franchi per tenere l’entroterra. La situazione scoraggia il re ungherese che
riparte per l’Occidente già nel 1218. Il duca d’Austria e il re del Regno Latino Giovanni di
Brienne, invece, dopo aver consolidato le conquiste sul territorio, decidono di mirare al
cuore del regno musulmano così da eliminare il problema alla radice e attaccano di
sorpresa la città di Damietta, testa di ponte per l’assalto al Cairo. Nell’agosto del 1218 la
capitolazione della Torre della Catena, chiave di volta dell’accesso alla città, causa la morte
di dolore del sultano al-‘A’dil. Il nuovo sultano, al-Kāmil, cerca di intavolare trattative: in
cambio della rinuncia all’assedio e all’evacuazione dell’Egitto da parte dei crociati si offre
di restituire loro per intero il regno di Gerusalemme, di ricostruire le fortezze rase al suolo
e di concludere una pace trentennale. Giovanni di Brienne e il grosso delle forze crociate
sarebbero disposti ad accettare ma entra in scena il legato pontificio, lo spagnolo Pelagio,
che giunto in Egitto rivendica il comando militare dell’armata della Chiesa. Il Pelagio e il
partito ecclesiastico si oppongono decisamente all’offerta: per il legato, la presa di
Damietta preannuncia la conquista totale dell’Egitto, resa possibile dall’arrivo dei
fantomatici rinforzi inglesi. Tale fazione è supportata dai mercanti italiani che vi
11
intravedono il monopolio del commercio nel Levante, e dai soldati, accecati dalla
possibilità di ricchi bottini.
Come sembra isolata in questi frangenti la voce di san Francesco, che nel bel mezzo dei
combattimenti è giunto fin qui a predicare e a lanciare l’idea di una missione presso gli
infedeli.
E’ dunque la fazione del legato a prevalere, inducendo i crociati a respingere le proposte di
pace di al-Kāmil; così Damietta capitola sotto la furia crociata. Che i crociati abbiano
potuto prendere piede in Egitto ha un’enorme risonanza nel mondo islamico come pure in
quello cristiano: così, i saraceni danno la Palestina per persa e ne smantellano le
fortificazioni fino a Gerusalemme compresa, mentre i cristiani prestano fede alle
predizioni che avvertono dell’imminente caduta di Alessandria e di Damasco, e si
attendono l’intervento risolutivo di Federico II, che ha preso la croce nel 1215.
Nel campo crociato tuttavia i dissensi si acuiscono: Giovanni di Brienne, disgustato dalla
pretenziosità del legato, lascia Damietta nel marzo del 1220, e l’esercito franco se ne sta
per un anno con le mani in mano ad aspettare ipotetici rinforzi dall’Occidente. Frattanto
in Palestina al-Mu‘azzam, fratello del sultano, si impadronisce di Cesarea, mentre giungono
aiuti anche dalla Siria e dalla Mesopotamia, e in Egitto al-Kāmil fa costruire la fortezza di
Mansura.
Bruscamente, il 29 giugno 1221, Pelagio dà il segnale della marcia sul Cairo. Fermati dalla
fortezza di Mansura e dalla piena del Nilo, accerchiati nel pantano dai musulmani, i
crociati capitolano il 30 agosto con la promessa formale di abbandonare Damietta e di
liberare i prigionieri, contro la garanzia di poter fare liberamente ritorno a San Giovanni
d’Acri e di una tregua di otto anni. Cominciata sotto i migliori auspici, la grande campagna
d’Egitto è finita in un gigantesco tracollo: l’ostinazione di Pelagio, la scarsità di effettivi,
l’egoismo mercantile degli italiani hanno fatto sfumare l’occasione di riprendere senza
combattere il regno di Gerusalemme.
La sesta crociata (1228-29) è un impegno inevitabile per l’Imperatore Federico II,
crocesegnato fin dal 1215, ma, trattenuto prima dagli affari tedeschi e quindi
dall’incoronazione imperiale, tarda a rispondere ai pressanti inviti di Onorio III. Per
spronarlo, il papa concepisce nel 1223 il progetto di dargli in moglie la figlia di Giovanni di
12
Brienne, Isabella, erede al trono di Gerusalemme. Il matrimonio è deciso, la crociata
proclamata e la data di partenza fissata per il 1225, ma l’imperatore riesce a rinviarla prima
fino al 1227 e poi ancora di un anno prima di incappare nella scomunica del papa. In realtà
Federico cercava di ottenere la città santa per via diplomatica: il sultano al-Kāmil, in lotta
col fratello al-Mu‘azzam, sollecitava l’aiuto dell’imperatore a prezzo della cessione di
Gerusalemme, ma la morte di al-Mu‘azzam annullò improvvisamente le trattative. Anche
in Terra Santa Federico non ha vita facile: gli ordini cavallereschi di stampo ecclesiastico si
rifiutano di collaborare con uno scomunicato che intrattiene rapporti diplomatici con i
musulmani. Ciò nonostante egli riesce a forzare la mano al sultano, che nel 1229 a Giaffa
sottoscrive un trattato che restituisce ai franchi, senza spargimento di sangue, la città santa
esclusa la spianata del Tempio; inoltre, riconosce loro il possesso della regione di Nazareth
e del territorio fino a Betlemme, e pone una tregua decennale. Federico si reca a
Gerusalemme e nella basilica del Santo Sepolcro si incorona da se stesso tra lo sdegno
generale. L’ostilità ecclesiastica è tale che l’imperatore lascia subito Gerusalemme senza
munirla di adeguate opere difensive, così, nel 1244, la città santa andrà definitivamente
perduta per almeno sette secoli. Il trattato di Giaffa aveva conseguito risultati superiori a
tutte le crociate precedenti, ma troppo scandalo aveva suscitato l’atteggiamento
dell’imperatore, improntato alla tolleranza verso gli infedeli; atteggiamento che agli occhi
occidentali aveva seppellito l’idea stessa di crociata.
Le ultime due crociate, la settima (1248-54) e l’ottava (1270), sono entrambe guidate dal re
di Francia Luigi IX detto il santo. In un Occidente sempre più disinteressato agli appelli
della Terra Santa Luigi è portatore di una devozione antica: re cristianissimo, è modello di
cavaliere per il quale il santo pellegrinaggio è un dovere di coscienza. Nel disinteresse
generale la crociata resta un affare esclusivamente francese.
La settima crociata viene puntigliosamente preparata sotto ogni aspetto, l’obiettivo è
ancora una volta il Cairo. Eppure il re di Francia non riesce a sfruttare le prime vittorie che
gli consentono la conquista di Damietta: esita nel momento decisivo e attacca nel
momento più sfavorevole. La disfatta è inevitabile e Luigi viene catturato e rilasciato a
costo di un altissimo riscatto.