7
In questo momento siamo il terzo Paese nel mondo per numero di serial
killers, vi è inoltre un numero crescente di omicidi per “futili motivi”, e
soprattutto stando anche alle recenti cronache vi è un alto tasso di
omicidi-suicidi e di family mass murder.
Parlare di crimine violento significa mettere in evidenza due fattori: 1) Il
reato è posto in essere attraverso un comportamento violento ed estremo.
2) Il reato è apparentemente senza motivo o commesso per futili motivi.
Tenendo presenti tali fattori si deve sgombrare il campo da due equivoci
comuni: in primo luogo, questi reati non sono né nuovi, né totalmente
diversi dagli altri reati, ciò che li distingue è solo la loro minore
rilevanza statistica rispetto agli altri crimini, non bisogna definirli come
eccezionali o speciali, perché gli si dona un’aurea magica e misteriosa
che distorce la realtà di questi fenomeni, essi sono semplicemente la
specie di un genus; in secondo luogo, bisogna evitare di definire questi
reati come crimini senza movente, quest’ultimo è un concetto legale
collegato ad aspetti pratici, è una sorta di causa del reato, lo scopo
individuale del reato. E’ difficile trovare un reato privo di movente. Il
fatto che il movente di un reato non ci sia o non sia chiaro non significa
che esso non esista ed è per questo che si distinguono i moventi pratici,
materiali ed esogeni da quelli psicologici ed endogeni.
8
Se dissipiamo il campo da questi comuni equivoci, avremo già fatto un
gran passo avanti per la comprensione del crimine violento.
Questo lavoro ha l’obiettivo di trattare l’efferatezza nell’attuazione del
crimine su due campi paralleli, quello dello studio relativo alla capacità
d’intendere e di volere, e quello dello studio relativo all’incapacità di
intendere e di volere. Lo scopo di questi due percorsi è di mostrare la
fondamentale importanza della perizia criminologica all’interno del
processo; con essa, infatti, si cerca di fare un’analisi criminologica della
personalità del reo, importantissima ai fini dell’esistenza o meno
dell’imputabilità e quindi della scelta sull’erogazione della pena. Genere
di perizia che attualmente non è prevista nel nostro ordinamento.
9
CAPITOLO 1
LA TENDENZA A DELINQUERE
(ART.108 C.P.)
10
1.1 L’INDIVIDUO COME UNITA’ D’ANALISI:
DIBATTITO DI FONDO
Fino alla prima metà del secolo scorso, le conoscenze, le valutazioni, e
le reazioni sociali relative ai crimini e ai criminali rinviavano ad una
complessa e disomogenea saggezza, retaggio di millenni di pensiero e
d’esperienze espressi nelle forme della religione e della morale, dell’arte
e della letteratura, della filosofia, della medicina con i suoi dintorni e, in
senso più specifico, del diritto con la dottrina.
1
La nascita della criminologia, quale disciplina scientifica, può essere
immaginata come una risposta all’aspettativa di trovare un criterio
unitario, positivo, fattuale, in termini di dati e segni, per regolare e
definire l’eccessiva complessità di quei discorsi, nell’insieme
decisamente inadeguati a far fronte alle nuove esigenze di scelte e di
azioni di politica criminale.
I primi studi scientifici in questo campo sono, infatti, orientati
dall’obiettivo di individuare un’unità e un metodo di analisi capaci di
1
DE LEO G.- PATRIZI P., La spiegazione del crimine, Il Mulino, Bologna, 1999
11
disegnare i confini entro cui porre la criminalità, il crimine violento,
l’autore di esso.
Fin dal principio il presupposto di una trasferibilità degli strumenti
utilizzati nelle scienze fisiche ai fatti umani e sociali ha potuto suggerire
e sostenere l’ipotesi di una conoscenza del crimine violento basata sullo
studio del criminale, nei suoi aspetti osservabili: in primis l’aspetto
fisico ed esteriore. Ciò ha favorito il consolidamento, in veste scientifica,
di assunti e credenze di senso comune tesi a discriminare il bene dal
male e riconoscere il “cattivo” per difendersene e separarlo dai “buoni”.
2
I primi tentativi in questa direzione costituiscono il preludio di quello
che sarà poi la nascita in senso stretto della criminologia, predisponendo
un terreno fertile per i successivi sviluppi di questa scienza.
Nel 1700 si affermano studi che mirano a definire i tratti osservabili e
riconoscibili del criminale, con il chiaro obiettivo di mettere ordine nella
realtà, attraverso la classificazione e la categorizzazione degli individui.
La fisiognomica, la frenologia, la teoria della degenerazione e la scuola
degli alienisti, seppure appartenente alla “preistoria” della criminologia,
introducono ipotesi tipologiche che, con diversi adeguamenti e
aggiustamenti, manterranno la loro fortuna, alimentando l’idea che sia
possibile individuare nel criminale caratteristiche che siano, al tempo
2
SIMON R., I Buoni lo Sognano i Cattivi lo Fanno, Cortina, 1996
12
stesso, espressione della sua diversità e “presagio” del suo
comportamento.
E’ su questa base che muove i primi passi la “Scuola Positiva”,
abbracciando, in forma ridotta, spesso distorta e semplificata, le teorie
evoluzioniste darwiniane come premessa a conferma della proprie
ipotesi.
Fedele al metodo sperimentale e induttivo delle scienze naturali,
Lombroso, padre oggi “discusso” del positivismo criminologico,
conduce le sue prime indagini sulla popolazione detenuta, ricercando
espressioni viventi dell’ipotesi di una possibile regressione dell’uomo a
stadi di evoluzione atavici, primordiali. Nella sua opera più famosa,
“L’uomo delinquente” (1876), Lombroso introduce la categoria del
“delinquente nato”, applicabile ai criminali per un 70%, dato
ridimensionato nel corso delle successive edizioni dell’opera al 40 e
30% della popolazione criminale, composta anche di “delinquenti folli”
e di “delinquenti occasionali”.
Il delinquente “nato” è un individuo segnato da stigmate esteriori: “Un
cervello di dimensioni eccessive o troppo ridotte, una fronte bassa,
zigomi pronunciati, occhi strabici, sopracciglia folte e prominenti, naso
storto, grandi orecchie, mascelle troppo avanti o indietro, barba rada in
confronto alla quantità di peli del corpo e braccia troppo sviluppate” e da
13
caratteristiche psicologiche e comportamentali: “Mancanza di senso
morale, vanità, crudeltà, pigrizia, l’uso di un gergo da delinquente, una
specifica insensibilità nervosa al dolore, con disprezzo della morte e
della sofferenza, ed infine, un’inclinazione al tatuaggio”.
E’ con la categoria del delinquente occasionale che Lombroso introduce
la variabile socio-ambientale, come elemento attivatore/rilevatore di
condizioni anormali, comunque congenite, fino a considerare probabile,
negli ultimi anni della sua opera, un’ipotesi multifattoriale.
Le critiche all’opera di Lombroso si basano, per lo più, sulla
considerazione che la sua formazione medica lo aveva portato a
trasferire in ambito criminologico un metodo e una strumentazione non
pertinenti alla ricerca sociale, né adeguato alla complessità di un
fenomeno non unitario, quale quello della criminalità.
Successivamente anche l’antropologo americano E. Hooton (1939)
riprende le teorie lombrosiane, sostenendo l’ipotesi dell’inferiorità
biologica del criminale, ma la sua tesi incontrò aspre critiche nel mondo
scientifico.
14
Alla fine della seconda metà del 900, le ricerche sui gemelli monozigoti
e dizigoti sviluppano un approccio ereditaristico già precedentemente
avviato dai tentativi di tracciare delle genealogie di famiglie criminali.
Infatti, la prevalenza di un “comportamento concordante” negli
omozigoti spinge alcuni studiosi, tra qui Lange, a sostenere l’ipotesi di
una base ereditaria del comportamento criminale, ben presto smentito da
ricerche successive che riconsiderarono il rapporto eredità-ambiente.
Contemporaneo alla ricerca sui gemelli è l’interesse al rapporto fra
fattori endocrini e criminalità, che cercò di indirizzare la ricerca
sull’individuo-agente in un’altra direzione. Infatti, tali studi
riprendevano le tesi lombrosiane del delinquente biologicamente
predisposto, introducendole come espressioni di disturbi ghiandolari
trasmessi dalla madre al “futuro delinquente”.
Le ricerche del xx esimo secolo continuano e le tipologie costituzionali
elaborate da E. Kretschmer in campo psichiatrico e da W. H. Sheldon in
criminologia sembrano riproporre, in veste scientifica, antichi e diffusi
stereotipi di visibilità corporea dei tratti temperamentali.
Il comportamento folle e quello criminale appaiono nuovamente
prevedibili sulla base dell’aspetto somatico, contenitore, quasi
“enologico”, di caratteristiche psicologiche e comportamentali.
15
La scoperta di anomalie nel corredo cromosomico suggerisce, intorno
agli anni ’60, l’ipotesi di una correlazione con il comportamento
criminale. La presenza del cromosoma sopranumerario Y, in alcuni
detenuti, con statura più alta del normale e intelligenza inferiore alla
media, ripropose l’ipotesi del delinquente nato.
L’extra Y sembrò poter spiegare la tendenza di quei soggetti a compiere
delitti particolarmente efferati, rappresentando la base genetica del
comportamento violento.
Anche queste ricerche effettuate su un campione numerico scarso e poco
rappresentativo, perdono ben presto rilevanza criminologica, lasciando
spazio a ipotesi multifattoriali nella genesi di reazioni aggressive, come
possibili “associazioni” secondarie all’anormalità genotipica.
16
1.2 IL CRIMINE VIOLENTO: TEORIE ODIERNE
Ancora oggi, il tentativo di spiegare la criminalità, almeno nelle sue
espressioni più eclatanti e patologiche, rappresenta un obiettivo della
ricerca biologica.
Molti studi in neurologia e psicologia fisiologica muovono dall’assunto
che sia possibile individuare fattori biologici in grado di spiegare la
caratteropatia e il comportamento criminale violento.
Certamente il modello lombrosiano presentava limiti e vizi metodologici
che la ricerca successiva ha evidenziato e contenuto, senza però
abbandonare la “pretesa” di applicabilità del paradigma biologico alla
spiegazione del comportamento criminale.
La biologia ha così posto un velo sulla complessità del fenomeno,
disconoscendone o non considerandone gli aspetti interattivi, normativi e
di significato sociale che lo organizzano a livello di espressione
individuale e che orientano le politiche di selezione informale e
istituzionale.
3
3
DE LEO G. – PATRIZI P., La spiegazione del crimine, il Mulino, Bologna, 1999
17
L’assunto di base è che un comportamento sociale, quale la criminalità,
possa essere analizzato e spiegato attraverso variabili -
bioantropologiche, genetiche, costituzionali, cromosomiche - comunque
interne al corpo umano.
La criminologia di stampo biologico è così incorsa in un grossolano
errore, sovrapponendo dimensioni appartenenti a diversi piani logici. In
altre parole, il paradigma biologico ha privilegiato il livello logico più
lontano al piano di realtà cui il comportamento criminale appartiene,
considerando le altre variabili - psichiche, sociali, interazionali - come
prodotti di determinismo ascritti biologicamente.
Queste considerazioni ci permettono oggi di guardare al paradigma
biologico e all’unità di analisi centrata sul corpo, come tentativi
storicamente e scientificamente superati, pur potendo riconoscere, al
contempo, dignità scientifica all’interesse clinico per la dimensione
biologica. Sarebbe, infatti, riduttivo trascurare in ambito clinico, gli
aspetti e le problematiche neurologiche, fisiologiche, costituzionali.
Il nostro corpo e l’immagine che ne abbiamo rappresentano un possibile
indicatore del nostro modo di interagire e di orientarci nei processi
sociali, una forma di comunicazione con l’altro attraverso gli aspetti di
maggiore visibilità, quelli somatici. E’ attraverso la mediazione
cognitiva e simbolica operata dall’individuo in un contesto di
18
attribuzione sociale che caratteristiche, anche patologiche, ma in sé
aspecifiche, sono organizzate e strutturate entro ambiti di significato che
orientano e specificano l’emergenza di un comportamento. Ciò
evidentemente non può assumere rilevanza scientifica in termini di
predittività, né di spiegazione di un fenomeno, in sé complesso e
articolato, non unitario come quello criminale.
E’ per questo che ha avuto maggior seguito l’approccio psicologico, e
ciò per alcuni motivi.
Un primo ordine di motivi può essere definito come pratico-legale,
infatti, l’elemento psicologico è posto alla base del concetto di reato e di
punibilità dal nostro come dagli altri ordinamenti. Il reato, infatti, per
potersi configurare non ha bisogno del solo elemento oggettivo, ma
anche di quello soggettivo, non basta dunque la configurazione del fatto
materiale, ma è necessario anche il concorso della volontà. Infatti, per
valutare un reato e decidere la relativa pena, dobbiamo accertare la
partecipazione qualitativa del soggetto al reato e, in altre parole, il grado
di partecipazione psicologica al fatto delittuoso, ma non solo, prima di
fare ciò si dovrà valutare anche quantitativamente tale partecipazione, e
in pratica capire se essa ci sia stata o no, e in caso positivo in quale
misura è coinvolta. Per assolvere tale compito ci vengono in aiuto
quattro articoli del Codice Penale. L’art. 42 riferito alla struttura del
19
reato: “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta
dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà” e
gli artt. 85, 88, 89, che riguardano la persona del reo e recitano
rispettivamente: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla
legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso non era
imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere” (art.
85 C.P.); “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il
fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di
intendere o di volere” (art. 88 C.P.); “Chi, nel momento in cui ha
commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare
grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere,
risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita” (art. 89 C.P.).
Ogni volta che il giudice si troverà a dover giudicare ed eventualmente
condannare l’autore del reato, dovrà fare due tipi di valutazione che
coinvolgono la sfera psicologica, e cioè accertare prima se il soggetto è
capace d’intendere e di volere, se tale è ritenuto, il giudice dovrà anche
valutare ex artt. 42 e ss. C.P. il grado di partecipazione psicologica
dell’autore al reato, secondariamente definire quel reato doloso, colposo,
preterintenzionale e quant’altro.
Quindi la valutazione legale di un reato, specialmente in relazione a
taluni crimini, comprende anche un’importante valutazione psicologica,
20
è questa può essere la prima ragione per qui nella spiegazione e
comprensione di alcuni fatti criminali, l’approccio psicologico sia stato
preferito agli altri.
Un secondo ordine di motivi, per cui questa scelta preferenziale è stata
attuata, è dato dal fatto che tali reati hanno delle particolarità sotto
l’aspetto dei moventi e delle spinte motivazionali. Se è possibile
spiegare agevolmente una rapina, per cui l’autore è spinto dal desiderio
del profitto materiale; un omicidio terroristico giustificato da una
presunta o reale lotta politica; un omicidio di mafia per cui il killer è
pagato per compiere il suo crimine o uccide per tentare una scalata nelle
gerarchie di potere della criminalità organizzata; o ancora i reati white
collor; avremo delle difficoltà a spigare e comprendere i reati che
comunemente sono definiti come crimini violenti. Come spieghiamo,
infatti, che un soggetto apparentemente normale esca di casa a caccia di
una vittima da stuprare e uccidere? Come spieghiamo che un soggetto
irrompa improvvisamente in un ristorante o in altro luogo pubblico ed
affollato aprendo il fuoco sui presenti? Come giustifichiamo un padre
modello che improvvisamente stermina tutta la sua famiglia, o una figlia
che decide di uccidere sua madre e il suo fratellino?