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italiano. Nonostante gli stilisti riscuotano un successo
impressionante, anche in ambito internazionale, e spendano
annualmente decine di miliardi per comunicare utilizzando tutti
gli strumenti disponibili (stampa, sfilate, pubbliche relazioni, fiere,
ecc.), spesso sono aspramente criticati. Da parte di alcuni studiosi
di marketing e comunicazione (ad esempio Ugo Volli), la
comunicazione del settore moda italiano, viene tacciata di scarsa
efficacia, e ciò a causa, principalmente, di una gestione poco
professionale della funzione. Per onestà, è necessario rilevare che,
se è vero che persino all’interno delle griffes più note è difficile
trovare degli esperti in comunicazione specializzati nel settore, è
anche vero che il fashion marketing ha iniziato a muovere i primi
importanti passi solo pochi anni fa.
Il segmento dell’abbigliamento griffato è una realtà interessante,
ma estremamente complessa, e per capire come comunica con i
propri consumatori, ma soprattutto come dovrebbe comunicare, si
rende necessaria un’approfondita analisi che tenga conto di molti
fattori. Partendo da quest’ultima considerazione, sono stati definiti
i tre obiettivi principali di questa tesi. In primo luogo, è necessario
comprendere lo stato attuale delle cose, cioè cercare di realizzare
una chiara panoramica, che evidenzi le peculiarità della
comunicazione effettuata dagli stilisti italiani. Il secondo obiettivo
consiste nell’individuare i maggiori problemi riscontrabili in
ambito comunicativo, facendo riferimento a quanto emerso in
precedenza e ad alcune critiche mosse dagli studiosi di marketing,
e metterne in risalto le probabili cause e le evidenti conseguenze.
Giunti a questo punto, dopo aver tracciato un quadro della natura
e dei difetti della comunicazione del sistema moda italiano, risulta
3
spontaneo domandarsi cosa distingue una buona comunicazione
in questo settore, ossia quali interventi possono aumentare
l’efficacia dei messaggi trasmessi dagli stilisti ed indirizzati al
consumatore-target. Le possibili risposte a questo quesito,
costituiscono l’oggetto del terzo ed ultimo obiettivo.
La struttura della tesi, segue il percorso logico dettato dalla
sequenzialità degli obiettivi. Il primo capitolo, dopo
un’introduzione sull’evoluzione della funzione comunicativa del
settore e sull’attuale dimensione economica del fenomeno,
descrive le modalità con le quali gli stilisti del made in Italy
utilizzano i diversi strumenti di comunicazione. In questa parte
dell’elaborato, si cerca di mettere in risalto le peculiarità settoriali
ed i fattori che determinano le attuali scelte comunicative dei
creatori italiani, senza esprimere giudizi di merito sulla qualità dei
messaggi emessi. Il secondo capitolo, invece, è focalizzato proprio
su quest’ultimo aspetto. Dopo aver ricordato quanto sia
importante, ma anche difficile, comunicare efficacemente per
un’impresa che si occupa di moda, l’argomentazione verte
sull’analisi dei principali problemi comunicativi del settore,
suddivisi in due macro-categorie: l’omogeneità dei messaggi,
sorprendente se si pensa alla grande fantasia dimostrata dagli
stilisti italiani nella progettazione del prodotto, e le carenze nella
pianificazione strategica, inaccettabile per imprese che fatturano
annualmente centinaia di miliardi, come le griffes italiane. In
qualsiasi realtà imprenditoriale, per comprendere e tentare di
risolvere un problema attinente una specifica funzione aziendale, è
necessario capirne la cause e studiarne gli effetti, per poterne
stimare la gravità. Questo, è proprio ciò che si è cercato di fare
4
considerando la comunicazione verso il consumatore del settore
dell’abbigliamento griffato in Italia. Nel terzo capitolo, adottando
un’ottica di marketing che prevede di prendere in considerazione
l’ambiente, inteso nel senso più ampio possibile, per la ricerca di
plausibili soluzioni ai problemi dell’impresa, sono stati scelti tre
ambiti potenzialmente interessanti: l’innovazione comunicativa
dimostrata da alcuni stilisti italiani, le scelte comunicative dei
principali concorrenti a livello internazionale (i creatori francesi) e,
infine, i suggerimenti deducibili dalla teoria economica. Il quarto
capitolo, si propone di verificare praticamente quanto emerso nelle
sezioni precedenti, ed in particolar modo l’esistenza di un
problema d’omogeneità dei messaggi, relativamente ad un ambito
specifico della comunicazione settoriale: la pubblicità sulla carta
stampata, che è una delle forme più utilizzate dagli stilisti italiani
per “parlare” al proprio pubblico. A tale scopo, è stata condotta
un’indagine sulle consumatrici, alle quali è stato chiesto di
rispondere ad alcune domande, dopo aver visionato tre immagini
di griffes italiane tratte da una diffusissima rivista femminile. I
quesiti posti, mirano ad evidenziare, e quantificare, alcune
particolari reazioni del campione alla visione dell’annuncio
pubblicitario (ricordo, riconoscimento, elementi percepiti,
gradevolezza del messaggio e del prodotto). Sono state scelte
queste variabili, perché rappresentano i fattori che maggiormente
determinano l’efficacia di un’immagine pubblicitaria.
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CAPITOLO 1
I MEZZI E LE MODALITA’ COMUNICATIVE DEL
SISTEMA MODA
1.1 Introduzione
1.1.1 Cenni sulla nascita e l’evoluzione del rapporto tra
funzione comunicativa e settore delle griffes
Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad una rapida e
profonda trasformazione del settore tessile-abbigliamento, ed in
maniera particolare di quella fascia alta (per qualità, prezzo,
design) che rappresenta il segmento moda. Non solo è cambiato
radicalmente il prodotto, e non poteva essere diversamente, ma
l’intero complesso del sistema d’offerta, dei modelli strategici
perseguiti e dei fattori critici di successo. Adottando una visione
un po’ semplicistica del fenomeno, si potrebbe spiegare questa
significativa evoluzione come la risposta dell’impresa, più o meno
puntuale, ai continui ed inevitabili cambiamenti nelle
caratteristiche dei consumatori target. Solo per ricordarne alcune
basti pensare al reddito medio dei consumatori, all’atteggiamento
verso il prodotto o alle modalità d’uso. Un aspetto particolarmente
interessante del processo di sviluppo, che ha riguardato il settore
6
delle griffes dell’abbigliamento, è l’evoluzione “parallela ed
interdipendente” della sua funzione comunicativa.
A tal proposito, per comprendere l’origine e la natura della
comunicazione di moda, così come oggi noi la conosciamo, può
essere utile ripercorrere schematicamente le tappe fondamentali di
questo peculiare rapporto. Il primo passo da effettuare consiste
nel datare la nascita del segmento produttivo oggetto d’indagine.
Fino agli anni Sessanta, la produzione di moda in Italia aveva
sostanzialmente due canali: l’Alta Moda e l’industria di confezione,
che facevano riferimento ad una tradizionale ed assodata divisione
sociale dei mercati. In questo decennio; avviene una
trasformazione che coinvolge l’intero ambito sociale. Modelli di vita
che derivavano dalla suddivisione in classi del sistema
capitalistico sono messi in discussione ed eliminati uno dopo
l’altro. Ed è all’interno di tutto questo che avviene il salto di
qualità del sistema produttivo italiano e comincia a muoversi il
nuovo. Alcune boutiques iniziano a far produrre capi
appositamente disegnati da vendere con il loro marchio,
contemporaneamente nascono o si trasformano piccole aziende
che si specializzano nella produzione pret à porter. In alcune di
queste nuove realtà imprenditoriali è possibile ravvisare i primi
tentativi finalizzati ad accrescere il ruolo della comunicazione. In
tali casi, le competenze comunicative dell’impresa non si riducono
ad una conoscenza analogica dell’utente obiettivo (giacché dedotta
dal profilo dei consumatori effettivi) e ad una generica capacità di
enfatizzare le caratteristiche fisiche del prodotto, bensì sono più
estese e soprattutto più specifiche. I produttori del settore si
concentrano sullo studio del consumatore potenziale
7
(comportamento d’acquisto, valenza simbolica attribuita al
prodotto…), perché il nuovo scopo della loro comunicazione
consiste nella legittimazione dell’appropriatezza della propria
offerta rispetto alle necessità individuali e sociali.
Conseguentemente i vestiti di moda riconquistano alla materialità
una dimensione simbolica capace di dilatarsi fino a discorso e
addirittura a visione dei rapporti personali. Verso la fine del
decennio tale originale tratto si estende e si consolida con
l’avvento dell’industria.
Quando l’abito imbocca la porta della fabbrica, nasce l’esigenza di
farlo riconoscere senza guardare l’etichetta. I frequenti
appuntamenti con la stampa accelerano tutto il sistema; dai 200
giornalisti delle prime sfilate nella Sala Bianca di Palazzo Pitti a
Firenze si passa alle migliaia d’operatori, agenti e fotografi della
Fiera di Milano, che seguono fedelmente i due appuntamenti con
la moda dell’estate e dell’inverno. Si moltiplicano i nomi della
moda ed il mercato è sopraffatto da proposte che debbono
dichiarare a prima vista la loro paternità. Il nome del creatore
prende il sopravvento, assume per passaggi graduali una
dimensione enfatica. Il congegno di comunicazione, però, è ancora
debole, dipendente: sfrutta in modo parassitario e non sistematico
i circuiti mitologici che altri soggetti (periodici, radio, tv) hanno
costruito.
Negli anni Settanta si assiste alla definitiva consacrazione dello
stilista come figura portante dell’intero sistema moda. Egli non
costruisce più l’abito sul consumatore, ma deve decidere quali
saranno i suoi clienti, ossia il mercato cui si riferisce. I principali
stilisti nascono proprio nel pret à porter, che può essere definito
8
come la realizzazione industriale dell’abito sartoriale,
accuratamente confezionato secondo le indicazioni di quei creatori
che saranno poi gli artefici dell’affermazione a livello mondiale
della moda italiana. Cominciano in quel periodo (verso la fine degli
anni 70’) ad imporsi nomi come Armani, Ferrè, Versace che sono i
precursori della politica del marchio, i primi che fanno e vendono
non solo un capo d’abbigliamento ma anche o soprattutto
un’immagine. Per queste nuove realtà aziendali al grande
coordinamento necessario per mantenere le posizioni raggiunte, o
per tagliare i nuovi traguardi, fa eco la necessità di un’altrettanta
forte capacità comunicativa. Diviene irrinunciabile il fatto di
presentarsi in modo eccellente in ogni momento e non solo più alla
stampa specializzata, quanto ai consumatori finali. A rendere più
unitaria l’operazione nascono gli studi grafici interni alla casa di
moda, sorvegliati dallo stilista che dimostra di sapere quello che
vuole. Non è un caso che proprio in questi anni nascano molti di
quei marchi (e rispettivi logos) che ci sono tanto familiari. Ad
accrescere l’importanza di una figura centrale, di un vero e proprio
punto di riferimento per tutte le attività dell’impresa, ed in modo
particolare per la comunicazione, vi è stata certamente anche una
profonda trasformazione nei modelli di consumo. L’evoluzione
verso una domanda frammentata in numerosi segmenti, ognuno
dei quali ricerca una marcata differenziazione, è stata
determinante. In questo periodo gli oggetti vengono connotati
come simboli di status che fanno riferimento a precisi bisogni.
Nell’abbigliamento questa modalità di consumo ha facilitato i
processi di diffusione della moda fondati su logiche integrative ed
imitative dei modelli pubblicizzati dai mass media. Questi ultimi,
9
grazie al loro impulso mitizzante che riunisce un pubblico
formulando un racconto indotto da figure archetipe, utilizza come
materia anche i creatori di moda e con ciò li aiuta a proiettarsi su
una dimensione più vasta.
Negli anni Ottanta si rileva un ulteriore sviluppo della moda che
segue da vicino l’evoluzione della società. Nascono nuovi segmenti
di mercato e la moda avvia un processo di “democratizzazione” che
si completerà nei periodi successivi. Per la prima volta le griffes si
allargano verso il mass market e diversificano la gamma di
prodotto. Tale comportamento è dovuto principalmente
all’emergere di nuove necessità da parte di nuovi clienti. I modelli
di consumo degli anni ottanta, grazie ad un diffuso benessere
economico, si basano sulla soddisfazione di esigenze di tipo
edonistico che incentivano l’acquisto voluttuario.. Il prodotto perde
così la sua valenza d’uso e, per mezzo della marca, diventa un
feticcio necessario per soddisfare la voglia di apparire attraverso la
ricerca del look. In questa fase la moda, da intendersi in senso
ampio, diviene la regina dei consumi. La modernità è il valore
dominante e conseguentemente viene privilegiata la ricerca di
segni tangibili che ne attestino l’appartenenza, tra questi l’abito. Il
pubblico, incerto e insicuro su come presentarsi agli altri, ha nelle
proposte degli stilisti chiari modelli da replicare. Si scopre quindi
che l’utilizzatore sceglie sulla base dell’aspetto estetico. Questo
avviene, non tanto perché all’acquirente non interessano più gli
aspetti funzionali o il rapporto prezzo/qualità, ma piuttosto perché
il consumatore, davanti ad un’offerta sempre più ridondante e
competitiva, comincia a dare per scontato che i prodotti siano
equivalenti a livello delle qualità intrinseche. Per questo motivo
10
sposta la scelta sugli elementi estetici, che gli compaiono come gli
unici differenzianti. Tra essi ricopre un ruolo fondamentale il
nome dello stilista, che assume le caratteristiche di una vera
marca ombrello, garantendo l’appartenenza di tutti prodotti alla
stessa area di gusto. La griffe aggiunge valore al prodotto sotto
forma di immagine e creatività. I sistemi di comunicazione,
adottati durante gli anni ottanta, puntano inevitabilmente alla
promozione di queste produzioni, enfatizzando fortemente
l’immagine degli stilisti e delle loro griffe, che si moltiplicano
interessandosi anche in campi non legati al settore
dell’abbigliamento. Tutto ciò porta ad un’intensificazione del
rapporto tra moda e comunicazione. Tre sono le conseguenze
principali di questo processo. La prima consiste nell’accresciuta
incidenza delle spese di comunicazione e marketing sui costi di
produzione, la seconda è costituita dall’enorme importanza che ha
assunto il momento del lancio (anticipazioni ai giornali, eventi di
contorno…) ed, infine, la progressiva dilatazione dei canali
utilizzati per comunicare. Le tradizionali maison sono ormai
consapevoli dell’importanza, quale fattore critico di successo, della
capacità commerciale. La qualità e lo stile del prodotto non sono
più sufficienti; inizia così ad affermarsi un orientamento al
mercato e alle vendite.
Alla fine degli anni ottanta, decennio che ha sconvolto l’intero
sistema moda, ci si trova di fronte ad un nuovo tipo di rapporto
tra impresa, funzione comunicativa e consumatore finale. I modelli
della fase precedente non funzionano più perché il pubblico chiede
un interlocutore forte, che torni a proporre modelli
d’identificazione e valori guida. Tuttavia, quest’ultimi devono
11
confrontarsi con una soggettività ormai acquisita dei consumatori
ed intrecciare con essa un rapporto più maturo che nei vecchi
modelli di persuasione. Gli avvenimenti politici di fine decennio e
l’avvento di una crisi finanziaria hanno modificato il sistema di
produzione, distribuzione e consumo dei prodotti di moda. In tale
contesto le imprese del sistema, che avevano portato all’eccesso il
concetto di immagine svuotando di contenuti concreti l’offerta,
hanno perso buona parte della loro credibilità. La perdita di
attualità culturale dei valori più rappresentativi degli anni ottanta
(edonismo, narcisismo, apparenza) mette in crisi soprattutto il
settore che meglio li ha rappresentati: quello del consumo di
moda. Quest’ultima appare arroccata in una torre d’avorio,
sempre più isolata con le sue sfilate provocatorie, i suoi riti
sempre più celebrati all’interno di una ristretta cerchia di addetti
ai lavori. Da sempre, ciò che si vede sulla passerella, non è ciò che
poi si compera nei negozi; è un quadro della creatività dello
stilista. Lo scarto tra sfilata e collezione in vendita diviene tuttavia
qualcosa di più e diverso: rappresenta simbolicamente la frattura
tra moda e costume che si è verificata in seguito al cambiamento
epocale di fine decennio. I consumatori hanno modificato i
comportamenti d’acquisto rivolgendo maggiore attenzione al
prezzo e alla qualità. Il modo di comporre il guardaroba diventa
espressione del proprio stile, dove per stile non s’intende più, o
non soltanto, un modo di vestire, ma un modo di essere ed
esprimere la propria personalità. Insomma, il consumatore di
moda è cambiato. Da suddito obbediente a sovrano assoluto. Si
aspetta di essere servito con un prodotto che venga incontro alle
sue esigenze. Di conseguenza le imprese non possono più
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produrre solo abiti da vendere, ma devono imparare cosa vuole il
consumatore e poi produrlo. Il grande successo delle griffes che
garantiva comunque le vendite, non motivava le aziende a svolgere
attività di marketing e ricerca. Il sistema moda, in un certo senso,
era prigioniero della propria logica: continuare a sorprendere per
fare notizia; ma è difficile innovare in continuazione le modalità
della trasgressione. Il bombardamento di forme, immagini, colori,
stili, nei prodotti, ma anche nella comunicazione,
nell’informazione, nella pubblicità, ha provocato nel consumatore
un minore interesse per questi aspetti, un effetto “marmellata” in
cui le diversità si confondono. I classici modelli di comunicazione e
marketing adottati sino ad allora non producono più effetti
benèfici, a causa di una carenza dei valori trasmessi dalla griffe
(considerata solo immaterialità) ed anche per l’accresciuta
difficoltà di segmentazione del mercato, determinata dalla
sovrapposizione e trasversalità delle correnti culturali e dei modelli
comportamentali.
Si può osservare come negli ultimi anni vi sia stata una profonda
trasformazione. Le persone comprano i prodotti non solo per ciò
che possono fare, ma anche per ciò che significano, e questo
grazie alla pubblicità e al marketing, ma anche ai processi
socioculturali. La pubblicità, infatti, si limita a favorire una
circolazione tra la merce ed il consumatore, ed il suo successo è
basato sul richiamo a determinati referent systems già esistenti. Si
tratta di un duplice processo di trasferimento di valore che si
realizza contemporaneamente: dalla pubblicità alla merce e da
questa al consumatore attraverso l’acquisto. Si deve quindi
ritenere che nel rapporto di causalità tra la pubblicità ed il
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consumatore, il percorso sia più dai consumi alla pubblicità che
viceversa. Il marketing è entrato oggi di prepotenza anche nella
moda per dare valenze che si aggiungono alla griffe, che risultano
necessarie anche al più bravo degli creatori di moda. Il “signor
Armani” prende il Times e fa quaranta pagine di pubblicità in
esclusiva. E’ un costo spaventoso. Ma oggi si deve avere
un’immagine, una forza capace di dare fascino e bellezza ad un
prodotto, perché questo è ciò che chiede il consumatore moderno.
1.1.2 Risultati aziendali ed investimenti in comunicazione
Gli investimenti pubblicitari, ed in generale in comunicazione, da
parte del settore delle griffes hanno raggiunto una dimensione
economica rilevante. Qui di seguito sono presentati, e
successivamente commentati, alcuni dati quantitativi
emblematici.
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Gli investimenti pubblicitari degli stilisti italiani:
ARMANI 1997 var % 1998 var% 1999
fatturato 1410 65,96 1503 0,511806 1680
utile netto 219 29,22 283 -11,98 249,1
utile netto/fatturato 0,1553 0,1883 0,1483
investimenti pubblicitari 67,597 32,12 89,31 -2,78 86,83
inv. pub. /utile netto 0,3087 0,3156 0,3485
VERSACE 1997 var % 1998 var% 1999
fatturato 940 -6,49 879 -10,92 783
utile netto 87 -64,02 31,3 -21,73 24,5
utile netto/fatturato 0,0925 0,0356 0,0313
investimenti pubblicitari 32,016 25,79 40,273 -5,78 37,944
inv. pub. /utile netto 0,368 1,2867 1,5487
PRADA 1997 var % 1998 var% 1999
fatturato 690 93,04 1332 52,7 2034
utile netto 14 852,14 133,3 144,93 326,5
utile netto/fatturato 0,0203 0,1 0,1605
investimenti pubblicitari 36,283 8,12 39,232 5,92 41,555
inv. pub. /utile netto 2,5916 0,2943 0,1273
Fonte: AdEx-Nielsen
Si è scelto di considerare il comportamento di tre grandi firme
della moda italiana durante il triennio 1997-1999.Una tale base di
partenza non è sicuramente sufficiente per condurre un’analisi
approfondita, ma può essere utile per trarre le prime indicazioni
sull’approccio verso la funzione comunicativa da parte del settore.
Innanzi tutto emerge la dimensione assoluta del fenomeno: in tre
anni le griffes considerate, che per quanto importanti
rappresentano solo una parte del sistema moda italiano, hanno
compiuto investimenti lordi in comunicazione per un ammontare
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superiore ai quattrocentosettanta miliardi di lire. Inoltre, è
possibile rilevare un rapporto minimo tra investimenti in
comunicazione ed utile netto pari al 12,72% (Prada nel 1999) ed
uno massimo pari al 259% (Prada nel 1997). Sono cifre incredibili,
non si può certo affermare che il settore non investa in
comunicazione. Si deve, però, anche notare come le scelte
effettuate dalle diverse imprese non seguano sempre un comune
orientamento, probabilmente perché dettate da diverse strategie
aziendali. Ad esempio, se per Armani e Prada si può osservare
l’esistenza di un rapporto, anche se non perfettamente
proporzionale, tra dimensione dell’utile netto ed investimenti in
comunicazione, questo non accade per Versace.
Risulta particolarmente interessante la peculiare suddivisione
degli investimenti tra i diversi mezzi di comunicazione da parte del
sistema moda.
INVESTIMENTI PUBBLICITARI LORDI DEL SISTEMA MODA
1998
investimenti totali 2767
Stampa 2248
Televisione 405
Radio 56
Affissione 58
totale pubblicità 32224
%investimenti moda/totale 8.06