5
posizione di institores o negotiatores. Quindi si veniva a creare una concorrenza
tra patrono e liberto. Affrontano, magistralmente, la problematica della liceità o
meno di quest’attività, del potere di proibirla o meno da parte del patrono,
Scevola e Ulpiano. Il primo la consente
4
, l’altro la consente soltanto se licita
negotiatio. Questioni e discussioni che denunciano l’esistenza del fenomeno e,
mostrano una tendenza dei giuristi, a configurare un concetto di concorrenza
dannosa ed illecita che può essere proibita dai patroni
5
. L’uso di apporre segni su
manufatti di terracotta o in ceramica, ma anche in metallo, segni che servivano
ad indicare il produttore, il luogo di produzione, nonché nel caso di separazione
tra produzione e commercializzazione, anche il nome del negoziante dimostrano
l’importanza, che già allora tali signa avevano. Un’importanza sia ai fini
dell’affidamento della merce, nonché ai fini dell’accertamento della responsabilità
del venditore per vizi o per mancanza di qualità essenziali. È chiara quindi
l’esigenza, anche allora, di una protezione del marchio, anche se, non si poteva
parlare di una regolamentazione legislativa sulla materia. Pur in mancanza di una
specifica disciplina, poteva garantirsi una tutela del marchio per varie vie.
Innanzitutto rientrava nell’ampio quadro della concorrenza sleale, come d’altro
canto accade oggi, art.2598C.C, nonostante la specifica regolamentazione della
“ditta”, “dell’insegna”, “del marchio”; in questo modo si poteva ottenere
ugualmente una tutela del marchio, anche se in via indiretta, attraverso la
repressione degli atti diretti a danneggiare l’impresa.
6
C’ era anche la lex
Cornelia de falsis
7
che puniva l’assunzione e l’uso di un nome falso ed è quindi
probabile che punisse la falsificazione del marchio. Sicuramente una tutela
pubblicistica vi era, una tutela a favore dei consumatori. Quanto all’aspetto
privatistico, cioè la tutela del diritto di usare il marchio, è questione aperta.
4
Scevola, in D. 38,1,45 : “si nullam laesionem ex hoc sentiam patronus
6
Serrao, in Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale: “Così ad esempio, se qualcuno
induceva lo schiavo institor o negotiator a conseguirgli il timbro. ( o sigillo ) dell’impresa, onde
imitarne i prodotti e ingenerare confusione, incorreva nell’ a. servi corrupti. Se poi a falsificare e
contraffare i marchi era un liberto cui era stata vietata la concorrenza, la protezione del marchio
finiva col realizzarsi nell’ambito dei rapporti di semidipendenza e forse talvolta mediante
l’applicazione di pene patrimoniali, promesse al patrono mediante stipulazioni”.
7
Marino, in Appunti sulla falsificazione del marchio nel diritto romano, in ZSS,1988. Questo
giovane studioso ha prospettato, in modo brillante e con argomenti convincenti, l’ipotesi che
l’applicazione della Lex Calpurnia de falsis fosse stata estesa ai casi in cui fosse stato sottratto o
falsificato uno stampo (o timbro, o comunque, uno strumento ) per imprimere signa su cose.
6
Nell’Editto di Rotari, il signum è inteso nel senso di apprensione: è segno di
proprietà, come già aveva asserito la Patristica.
8
8
S.Agostino, s.II : “ titulos meos posui, mea res est; ubi nomen meum invenio, meum est”
7
LA DISCIPLINA DEL MARCHIO NELL’ETA’ DEI COMUNI
Quanto al marchio, come istituto, la certezza risale all’età dei Comuni. Le figure
di marchi sono riconducibili a tre (anche se il Franceschelli ritiene che sia
sufficiente distinguere tra marchi obbligatori e liberi)
9
. Il marchio collettivo ed
obbligatorio , con una funzione di garanzia di qualità , era apposto nell’interesse
della corporazione ; era un marchio uguale per tutti gli appartenenti a
ciascun’arte. Veniva apposto al prodotto dai funzionari della corporazione, dopo
avere accertato che fossero state rispettate le regole, emanate dalla stessa
corporazione per la loro produzione
10
. Il marchio individuale e obbligatorio veniva
apposto sempre nell’interesse della corporazione stessa
11
. La particolarità
consisteva, nell’esservene uno per ogni artigiano, cosicché potessero
contraddistinguersi i prodotti dell’uno da quelli dell’altro. In questo modo, si
consentiva l’attribuzione di ciascun prodotto al suo produttore, così, al
presentarsi di un difetto o di una violazione delle norme imposte dalla
corporazione, si poteva individuarne il colpevole. Anche in questo caso, la tutela
era rivolta all’interesse pubblico, non a quello di colui che l’aveva apposto. Ed è
certo che tali marchi individuali siano assimilabili a quelli collettivi ed obbligatori,
per l’omogeneità dei loro caratteri di fondo, tanto che ad entrambi viene attribuita
la qualifica di corporativi. Il marchio individuale facoltativo fu utilizzato
dall’artigiano, al di fuori dell’interesse della corporazione, per consentire al
pubblico di identificare i prodotti da lui provenienti.
12
Ovviamente, questo segno
ha una funzione (privata) di indicazione, di provenienza e quindi una portata
certamente concorrenziale. E’, quindi, naturale che nei sistemi in cui le
corporazioni hanno un grande potere, i marchi più diffusi sono quelli obbligatori
collettivi o individuali. Proprio per questo motivo in Europa, dall’età dei Comuni
fino alla Rivoluzione francese, quando si sciolgono le corporazioni, sono i marchi
9
Franceschelli, Trattato di diritto industriale, Milano, 1960, 239
10
Benedetto, in Il Marchio ( storia ), in Enciclopedia del diritto XXV : “ …Essi distinguono il
prodotto solo impropriamente e marginalmente, non lo qualificano in quanto non collegano al
produttore.
11
Benedetto, in Il Marchio ( storia ), in Enciclopedia del diritto XXV : “ …miranti a tutelare il
buon nome dell’arte e del Comune esso rende effettivo il monopolio dell’arte..”
12
Benedetto, in Il Marchio ( storia ), in Enciclopedia del diritto XXV: “ tendono a garantire al
cliente la bontà del prodotto ed a stabile la concorrenza; possono qualificarsi come marchi “
commerciali “; da essi ha origine il marchio moderno.
8
corporativi ad essere i più diffusi. Dall’ottocento in poi sono i marchi individuali
facoltativi ad essere i protagonisti. Ma è soprattutto la differenza, tra il regime
facoltativo e quello obbligatorio, che è importante, soprattutto, è indice di un
passaggio del marchio dal diritto privato a quello pubblico. Nel caso del marchio
facoltativo, l’opposizione è rimessa alla facoltà del produttore del manufatto; di
contro, in quello obbligatorio, è il frutto della necessità di regolamentare un
mondo in cui i traffici commerciali sono aumentati. L’obbligatorietà del marchio
risponde ad un’esigenza protezionistica, da parte dei comuni, delle città e poi
degli stati. In conseguenza di una tal situazione politica e soprattutto economica
si giustifica una disciplina giuridica del marchio obbligatorio. E’ allora che la
vecchia concezione di marchio, come segno di proprietà, passa in seconda linea
e guarda più agli aspetti della produzione e circolazione. Per la classificazione e
la configurazione giuridica del marchio, è importante capire qual è lo scopo dello
stesso. Potremmo affermare che due sono le posizioni che si contrappongono: la
prima individua lo scopo di un marchio controllato ed obbligatorio nella tutela del
consumatore; controllando che fossero state rispettate le norme della
corporazione, si voleva controllare la qualità del prodotto
13
. Il Vivante e il
Franceschetti ritengono invece che la funzione del marchio medioevale sia quella
di garantire l’interesse dell’artigiano, dei mercanti. Questa disciplina in realtà, è
da ricollegarsi ad un sistema di privilegio e monopolio instaurato dalla
corporazione. D'altronde, anche il marchio individuale poteva servire a scopi di
polizia commerciale, in caso di violazione di norme statutarie era facile
rintracciare il reo e sottoporlo a pesanti sanzioni. E' chiaro che tutto ciò non
avveniva per tutelare i consumatori ma per il privilegio, monopolio, attribuito ai
prodotti più importanti e redditizi dell’industria locale. La tutela dei consumatori
era semmai riflessa, indiretta. L’apposizione del marchio facoltativo era il frutto di
una scelta quanto mai libera: potevano essere emblematici o figurativi…..La
libertà di questa scelta era giustificata da un attento controllo, in sede di
registrazione del marchio , ai fini della sua regolarità. Non si ritiene però che la
legislazione avesse un’efficacia costitutiva del diritto all’uso di questo marchio.
Infatti in caso di conflitti tra marchi, chi da più tempo l’aveva usato aveva la
meglio a prescindere dal tempo della registrazione. Le sanzioni che colpivano i
13
Guglielmetti , Il marchio. Oggetto e contenuto, Milano 1955
9
contravventori al corretto uso del marchio, oltre alla multa, confisca, distruzione
della merce contraffatta, bando dall’arte, era di notevole rilievo l’indennizzo al
titolare del marchio contraffatto (come il Franceschelli rileva).Le possibili azioni
da intentare e i processi da instaurare, per la tutela di questi marchi individuali e
facoltativi, danno il chiaro segno di poterli intendere quale bene nel senso
giuridico. E’ certo quindi, che come bene giuridico poteva essere trasferito sia per
atto inter vivos , a titolo di compravendita, donazione che per successione mortis
causa. Ci troviamo di fronte ad un embrione di disciplina, caratterizzata
dall’essere il marchio facoltativo un’entità patrimoniale suscettibile di utilizzazione
diretta, di scambio, di devoluzione ereditaria; caratterizzata dalla rilevanza e dal
riconoscimento di un interesse individuale alla protezione; dalla possibilità di
risarcimento danni. Cominciano ad apparire germi dell’istituto moderno.
10
LA DISCIPLINA DEL MARCHIO DALL’800 AI NOSTRI GIORNI
E’ il 1855, quando compare la prima legge che regolamenta il marchio nell’
art.22 della legge sarda 12 marzo 1855 che dichiara : “Ogni marchio o segno
distintivo: I) Deve essere diverso da quelli già usati da altri…. “. Da questa legge
deriva quella del 30 agosto 1868 n.4577, sui marchi di fabbrica e di commercio :
“Chiunque adotta un marchio, o altro segno, per distinguere i prodotti della sua
industria, le mercanzie del suo commercio…, ne avrà l’uso esclusivo purché
adempia il deposito in questa legge prescritto.
Il marchio, o segno distintivo, deve essere diverso da quelli già legalmente usati
da altri…”.
L’interpretazione di questa legge, durante i primi anni della sua applicazione, fu
piuttosto restrittiva, in quanto l’avverbio “legalmente” veniva inteso ad escludere il
requisito della novità soltanto in un marchio uguale o simile ad altro
precedentemente registrato, considerando nuovo invece un segno distintivo
uguale o simile ad altro usato, ma mai registrato. C’era quindi all’epoca una forte
convinzione, confortata sia dai testi di legge sia dai precedenti storici, che la
registrazione fosse condicio sine qua non per l’applicazione al segno distintivo
della tutela predisposta dalla legge speciale
14
; conseguentemente avvalorata,
anche la convinzione che la brevettazione avesse efficacia costitutiva del diritto
al marchio. La giurisprudenza e la dottrina, ben presto, si resero conto che
negando la tutela al marchio non registrato, sul piano pratico, avrebbe portato a
conseguenze inique. Infatti, troppo spesso, veniva svuotato il contenuto del
requisito della novità, presupposto essenziale per una valida brevettazione,
diretto a garantire l’essenziale funzione del marchio: indicazione della
provenienza del prodotto
15
. Si cominciò a dare qualche rilievo al marchio usato
non registrato. Ci furono alcune decisioni giurisprudenziali, intorno al 1880
16
, le
quali incentrarono la problematica sugli effetti di un uso precedente del segno
14
Mangini, in Il Marchio non registrato,1964. L’autore ricorda il noto passo della Relazione di
Cavour al progetto della legge sarda : “ Perché questo deposito del marchio non riesca una mera
formalità è mestieri che gli si dia un’importanza analoga a quella dell’iscrizione ipotecaria..”
15
Mangini, Il marchio non registrato, 1964,2
16
Cassazione Torino, 3 marzo 1880 in Mon trib.,1880, p 371. Cassazione Firenze, 15 giugno1896,
Riv. Priv. Ind. 1897, p 36, le sentenze sono citate dal Mangini nell’opera cit., sono portate a
testimonianza del tentativo fatto dalla giurisprudenza per portare ad una svolta.
11
distintivo , sui rapporti tra segni usati e non registrati e soprattutto tra segni usati
di fatto e segni posteriormente registrati. Nonostante ciò, queste decisioni non
diedero un solido fondamento giuridico alla tutela del marchio di fatto. L’ Amar
17
stesso asserì’ che le sentenze, pur avendo centrato la problematica, non
avevano fornito un criterio per riconoscere quando un precedente uso fosse
legale. L’autore notò l’importanza di guardare al momento in cui il marchio veniva
adottato e non a quello in cui venivano adempiute le formalità poiché, è vero si
che mancando la registrazione non si poteva agire in giudizio, né in sede penale
tantomeno in quella civile, ma restava il fatto che il marchio era stato già
adottato.
18
Quindi la dottrina riconosce che l’uso precedente impedisce l’acquisto
da parte di altri del diritto esclusivo sullo stesso, ma d’altro canto, non intacca il
principio, secondo il quale, la registrazione era, pur sempre necessaria, per
ottenere un uso esclusivo del marchio. Il Carnelutti asserisce da parte sua, che la
legge speciale garantisce l’esclusività assoluta e subordina cosi’ alla
registrazione, il diritto più ampio, mentre il diritto comune può garantire
l’esclusività relativa e statuire un diritto meno ampio sul marchio registrato. In tal
modo, il Carnelutti rispondeva alle perplessità dell’Amar, sull’ammissibilità
dell’esistenza di un diritto al marchio indipendentemente dalle disposizioni
contenute nella legge speciale. Questo diritto, meno ampio, del marchio non
registrato, richiedeva ovviamente, una fonte normativa che, direttamente o
indirettamente, l’avesse preveduto. Il fondamento di questa tutela, è per il
Carnelutti, da ricercare nell’art.5 della stessa legge speciale, dove si prevede una
tutela della ditta, prescindendo da ogni registrazione. E’ chiaro il punto di vista
del Carnelutti, per il quale, il diritto al marchio esiste a prescindere dalla
registrazione e, che, quindi, questa ne costituisca soltanto un rafforzamento.
Infatti la registrazione giova solo a facilitarne l’esercizio e, a dispensare il titolare
17
Amar, Dei nomi, dei marchi e degli altri segni e della concorrenza nell’industria del commercio,
Torino, a 1893, p 91: “ ..Assodato l’uso anteriore di un marchio, non potrebbe ammettersi la
validità dello stesso marchio a favore d’altri nello stesso genere d’industria; quanto meno chi ne fa
uso posteriormente non può fare addebito a chi ne usava prima di lui di continuare nell’uso
medesimo.”
18
Amar, Dei nomi, dei marchi e degli altri segni e della concorrenza nell’industria del commercio,
Torino, 1893: “ Ora a noi pare che bisogna guardare al momento in cui il marchio è adottato e, non
a quello in cui sono adempiute le formalità. Senza di queste non si avrà azione in giudizio né
penale né civile; ma non si potrà togliere il fatto che il marchio era già stato adottato.”
12
dalla prova della concorrenza effettiva da parte di chi usa il marchio stesso e, da
parte di chi ha del marchio registrato quella conoscenza, che è elemento
indefettibile della colpa e, conseguentemente, del suo obbligo al risarcimento del
danno; ma non può esservi subordinata l’esistenza del diritto. Accolta l’opinione
per la quale, anche, il marchio non registrato era meritevole di una tutela legale,
negli anni seguenti il problema, fu di stabilire se il fondamento della sua
protezione, fosse individuabile nella stessa legge speciale , oppure se al marchi
di fatto si dovesse riconoscere solo una tutela di diritto generale o, fondata sulla
concorrenza sleale; quindi, una tutela comunque sia, minore. Il problema era
quello di stabilire se la registrazione avesse un’efficacia costitutiva, oppure solo
dichiarativa. In realtà questo fu uno pseudo problema, quello vero era dato dalla
ricerca della tutela del marchio non registrato. Una fonte normativa della
protezione giuridica del marchio non registrato, scaturì dall’art.6 bis della
Convenzione dell’Unione di Parigi, sulla proprietà industriale nel testo approvato
all’Aia nel 1925 e dal r.d.13 settembre 1934 n.1602, contenente la nuova
disciplina sulle invenzioni e sui marchi, mai entrato in vigore a causa della
mancata emanazione del regolamento relativo. In forza dell’art.6 bis della
Convenzione, i Paesi contraenti si impegnavano a rifiutare o a invalidare d’ufficio,
se consentito dalla legge interna, o su richiesta degli interessati, la registrazione
di un marchio che costituisse contraffazione o imitazione di altro marchio non
registrato, ma generalmente conosciuto ( nel paese in cui si fosse chiesta la
registrazione ) come segno distintivo usato da un cittadino di un altro paese
contraente per prodotti dello stesso genere o di genere simile. Il nostro paese
adeguò la legislazione interna agli impegni internazionali, dando vita alla legge
del 1934 che faceva esplicito riferimento ai segni distintivi capaci di registrazione
come marchio, ma non registrato, concedendo la facoltà esclusiva di usarlo, nei
limiti della diffusione, a chi per primo l’avesse utilizzato nella sua industria o
commercio ( art.80 comma 3° ). Il legislatore, nonostante ciò, riservava il nome di
marchio al solo segno distintivo registrato attribuendo al contrassegno di fatto,
sebbene capace di registrazione, la semplice qualifica di segno distintivo. E’ in
questo clima in cui la tutelabilità di un marchio di fatto non costituisce più oggetto
di discussioni, essendo ormai di principio acquisito, che nasceranno gli art.t2568-
2574 c.c. e della legge sui marchi del 1942.
13
I
DIVERSITA’ TRA LE NORMATIVE E I CONSEGUENTI
EFFETTI SULLA VITA DEL MARCHIO ( DIFFERENZE TRA
LE NORMATIVE SUL MARCHIO NON REGISTRATO).
1. La disciplina previgente che riguarda il marchio di fatto: art.2571
c.c.;art.t 9-17. L.m
2. Prime ed evidenti differenze tra la tutela del marchio di fatto e quella del
marchio registrato
3. I criteri per distinguere una notorietà puramente locale da una generale.
4. Art.6-bis della Convenzione dell’Unione di Parigi sulla proprietà
industriale: il concetto di notoriamente conosciuto e il rischio di
associazione.
5. Il marchio cosiddetto rinomato prima della riforma: l’orientamento della
giurisprudenza.
6. Il marchio rinomato dopo la riforma.
7. La novella del 1992; le differenze principali e sostanziali rispetto alla
disciplina del 1942.
14
1. LA DISCIPLINA PREVIGENTE CHE RIGUARDA IL MARCHIO DI FATTO:
ART. 2571 CC E ART. 9 DELLA LEGGE MARCHI.
La disciplina del marchio non registrato viene attuata e prende forma, in due
articoli del R.D. 21 giugno 1942 n.929 sui marchi di fabbrica e di commercio,
(legge derivata da quella del 1934 sulle privative industriali), e in un articolo del
codice civile: art.2571. Tale normativa rimarrà immutata sino al 1992, quando per
dare attuazione alla
19
Prima direttiva comunitaria sui marchi, subirà le relative
modifiche. L’articolo 2571 disponeva e dispone
20
: “ Chi ha fatto uso di un marchio
non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione
da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso”. Lo stesso concetto
viene ribadito nell’articolo 9 della legge sui marchi (R.D. 21 giugno 1942 n°929)
secondo cui: “ in caso d’uso precedente, da parte di terzi di un marchio non
brevettato che non porti notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, i
terzi medesimi hanno diritto di continuare nell'uso del marchio, anche ai fini della
pubblicità nei limiti della diffusione locale, nonostante la concessione del brevetto
pel marchio”. L’attuale articolo 9, a seguito della riforma invece così dispone: “ In
caso d’uso precedente, da parte di terzi, di un marchio non registrato, che non
importi notorietà di esso o importi notorietà puramente locale, i terzi medesimi
hanno diritto di continuare nell’uso del marchio, anche ai fini della pubblicità, nei
limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione del marchio stesso”.
21
Ed
ancora l’articolo 17 della stessa legge, dopo aver chiarita la portata del requisito
della novità, precisa nel comma 2° che: “ l’uso precedente delle parole figure o
segno, quando non importi notorietà di essi o importi notorietà puramente locale,
non toglie la novità”.
22
Il nuovo testo dell’art.17 così dispone:” Non sono nuovi, ai
19
Prima direttiva CEE n°89/104 del 21 dicembre 1988 sul ravvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri, in materia di marchi d’impresa.
20
Leonelli, Pederzini, Costa, Corona, in La nuova legge sui marchi d’impresa, 1993; ed anche
Vanzetti, in la nuova legge sui marchi. L’art. 2571 C.C non ha subito modifiche, il testo risulta
inalterato.
21
Leonelli, Pederzini, Costa, Corona, in La nuova legge sui marchi d’impresa, 1993; ed anche
Vanzetti, in La nuova legge sui marchi. La norma così novellata, non presenta delle varianti
sostanziali, rispetto alla precedente versione, ma limitate modifiche terminologiche. Vi è soltanto
una sostituzione delle locuzioni “ marchio registrato” e “registrazione del marchio” in luogo di
“marchio brevettato” e di “ concessione del brevetto”.
22
Vanzetti, La nuova legge sui marchi,1993.L’art. 17 l.m ha subito una profonda modifica,
riassorbendo tutta la materia della novità dei marchi, che era frazionata nel vecchio testo
15
sensi del precedente articolo, i segni che alla data del deposito della
domanda:”….b) siano identici o simili a un segno già noto come marchio o segno
distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per
prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni
e dell’identità o affinità tra i prodotti o servizi possa determinarsi un rischio di
confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione
fra i due segni. Si considera altresì noto il marchio “notoriamente conosciuto” ai
sensi dell’art.6-bis della Convenzione di Parigi. L’uso precedente del segno,
quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non
toglie la novità…” A queste norme va anche aggiunto l’art.11 l.m.: “ non è
consentito di usare il marchio ( ….) in modo da generare confusione sul mercato
con altri marchi conosciuti come distintivi di prodotti o merci altrui….”. Dal
combinato delle norme della legge del 42’ si ricavava, esplicitamente, che il
requisito della novità non solo risultava escluso ogni qual volta vi fosse stata una
precedente brevettazione
23
di quel marchio, ma anche quando ci fosse stato un
soltanto uso precedente; l’esclusione risultava quale effetto della notorietà
acquisita. Dall’esame attento di queste disposizioni, con chiarezza e senza
ombra di dubbio, risultava che il legislatore aveva escluso la novità del segno
distintivo solamente in presenza di un uso determinante una notorietà generale. Il
legislatore, così facendo, permetteva al preutente di agire in giudizio per ottenere
una dichiarazione di nullità di un marchio confondibile, posteriormente registrato
da un terzo. Mentre, in presenza di un uso che importasse soltanto notorietà
puramente locale, era concessa la facoltà al preutente di continuare ad usarne
nei limiti del preuso e quindi limitatamente alla diffusione conseguita al momento
del deposito della domanda di registrazione. L’analisi effettuata sugli articoli
precedentemente citati e le relative conclusioni sono a tutt’oggi, alla luce della
dell’art.17, riguardante la mancata novità per uso anteriore di terzi, e l’art.19 riguardante la
mancata novità per registrazione anteriore.
Leonelli, Pederzini, Costa, Corona, La nuova legge sui marchi d’impresa,1993. Oggi a differenza
del testo previgente che si preoccupava di stabilire quali “parole, figure, segni”, fossero da ritenersi
nuovi , il nuovo testo si preoccupa di elencare ciò che non può considerarsi “nuovo”. Dice l’autore
che tale definizione in negativo delle varie categorie, sembrerebbe autentica a quella del testo
previgente, ma in realtà non c’è nessuna differenza posto che la definizione era pur sempre operata
in negativo.
23
L’uso del termine “brevettazione”, corrispondente all’attuale “registrato”, è proprio della
normativa del 1942
16
Riforma, accettabili, ma richiedono qualche precisazione. Rimane fermo che A)
l’uso precedente di un marchio non registrato sia rilevante, (qualunque sia la
diffusione); B) il preuso, se tale da non comportare notorietà del marchio, o tale
da comportare notorietà puramente locale, legittima chi lo abbia adottato ( senza
far luogo a registrazione ) a continuarne l’uso, anche ai fini della pubblicità, nei
limiti della diffusione locale, quale di fatto raggiunta e quale territorialmente
localizzabile. La novità deriva dal nuovo testo dell’art.17 lett. b “ ..si considera
altresì noto il marchio notoriamente conosciuto
24
ai sensi dell’art.6-bis della
convenzione di Parigi e quindi priverebbe di novità anche quel marchio straniero
registrato o no, che sia noto da noi pur non essendovi stato usato
25
. Così con
l’introduzione di questa formula nell’art.17 lett. B, si è ampliato il concetto di noto,
ampliando l’ambito privativo del carattere novità. Si precisa inoltre che è al
momento del deposito della domanda che bisogna rifarsi per stabilire se la
notorietà del preuso sia generalizzata o localizzata non certo al momento della
concessione. Infatti è dalla data di deposito della domanda che decorrono gli
effetti del brevetto, così come dispone l’art.4 comma 2° l.m. Cosicché secondo
l’opinione del Casanova
26
, un diritto di brevetto potrà essere validamente
concesso, anche se, nell’intervallo fra il deposito della domanda e l’accoglimento
di essa, il marchio precedentemente usato da un terzo abbia nel frattempo
conseguito una più vasta notorietà.
24
Per le delucidazioni sul concetto di “notoriamente conosciuto” ai sensi dell’art.6-bis della
Convenzione si rinvia § 4 di questo cap.
25
Draetta. IL regime internazionale della proprietà industriale, 1967.Quanto al marchio
notoriamente conosciuto così l’autore dice : “ Se un segno distintivo brevettato o usato all’estero
ha acquistato notorietà anche in Italia, non è il bene immateriale straniero che viene in
considerazione ai fini della distruzione della novità del marchio italiano successivamente
brevettato o usato, ma il marchio di fatto costituitosi in Italia attraverso tale notorietà, il quale
impedisce ad altri di acquistare la titolarità di diritti di marchio in Italia sullo stesso segno.
26
Casanova, Le imprese commerciali, Torino 1955, p.436
17
2. PRIME ED EVIDENTI DIFFERENZE TRA LA TUTELA DEL MARCHIO DI
FATTO E QUELLA DEL MARCHIO REGISTRATO.
Alla luce di queste norme, sia in dottrina che in giurisprudenza, si è andato
affermando l’orientamento che pone sullo stesso piano il marchio registrato e il
marchio di fatto. In realtà questa soluzione non è stata e non è pacifica,
soprattutto è controversa la natura giuridica, l’identico contenuto sui relativi
diritti
27
. In questo paragrafo per l’argomento trattato, in particolar modo, interessa
il confronto, tra le regole di protezione del marchio registrato e quelle di
protezione del marchio di fatto. Secondo l’opinione della dottrina maggioritaria, la
protezione del marchio di fatto coincide con il divieto di atti di concorrenza sleale
per confusione ( art.2598 1° comma c.c.); questa disciplina ha la stessa funzione
e la stessa struttura del sistema di tutela del marchio registrato, pur dando al
segno non registrato una protezione, meno ricca ed intensa. Tale visione
strutturale e funzionale, unificante, è fondata sull’idea che alla base delle due
forme di tutela sia il fatto dell’uso del segno, e considera la legge sui marchi e
l’art.2598 1° comma, come parti di un tessuto unitario. Di conseguenza, vista la
ridotta tutela del marchio di fatto e, quindi, la possibilità di lacune normative, si
ritiene applicabile la disciplina della legge sui marchi, che non abbia come
presupposto, per l’applicabilità, l’esistenza della registrazione. La giurisprudenza
mostra, perlopiù, diverse tendenze ed anche poco chiare. I giudici tendono a far
coincidere la tutela del marchio non registrato con la tutela del marchio registrato,
ma rilevano l’esistenza di notevoli differenze, tra il sistema di protezione dei
marchi ( registrati e non) e la disciplina della concorrenza. L’azione di
contraffazione del marchio, avrebbe carattere reale, ciò significa che si avrebbe
contraffazione in presenza della sola confondibilità tra segni; l’azione di
27
per questa problematica si veda il capitolo 3. In particolare Mangini in Il marchio non registrato,
1960. Secondo l’autore il legislatore ha riconosciuto una tutela del marchio non registrato, ma l’ha
fatto solo per definire i limiti in contrapposto a quella del marchio registrato. I due marchi
sarebbero su piani legislativi diversi. In capo all’utente di un marchio non registrato maturerebbe,
con l’uso, un semplice interesse alla protezione del segno, che è un aspetto particolare del più
ampio interesse dell’imprenditore alla lealtà della concorrenza. le norme pertanto non importano il
riconoscimento di un diritto assoluto alla lealtà della concorrenza: sono piuttosto norme di
condotta che impongono ad ogni concorrente dei doveri di astensione dal compiere atti sleali. La
tutela del marchio di fatto va dunque inquadrata nella più ampia disciplina oggettiva dell’attività
economica contro atti professionalmente scorretti, dettata ai fini d’interesse generale e pubblico.
18
concorrenza sleale avrebbe, invece, carattere personale, in quanto si avrebbe
illecito concorrenziale, solo in presenza della confondibilità tra i prodotti. In realtà
oggi, alla luce della nuova normativa, queste affermazioni risultano
anacronistiche
28
. Sia la contraffazione di marchio sia la concorrenza sleale
esigono, sicuramente, la confondibilità tra i prodotti, quindi identità, affinità
merceologiche tra i prodotti; nessuna delle due fattispecie è completa in
presenza della sola confondibilità tra i segni. Tra i due regimi ci sono, all’interno
della univoca prospettiva, delle differenze, dipendenti dalla registrazione del
marchio, come presupposto dell’applicazione della legge sui marchi. Dall’esame
del complesso delle norme ( anche di quelle esaminate nel primo paragrafo),
risultano, immediatamente, le differenze principali tra i due tipi di protezione. In
primo luogo la registrazione risulta presunzione iuris tantum della validità e della
appartenenza del marchio
29
; ne deriva che colui che agisce a difesa di un
marchio non registrato, deve provare l’uso, mentre chi agisce in difesa di un
marchio registrato deve solo esibire l’attestato di registrazione, ed ottiene la
tutela anche se non vi è stato uso
30
( purché questo non uso non si protragga per
più di 5 anni
31
). Altra rilevante differenza, riguarda l’ambito territoriale di
protezione. La registrazione concede ( ai sensi dell’art.1 l.m. ) un diritto esclusivo
di utilizzazione per l’intero territorio nazionale, a prescindere da ogni
considerazione di uso effettivo.
28
Di Cataldo, in I segni distintivi, 1993. L’autore ritiene che le affermazioni suddette ( relative alle
differenze tra azione di contraffazione con quella di concorrenza sleale, in base al carattere reale
della prima e di quelle personale della seconda ) che compaiono in molte sentenze in ossequio ad
una giurisprudenza sorta nel vecchio regime, esse non hanno alcun riferimento ai testi di legge
vigenti, e vengono quindi riesposte dai giudici senza alcun effettivo collegamento con il problema
da decidere e la soluzione che se ne dà. Dire che la contraffazione di un marchio presuppone la
mera confondibilità tra i segni e che non richiede la confodibilità tra i prodotti equivale, infatti, a
negare ogni limite merceologico all’estensione del diritto di marchio; idea oggi assolutamente
inaccettabile.
29
In forza dell’art.58 l.m., attualmente vigente : “ l’onere di provare la nullità o la decadenza di un
marchio registrato incombe in ogni caso a chi la impugna….”.
30
Di Cataldo, in I segni distintivi, 1993. In realtà, come afferma l’autore, questo sganciamento del
diritto sul marchio registrato, dall’uso, dura solo 5 anni, in quanto il non uso protratto per più di 5
anni comporta la sanzione della decadenza del diritto. Sul piano processuale, tuttavia, il titolare del
marchio registrato, gode, comunque, di una forte agevolazione probatoria, perché, anche dopo il
quinquennio di non uso, non ha l’onere di provare l’uso, essendo a carico del suo avversario
l’onere di provare la decadenza, e cioè il non uso.
31
Art.42 legge marchi : “ il marchio decade altresì se non è stato oggetto di uso effettivo da parte
del titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato, entro 5 anni