6
mostly for the formidable John Blackwood…. Today most of Mrs.
Oliphant’s work is forgotten. She wrote too much too quickly and
with too little intellectual equipment to do her work justice.”
1
Dopo la sua morte fu pubblicata la sua autobiografia. Autobiography è apparsa a tutti
alquanto disomogenea e frammentaria, anche nella più recente edizione completa. La
prima edizione, Autobiography and Letters of Mrs Margaret Oliphant (1899) fu
curata e pubblicata da Mrs Harry Coghill, cugina della scrittrice, con l’aiuto della
nipote Denny. Per molto tempo Autobiography and Letters è stato considerato
l’unico testo esistente, fino a quando, in tempi recenti (1990), la studiosa Elisabeth
Jay ha pubblicato un’edizione completa dell’autobiografia di Margaret Oliphant. Il
testo attuale è formato da tutti quei testi manoscritti che furono censurati
nell’edizione precedente.
2
L’opera ha lasciato comunque perplessi molti tra i
massimi conoscitori della sua produzione letteraria, per la forma poco coesiva del
testo. La perplessità dei critici e i loro dubbi sono legati alla quasi impossibilità di
conciliare il successo della scrittrice come autrice di romanzi, con la sua opera di
autrice “confusa” della propria storia privata. Da questa incertezza della critica parte
il nostro spunto per un’analisi dei testi tutta incentrata sulla trattazione da parte
dell’autrice di emozioni e sentimenti al fine di ipotizzare una reale difficoltà della
scrittrice a parlare di sé. Il raccontare e il raccontarsi producono effetti diversi in tutti
i suoi scritti. Tre sono i testi prescelti per dimostrare l’ipotesi sopra descritta:
Autobiography, Miss Marjoribanks e Kirsteen, analizzati secondo il filo conduttore
delle emozioni, cercando di dare voce al messaggio della sua autobiografia attraverso
1
Trevor Royle, Precipitous City: The Story of Literacy Edinburgh, Edinburgh: Mainstream, 1980, p.
153.
2
Ulteriori approfondimenti sulla questione dei brani censurati e delle due edizioni dell’autobiografia
della scrittrice saranno dati nel IV capitolo.
7
gli strumenti critici del passato e del presente.
La scelta dei romanzi è stata dettata da due esigenze: da una parte il bisogno
di non allontanare troppo il campo d’indagine dal genere autobiografico, dall’altra la
necessità di presentare due esempi che potessero in parte rappresentare la vasta opera
di romanziera della scrittrice. In questa operazione sono stati privilegiati i romanzi
più acclamati dalla critica e i più facilmente reperibili, Miss Marjoribanks, romanzo
del 1866 della popolarissima serie The Chronicles of Carlingford, e Kirsteen del
1890, uno degli ultimi e il migliore della sua produzione. Dall’opera di Margaret
Oliphant, emerge quanto sia problematico per la scrittrice raccontare le sue emozioni
e i suoi sentimenti.
Prendendo in esame il modo in cui tratta le emozioni come strumento
comparativo, si può notare come queste siano diversamente espresse quando la
scrittrice scrive il resoconto della sua vita reale e quando scrive il resoconto della
vita, da lei stessa creata, dei suoi personaggi.
Tanto la narrazione è incerta nella Autobiography, quanto è scorrevole nei
romanzi. La narrazione in prima persona della Autobiography rivela come parlare di
sé, delle proprie esperienze, sia un’operazione alquanto difficile per la scrittrice.
Mentre nei romanzi, dove Oliphant gioca il ruolo del narratore onnisciente, e dove la
scrittrice fa spesso uso dell’ironia, raccontare, in terza persona, le vicende dei
personaggi le risulta molto più facile, quasi fosse un gioco. Proprio dai testi
dell’autrice emerge un dato interessante a proposito del modo di trattare le emozioni.
In alcuni romanzi i personaggi manifestano in modo consapevole le proprie emozioni
e sentimenti. I personaggi del romanzo Miss Marjoribanks, per esempio, sono
consapevoli di dover avere delle reazioni emozionali ai fatti della loro vita, ma
riescono soltanto a recitare una parte nella grande commedia della vita. I loro
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sentimenti non sono genuini, ma il frutto di una forzatura: le loro emozioni sono
quelle che gli altri personaggi si aspettano che loro provino. Le cosiddette emozioni
“auto-coscienti” del romanzo Miss Marjoribanks lasciano il posto ad un tipo di
sentimento più profondo e genuino difficile da trovare nei primi romanzi, ma ben
espresso in Kirsteen, definito il romanzo della maturità. I due romanzi, lo vedremo
dettagliatamente nel quinto capitolo, dimostrano l’abilità di Oliphant come narratrice
e scrittrice dotata di osservazione nel cogliere le reazioni umane dei suoi personaggi,
senza mai perdere il controllo su quanto scrive.
Nella Autobiography, testo sul quale ci soffermeremo maggiormente, la
scrittrice dimostra di non essere perfettamente a suo agio quando si tratta di lasciarsi
andare più liberamente alle proprie emozioni. Certamente la sua autobiografia
contiene brani intensi e colmi di quelle emozioni provate dopo la morte dei figli, ma
anche queste sono spesso espresse in modo disorientante. Traspare comunque
dall’insieme dei suoi scritti un senso generale di problematicità e fastidio per
l’autrice nell’analisi delle emozioni. Persino nella sua Autobiography, quando si
addolora per la morte dei figli riesce a distinguere tra morti significative e
insignificanti; mentre nei suoi romanzi, il libero sfoggio delle emozioni pare essere
inteso come segno di debolezza. Vedremo come l’autrice tenta nei suoi scritti di
evitare di trattare certe emozioni attraverso una serie di stratagemmi stilistici. Nel
processo di scoperta delle proprie emozioni, Oliphant cerca di trovare il modo di
articolare un tipo più sottile di sentimento, un misto di imbarazzo e autocoscienza, in
un contesto sociale in cui le persone ricorrono a cliché e a gesti melodrammatici per
esprimere le loro emozioni. È questo tipo di emozione più sottile e difficile che, in
definitiva, riflette la posizione problematica di Oliphant sia come romanziera che
come autrice della propria autobiografia, in cui si trova a scrivere delle limitate
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opportunità della donna nella middle-class vittoriana e a mostrare i codici
ampiamente accettati di comportamento femminile come indegni e umilianti.
La scelta delle emozioni, come uno dei parametri più idonei ad indagare nel
lavoro di Oliphant, è guidata da due motivazioni principali: da una parte quella
storico culturale – l’età vittoriana con le sue severe norme di comportamento e la
controversa moralità, per cui ci si chiede quali fossero gli strumenti linguistici che
una donna utilizzava quando doveva scrivere la propria vita – dall’altra, la
motivazione letteraria. Sia Autobiography che i due romanzi scelti in questo lavoro,
tra la sua vasta produzione, mostrano diverse modalità di analisi dei sentimenti.
Abbiamo rilevato come il meticoloso modo della scrittrice di affrontare i sentimenti,
sempre molto preciso e controllato nei romanzi, oltretutto evidenziato dallo stile
stesso della narrazione, venga a mancare proprio nel testo autobiografico, in cui la
scrittrice più propriamente avrebbe dovuto trovare il modo per dare voce ai
sentimenti repressi. Autobiography risulta un testo frammentato in cui il lettore,
invece di sentirsi più vicino all’autrice, si sente quasi escluso da una parte della sua
vita.
Soprattutto nel quinto capitolo di questo lavoro sarà osservato e commentato
il modo con il quale Margaret Oliphant gestisce il tema delle emozioni. La scrittura,
unico strumento disponibile per tradurre i suoi sentimenti, diventa di volta in volta
elemento con il quale confrontarsi. Le parole spesso celano, altre volte mostrano,
quanto fosse difficile per la scrittrice parlare di sé. La scrittrice padroneggia lo
strumento linguistico in modo tale da far sentire il lettore totalmente coinvolto e
commosso dalla rievocazione emozionale dei suoi ricordi, e allo stesso tempo
totalmente smarrito quando di proposito viene estromesso da certi aspetti della sua
vita. Soprattutto nella Autobiography, si osserva il tentativo della scrittrice di
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trasmettere quanto poco banale e naturale fosse il processo di ricostruzione
autobiografica e quanto questo finisca per caratterizzare fortemente il testo. Un testo
estremamente frammentato, discontinuo, al cui interno si fondono diverse espressioni
verbali. Autobiography può essere definito un testo sperimentale se si considera il
preciso impegno dell’autrice di trovare uno stile tutto suo in grado di trasmettere la
sua vita. Qui più che nei romanzi il ruolo di autrice è messo alla prova. Il racconto di
una vita è il racconto del continuo mutamento di una persona, per questo motivo la
Autobiography mostra sia lacune che imperfezioni dovute alla mancanza di
continuità intrinseca nella vita. Il carattere discontinuo della sua autobiografia, come
vedremo nel corso di tutta la trattazione, non è da interpretare come una mancanza di
applicazione da parte della scrittrice, bensì come preciso intento e particolare scelta
narrativa della medesima. Valutiamo importante sottolineare l’intento narrativo che
sta alla base dell’autobiografia di Oliphant e che per troppo tempo è stato negato per
la superficialità di coloro
3
che per primi hanno fatto pubblicare la Autobiography.
Molti critici hanno cercato di spiegare l’evidente difficoltà di Oliphant di
scrivere in prima persona, ma quasi tutti sono arrivati alla stessa conclusione, ovvero
che la Autobiography dimostra la sua difficoltà di risolvere il dissidio tra vita privata
e pubblica. Sebbene la teoria del conflitto vita privata-pubblica sia più che
condivisibile, non può essere considerata esaustiva. Vedremo e spiegheremo perché
nel corso di questo lavoro.
3
Si fa in particolare riferimento alla curatrice di Autobiography and Letters, Mrs Harry Coghill.
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I. BIOGRAFIA
I. 1. “The most remarkable woman of her time”
Margaret Oliphant Wilson nacque il 4 aprile del 1828 a Wallyford,
Midlothian, Scozia. Suo padre, Francis W. Wilson, era impiegato statale e bancario.
La madre, Margaret Oliphant, avida lettrice, si dedicò all’istruzione della figlia e non
mancò di trasmetterle l’interesse per la storia e la cultura scozzese. La sua famiglia
apparteneva alla Free Church of Scotland che era considerata una setta radicale del
Presbiterianesimo. In seguito la scrittrice abbandonò i principi rigorosi di questa setta
protestante ma mantenne un fermo teismo per tutta la sua vita.
Sebbene all’età di dieci anni si trasferì con la famiglia a Liverpool, dove
trascorse la maggior parte degli anni formativi e dell’età adulta, continuò a
riconoscersi con la tradizione scozzese. Nel 1849 fu pubblicato il suo primo
romanzo, Passages in the Life of Margaret Maitland. Qualche anno dopo incontrò a
Londra il cugino Francis Wilson Oliphant (Frank), pittore di vetrate per chiese che
diventò suo futuro marito. I primi anni di matrimonio non furono facili e non
mancarono i momenti difficili. Dei primi cinque figli nati dopo il matrimonio ne
sopravvissero solo due: Maggie e Cyril (Tiddy). Nell’arco di pochi anni perse
l’amatissima madre e il marito di tubercolosi. Frank morì nell’ottobre del 1859 a
Roma dove Margaret aveva portato la famiglia nella speranza che il clima giovasse
alla salute del marito. Due mesi dopo la morte del marito nacque Francis Romano
(Cecco) l’ultimo dei suoi figli. Tornata in Inghilterra, iniziò la fortunata
pubblicazione seriale di The Chronicles of Carlingford su Blackwood’s Edinburgh
Magazine, considerato il suo più grande successo editoriale, ma la felicità fu spezzata
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dalla morte improvvisa a Roma della figlia Maggie di dieci anni. Dopo l’ennesima
tragedia tornò a casa e con la famiglia si trasferì a Windsor per stare vicina ai figli
che studiavano a Eton. La grande casa nel quartiere residenziale londinese, diventò
punto di riferimento e accoglienza per i parenti e gli amici della scrittrice. Finiti gli
studi, i due figli non riuscirono a trovare la propria strada nella vita e collezionarono
un fallimento dopo l’altro. Dopo una lunga malattia, il più grande dei due, Cyril,
morì all’età di 34 anni e quattro anni più tardi venne a mancare Cecco. Margaret vide
i festeggiamenti per il giubileo della regina Vittoria, ma poco dopo si ammalò e il 25
giugno del 1897 morì nella sua casa di Wimbledon, sua ultima residenza.
Margaret Oliphant fu un’autentica “donna vittoriana”, instancabile, viaggiò a
lungo, mantenne una grande famiglia tramite il suo lavoro e soprattutto fu autrice di
un numero sorprendente di opere. Pubblicò circa cento romanzi e diversi racconti,
innumerevoli articoli e recensioni per periodici prestigiosi, biografie, libri di storia,
di viaggio e per l’infanzia, traduzioni e prosa di argomento religioso. Fra i romanzi
più popolari ricordiamo: Miss Marjoribanks della serie The Chronicles of
Carlingford, Hester e Kirsteen, romanzi di ambientazione scozzese. Altrettanto
famosi i racconti “soprannaturali”, fra cui “The Library Window” e naturalmente la
Autobiography.
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II. UNO SGUARDO SUL PENSIERO DELL’ETÀ VITTORIANA
II. 1. Sentimenti ed Emozioni nell’Età vittoriana
I vittoriani avevano ereditato il culto delle emozioni “nobili” (amore,
speranza e ammirazione) dai romantici, dalla fede che aveva Jean-Jaques Rousseau
nella bontà intrinseca della natura umana e nella nascita spontanea dei sentimenti
morali, fino a quando questi non fossero corrotti dalle cattive influenze della
civilizzazione e frenati da una disciplina autoritaria. Rousseau può essere considerato
come la sorgente del flusso di moralità vittoriana.
Le cosiddette emozioni nobili dei vittoriani, l’amore, l’ammirazione e la
speranza, trovano l’ambiente che più di tutti li deve sviluppare nella casa: tempio
della famiglia in cui la donna è centro e pilastro della vita e dell’amore, poiché
ritenuta l’unica creatura in grado di diffondere gli alti valori promulgati dal pensiero
vittoriano. All’interno della famiglia l’uomo può imparare “the sentiment of
attachment, comradeship, fellowship, of reverence for those who can teach us, guide,
and elevate us, of love which urges us to protect, help, and cherish those to whom we
owe our lives and better nature.”
4
.
Questo è ciò che l’uomo vittoriano apprendeva all’interno delle mura
domestiche e che, poi, era chiamato a diffondere al mondo intero.
Le tre emozioni “nobili” sono strettamente legate ad uno dei valori principali
per l’uomo vittoriano: l’entusiasmo.
4
Frederic Harrison, conferenza del 1893 su “Family Life”, On Society, London, 1918, in W. E.
Houghton (a cura di), The Victorian Frame of Mind 1830-1870, New Haven and London, Yale U. P.,
1957.
14
E’ l’entusiasmo che genera, infatti, l’ammirazione, l’amore e la speranza.
Ammirare vuol dire non criticare o tantomeno ridicolizzare. Bisogna avere
ammirazione per ciò che è buono nella natura dell’uomo e avere speranza per
l’umanità. È necessario avere una visione ottimistica dell’uomo nell’universo.
L’uomo virtuoso è colui che riconosce la bellezza e la grandezza della natura umana,
e per questo è colmo di ammirazione, amore e speranza. La donna, angelo del
focolare, diventa la sacerdotessa della casa, una guida morale della famiglia,
portatrice sana dei valori vittoriani. The Women of England, their Social Duties and
Domestic Habits (1839) di Sarah Stickney Ellis, considerato una sorta di manuale di
comportamento per le giovani inglesi del periodo, offre qualche utile consiglio sul
ruolo domestico della donna nell’Ottocento, che doveva essere “ a companion who
will raise the tone of his mind from… low anxieties, and vulgar cares (…) will lead
his thoughts to expatiate or repose on those subjects which convey a feeling of
identity with a higher state of existence beyond this present life.”
5
Fin dall’infanzia,
nel vittorianesimo, le donne erano educate a reprimere le loro emozioni e i loro
pensieri. La donna, angelo del focolare domestico, era una creatura sensibile e pura
che non poteva esternare pubblicamente emozioni come passione, rabbia, ambizione
e onore. Le caratteristiche ideali di una donna erano l’amore per la casa, la passività,
l’affettività, la capacità educativa e la moralità intuitiva. Il ruolo della moglie era di
creare un’oasi di pace e stabilità emotiva; non solo per mantenere l’apparenza
esteriore di ordine e tranquillità ma per costruire, attorno ad ogni quadro domestico,
un solido muro di sicurezza, che nessun sospetto interno potesse incrinare e
attraverso cui non potesse far breccia alcun nemico esterno.
6
5
Sarah Stickney Ellis, The Women of England, their Social Duties and Domestic Habits, London,
1943, pp. 99-100.
6
George W. Stocking jr., Antropologia dell’Età Vittoriana, traduzione a cura di Margherita Fusi,
Roma, Ei Editori, 2000.
15
Alle donne era insegnato che era sconveniente parlare in pubblico di certi
argomenti femminili considerati tabù, come la maternità o il ciclo mestruale.
Ugualmente sconveniente era parlare di morte o di politica o di affari.
La maggior parte della popolazione femminile non aveva frequentato scuole e
le classi più agiate non avevano potuto studiare nelle università. In conseguenza di
questi svantaggi, le donne erano considerate inferiori agli uomini e quindi incapaci di
poter esprimere una qualsiasi opinione su tutti quegli argomenti considerati
“maschili” come gli affari e la politica. La donna era considerata debole e fragile a
causa del proprio sesso e molti medici credevano che la fragilità femminile e
l’inferiorità intellettuale della donna, derivassero dal fatto che nella donna fosse il
corpo a controllare la mente. Così è riportato in uno studio condotto da Sally
Shuttleworth circa il rapporto tra corpo e mente nella donna:
“A woman’s period was believed to play a uniquely causative role in the
unified circulating system of body and mind. The physiological, mental
and emotional economies of womanhood were all regarded as
interdependent. Any aberration in the menstrual flow … must inevitably
create an equivalent form of mental disorder. Similarly, strong emotions
could cause menstrual obstructions leading in turn to insanity and death.
If the menstrual flow were obstructed, and thence denied its usual exit, it
would, Doctors warned be forced to flood the brain and thus lead to
irreparable psychological breakdown.”
7
Questo spiega inequivocabilmente come il provare forti emozioni, come il
dolore o la rabbia, portassero la donna a disordini mentali o addirittura alla
morte. La teoria fisiologica era senza dubbio dalla parte della donna quando si
7
Sally Shuttleworth, “Female Circulation: Medical Discorse and Popular Advertising in the Mid-
Victorian Era”, in Shuttleworth et all (1990), pp.47-48.
16
trattava di adattarla al ruolo domestico. La donna era un essere poco capace di
ragionamento, debole e timida e naturalmente soggetta all’autorità dell’uomo,
più forte e razionale. L’espressione dell’emozione, quando permessa, era
severamente controllata. L’Enciclopedia Britannica del 1842 stabiliva che le
“femmine” non avevano alcun privilegio se non il consenso da parte di un
membro maschile della famiglia di rifiutare un uomo, inoltre ad una donna
corteggiata era permesso fare appello ad un “timid blush” o al “faintest of
smiles” per comunicare le sue emozioni.
17
II. 2. Etica vittoriana
Rabbia, disprezzo, sfiducia, pessimismo e biasimo sono considerate emozioni
ignobili tanto per l’uomo quanto per la donna. Avere un atteggiamento positivo nei
confronti del mondo e della vita è una delle prerogative dell’età vittoriana sostenute
dal pensiero positivistico in filosofia tutto teso a dare importanza ai fatti positivi, alle
leggi della natura, alle scienze sperimentali, nei confronti delle costruzioni teoriche
dei sistemi filosofici. Con Auguste Comte, il Positivismo, orientamento filosofico
che nel corso dell’Ottocento si sviluppa in direzioni diverse e ramificate, giunge a
esercitare una vasta egemonia sulla cultura europea. Due sono le tappe fondamentali
del pensiero comtiano: la legge dei tre stadi e la classificazione delle scienze. La
prima, la legge dei tre stadi afferma, in maniera semplificativa, che l’umanità si
evolve, in ciascun campo della sua attività, passando per tre fasi: lo stadio teologico,
quello metafisico e quello scientifico. La classificazione delle scienze, secondo
Comte, si distingue in cinque scienze fondamentali: astronomia, fisica, chimica,
biologia e la fisica sociale o sociologia. Quest’ultima, come le altre scienze,
comprende uno stato dinamico e uno statico. La scienza statica studia i legami tra le
idee, le istituzioni, i costumi, ecc., dei vari popoli nelle varie epoche. Particolare
attenzione viene data all’istinto altruistico, che starebbe alla base dell’etica, l’istinto
della famiglia, che starebbe alla base di gran parte delle istituzioni sociali, e infine la
coscienza del dovere. È proprio la famiglia il centro della vita vittoriana. La famiglia
che abita la casa è il luogo sicuro e sacro per ogni vittoriano. Diventa il luogo per
eccellenza riservato ai sentimenti, proprio perché i buoni sentimenti sono riservati.
Del problema della morale si occupò anche Jeremy Bentham, considerato il
primo degli utilitaristi inglesi. Secondo Bentham, l’uomo deve ricercare il bene ed
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evitare il male. È il principio di utilità il cardine della sua filosofia: attraverso il
metodo scientifico, una sorta di aritmetica morale, si misura il piacere e il dolore in
base a certe qualità come l’intensità, la durata, la certezza, la fecondità e la purezza.
Lo stesso interesse per l’etica investe un altro grande intellettuale vittoriano, John
Stuart Mill, secondo cui l’immagine di un’umanità perfetta poteva stimolare le
emozioni nobili come l’ammirazione, l’amore e la speranza. Mill riconosce il potere
che ha la poesia di suscitare emozioni nell’uomo, ma non consegna alla poesia
alcuna funzione morale. Mill mantiene fede al principio utilitaristico di Bentham, ma
sente la necessità di integrarlo con alcuni principi tratti dall’individualismo
romantico. Il sentimento morale, secondo Mill, permetterebbe all’uomo di
sacrificarsi per il bene degli altri, e questo sentimento non è innato, ma è il prodotto
della vita sociale.
Dal positivismo di Bentham e Mill, si passò a quello evoluzionistico di
Charles Darwin e Herbert Spencer. La teoria dell’evoluzione della specie di Charles
Darwin portò enorme sgomento al mondo vittoriano. Origin of Species, pubblicato
nel 1859, introducendo il nuovo concetto di selezione naturale che stabilisce che
l’evoluzione della specie è assicurata dagli individui che si dimostrano più adatti, che
sopravvivono alla lotta per la vita e che quindi tramandano ereditariamente le loro
caratteristiche, portò all’esclusione che l’ambiente potesse influire direttamente sugli
organismi. Si sovvertì, così, uno dei pilastri del vittorianesimo. Ma fu con Descent of
Man che Darwin sollevò addirittura lo sdegno della società in cui viveva. Sostenne
che l’uomo è una forma evoluta di alcune scimmie antropomorfe e che anche le
facoltà elevate dell’uomo sono il frutto della sua evoluzione per mezzo della
selezione naturale. Molte e diverse furono le reazioni a tali teorie, ma sicuramente il
senso di solitudine e di abbandono fu il sentimento più diffuso.