7una generazione perfetta, senza difetti e soprattutto programmata. Da
sempre, infatti, l’uomo ha avvertito l’esigenza di prevedere, di fondare il
suo futuro su certezze incrollabili, in modo da conoscere e quindi
controllare ciò cui si va incontro, e questa tendenza si sta facendo
sempre più pressante soprattutto in questi ultimi tempi in cui, grazie ai
prodigi della ricerca, si fanno scoperte sconvolgenti. Non c’è da
meravigliarsi se l’uomo aspira sempre a perfezionare quello che già ha;
sin dalle origini dell’umanità Adamo lanciò la sfida contro il suo
Creatore raccogliendo il frutto dell’albero che portava alla conoscenza
del bene e del male, spezzando in questo modo quel legame di
dipendenza che lo avrebbe reso artefice delle sue scelte e del suo
destino.
È l’ossessione per il proprio destino e per la propria realizzazione
su questo pianeta che spinge l’uomo ad applicarsi con tutte le proprie
forze nei campi più differenti, al fine di assicurarsi una sopravvivenza
nel futuro. C’è chi si applica nelle scienze tecnologiche, chi nella
letteratura, chi nella medicina, chi nella produzione cinematografica, chi
nella musica; continuando potremmo riempire pagine elencando le
infinite facoltà intellettive di cui l’uomo dispone, ma tutte stanno a
testimoniare che ogni individuo possiede dei doni, dei carismi
1
da
mettere al servizio della collettività in cui vive e che gli permettono di
distinguersi dagli altri. Tutto sta nell’uso sapiente di queste potenzialità
nel migliore dei modi.
Il lavoro che abbiamo intenzione di svolgere in questa sede ha
l’obiettivo di mostrare come due uomini, separati da ben otto secoli,
abbiano in comune l’eccezionale capacità di segnalarsi sul panorama
socio-culturale dei rispettivi tempi in cui hanno vissuto, ponendosi con
la propria personalità come simboli di vere e proprie correnti culturali.
1
Il termine carisma è qui inteso nel senso di dono divino. Nella dottrina cristiana
l’individuo riceve doni soprannaturali dallo Spirito Santo, di carattere straordinario, che
vengono conferiti per il bene generale dei fedeli, ma possono indirettamente condurre
anche alla santificazione di chi le riceve.
8Pur partendo ciascuno da posizioni sociali differenti, sono riusciti ad
armonizzare due mondi separati non solo fisicamente ma soprattutto
culturalmente: il mondo orientale e quello occidentale.
Lo spunto per un’analisi di questo tipo ci è stata fornita da Il
cavaliere dell’intelletto, opera ideata e curata dal Maestro Franco Battiato,
che evidenzia il vissuto politico e sociale della corte del grande
Hohenstaufen, l’imperatore Federico II di Svevia.
Il legame esistente tra Franco Battiato e Federico II, che avremo
modo di scoprire nel corso della nostra analisi, è così ratificato in questa
opera commissionata al cantautore dalla Regione Sicilia, in occasione
dell’ottavo centenario della nascita dell’imperatore svevo. In essa sono
sapientemente orchestrati tutti gli elementi che hanno fatto di Federico II
lo Stupor Mundi.
L’opera evidenzia non solo le concezioni politiche dell’imperatore,
ma si fa portavoce delle inquietudini spirituali che agitavano il sovrano,
e che lo avvicinarono al mondo sapienziale orientale.
Scopo di questo lavoro è perciò quello di analizzare i punti di
contatto tra l’autore e il soggetto dell’opera, sottolineando i legami
intrinseci che accomunano i due personaggi, rendendoli l’uno la
proiezione, rispettivamente nel passato o nel futuro, dell’altro. Con ciò
non intendiamo affermare che Battiato sia un clone o un’imitazione
dell’imperatore svevo, è nostra intenzione anzi dimostrare e illustrare
quali sono gli aspetti della vita di ciascuno che rendono entrambi
cavalieri dell’intelletto.
L’analisi partirà pertanto con un’indagine dapprima storico-
biografica dei due protagonisti, che ci permetta di comprendere quale
sia il contesto sociale, politico e culturale in cui i nostri personaggi si
sono trovati a vivere. In seguito cercheremo di cogliere le passioni e gli
interessi comuni ad entrambi. A questo scopo ci avvarremo dei testi di
alcune canzoni di Battiato e dei documenti, a noi pervenuti, che
testimoniano la produzione poetica di Federico II e della Scuola
9Siciliana. Successivamente potremo affrontare l’analisi de Il cavaliere
dell’intelletto, seguendo i fili conduttori delle modalità espressive e delle
culture sottostanti al testo spettacolare. In questo modo faremo
riferimento all’ideologia religiosa e filosofica di Federico II, di
ispirazione aristotelica e platonica. Gli stessi spunti concettuali saranno
poi riscontrabili nel pensiero di Battiato, specialmente riguardo ai
problemi dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio. Avviandoci
alla conclusione, infine, soffermeremo l’attenzione sui concetti di potere
e di cultura, così come sono concepiti dai protagonisti della nostra
analisi, e utilizzeremo un approccio di tipo sociologico, che ci permetta
di estendere le nostre considerazioni alla società in cui viviamo.
Federico II e Franco Battiato sono stati, e per certi versi lo sono
ancora, personaggi che hanno lasciato un segno inconfondibile nella
storia dell’umanità e che hanno contribuito in qualche modo alla crescita
sociale e culturale del periodo in cui hanno rispettivamente vissuto.
10
Capitolo I
Federico II di Svevia:
il più grande principe del mondo
Così è chiamato, poco tempo dopo la sua morte, l’imperatore
Federico II, nelle lucide pagine del cronista inglese Matteo Paris, che
individuava in tal modo nel sovrano svevo un personaggio d’eccezione,
che si era imposto all’attenzione del mondo intero. I commenti dei
posteri non smentirono l’opinione di questo contemporaneo, che ebbe
modo di assistere alle gesta di un imperatore che stupì non solo per la
capacità di amministrare un vasto impero, ma soprattutto per la spiccata
personalità, al cui fascino non si sottrassero neanche i suoi avversari.
Non sarà questa la sede opportuna per rievocare l’intera vicenda
umana di Federico II, ma ci limiteremo a rammentare gli episodi che
meglio rappresentano il concetto che egli aveva di se stesso, ovvero il
forte senso di discendenza divina e la convinzione che il suo operato
fosse ispirato da Dio stesso per il bene dell’umanità intera.
Politico, legislatore, condottiero, osservatore dei fenomeni naturali,
esperto di arti e di poesia, Federico II di Svevia è stato un innovatore in
qualsiasi campo si sia cimentato; sarà quindi nostro compito quello di
sottolineare quegli aspetti della vita di questo grande, che più hanno
contribuito a renderlo lo Stupor Mundi.
11
1.1 La nascita di un mito
Fin dalla nascita, Federico desta attenzione e fornisce spunto ai suoi
contemporanei per chiacchiere che insinuano il sospetto sulla reale
identità di sua madre. Il 26 dicembre del 1194, a Iesi, comune delle
Marche, viene alla luce il piccolo Federico Ruggero, erede di Enrico VI
Hohenstaufen e Costanza D’Altavilla. Il parto avviene in una tenda nella
pubblica piazza, perché la madre, ormai quarantenne, volle evitare che
fossero avanzati dubbi sul suo effettivo concepimento del piccolo.
Non fu difficile leggere nella sua data di nascita e nel modo in cui
egli venne alla luce, una sorta di similarità con la figura di Gesù Cristo.
L’essere nato il giorno dopo Natale, e per di più non al chiuso delle
mura della corte paterna, pareva simboleggiare la nascita di un nuovo
salvatore, di colui che avrebbe portato sulla terra un’era di pace e di
prosperità. In effetti, erano quelli tempi in cui si vaticinava l’avvento di
un regno caratterizzato dalla pace e dalla concordia, forse perché si era
stanchi delle guerre che gli imperatori conducevano da tempo contro i re
normanni di Sicilia. Il popolo era incalzato da un clima di terrore
instaurato dal regno di Enrico VI, padre di Federico II e figlio del grande
Barbarossa, che con repressioni violente e dense di una crudeltà mai
vista, aveva cercato di preparare per la sua discendenza un impero
simile a quello dei Cesari.
L’eredità che gravava su Federico era quindi notevole; figlio di un
sovrano noto per l’efferatezza con cui puniva gli insorti, nasceva
circondato dalla speranza che non emulasse le imprese paterne, ma che
anzi risollevasse le sorti del popolo siciliano oppresso. D’altra parte,
però non si poteva ignorare che fosse figlio anche di Costanza, nipote e
unica erede di Guglielmo II, re di Sicilia, il quale, sebbene fosse ancora
giovane, non aveva avuto figli. Alta, bionda, dalla carnagione candida
che le veniva dagli antenati nordici, l’erede del trono di Sicilia aveva lo
12
stile unico e le maniere raffinate di una principessa educata alla corte
più ricca e sofisticata dell’Europa occidentale. La modestia del suo
portamento era il segno sottile di quella vita femminile appartata che era
la norma alla corte palermitana.
Federico così, già prima della nascita, avrebbe rappresentato il
sodalizio tra l’impero di Germania e il regno di Sicilia; nella sua persona,
secondo i disegni paterni, si sarebbe incarnata la figura di un sommo e
assoluto sovrano delle terre del Nord e di quelle del Sud. Ma per
realizzare ciò sarebbe stato inevitabile lo scontro con il Papato e i
comuni Lombardi, che per la propria posizione geografica ostacolavano
i progetti espansionistici degli Hohenstaufen. Oltre al mandato regale,
Federico ricevette quindi in eredità dal padre anche la lunga e
perpetrata tradizione di odio nei confronti di queste due potenze, che in
alterne vicende costituirono i principali avversari nella sua corsa al
potere.
Forse proprio il clima di attesa di un cambiamento sul panorama
europeo, attraversato da lunghe e sanguinose lotte per il predominio,
aveva contribuito alla creazione di profezie sulla nascita del piccolo
Hohenstaufen, che, a dire di alcuni, era stata già predetta da Virgilio
nella IV Ecloga. Ivi il poeta aveva delineato l’immagine del futuro
dominatore del mondo, attribuendogli i tratti del Messia. Lo stesso
Federico II, nel corso della sua vita si dimostrò incline a definirsi negli
stessi termini, vedendo in sé la realizzazione di ciò che il profeta biblico
Michea aveva detto a proposito di Gesù. In una lettera
2
indirizzata alla
sua città natale, Iesi, si era così espresso: “...e così sei tu, Bethlem, città delle
Marche, non la più piccola tra i Principi della nostra specie: poiché da te è
venuto il Duce, il Principe dell’Impero Romano, che domina sopra il tuo popolo
e lo protegge e non permette che essa sia soggetta a mani straniere...”
3
.
Federico II ha chiaro sin dall’infanzia che il suo mandato viene dall’alto
2
In De Stefano, L’idea imperiale di Federico II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1979
3
Cfr. il passo biblico Michea 5,1
13
e che come Unto del Signore esplica sulla terra un potere di origine
divina; egli si sente il virgulto della radice di David, su cui si è posato lo
Spirito del Signore carico di innumerevoli doni.
1.2 L’infanzia tra “miseria e nobiltà”
Per comprendere la ricca personalità di Federico, è necessario fare
riferimento agli anni della sua giovinezza; anni in cui nessuno immagina
che il rampollo del più grande impero d’Occidente abbia vissuto in
povertà, costretto a rifugiarsi presso i più umili contadini siciliani.
Dopo la morte del marito Enrico VI, Costanza si vide costretta a
preservare se stessa e il suo bambino dalle minacce dei comandanti
militari tedeschi, capeggiati dal terribile Markward di Anweiler, che
imperversavano con scorribande e razzie nella terra di Sicilia,
rivendicando il diritto di esercitare la potestà tutoria sul fanciullo. Per
proteggere Federico, Costanza scese a patti con il Pontefice Celestino III,
che avrebbe riconosciuto il diritto al trono di suo figlio, ottenendo in
cambio la revoca di tutti quei privilegi che dalla Chiesa di Roma erano
stati concessi ai sovrani normanni. Nonostante le premure della madre,
il piccolo Federico non fu risparmiato da un’infanzia di privazioni e di
sofferenze. Dopo la morte di Costanza crebbe, abbandonato a se stesso,
nel palazzo reale di Palermo; qui sperimentò l’abbandono finanche del
suo tutore, che, incaricato di seguirne l’educazione, fu in verità troppo
occupato a proteggere gli interessi degli ecclesiastici dagli invasori
tedeschi.
Sebbene ancora giovanissimo, Federico aveva certamente compreso
che tutti coloro che lo circondavano non pensavano che a se stessi. E se
ancora non lo avesse capito, gli aprì certamente gli occhi il tradimento
che permise a Markward di catturarlo, senza che nessuno tentasse
neppure di difendere la fortezza di Castellammare, dove egli si trovava.
14
Un testimone dell’evento racconta che il regale fanciullo mostrava di
essere pienamente consapevole dell’altissima dignità del suo rango, per
cui, quando Markward tentò di mettergli le mani addosso, adirato per
l’oltraggio che gli veniva fatto, si strappò le vesti e si lacerò la carne con
le unghie. Il presente episodio testimonia il forte temperamento del
giovane sovrano e la piena coscienza della propria regalità.
È interessante a questo punto notare come Federico sia riuscito a
contemperare la propria figura regale con la spensieratezza di un
fanciullo semplicemente dedito ai giochi e allo studio. Dai sette ai dodici
anni, egli visse in una Palermo da Mille e una notte, che per due secoli
aveva subito il dominio musulmano e che fu poi conquistata da
Ruggero I.
Negli anni della formazione emerse fin da subito un uomo già
completamente formato: abile nell’esercizio delle armi, splendido
cavaliere, lettore onnivoro e appassionato studioso della natura e
dell’universo intero. Era un ragazzo sempre alla ricerca di risposte alle
sue innumerevoli domande. Questo suo atteggiamento di ricerca
continua della verità non poteva certo ascriversi ad una personalità
sveva, ma era certamente eredità materna, quindi normanna.
1.2.1 L’eredità normanna
Prima di addentrarci nell’analisi degli elementi di derivazione
normanna che hanno forgiato il carattere di Federico II, dobbiamo
chiarire che quando si parla di popoli e di etnie non ci si riferisce ad
immutabili comunità di sangue, ma a concetti astratti. La nascita di un
popolo, l’etnogenesi, è infatti un processo complesso durante il quale
gruppi di uomini acquistano l’autocoscienza di avere delle cose in
comune che li distinguono dagli altri. E così fu anche per i Normanni
4
.
4
Riguardo il concetto di etnogenesi del popolo Normanno vedi il lavoro di Hubert
Houben (2003).
15
Questi cominciarono ad essere considerati un popolo vero e proprio
intorno al IX secolo d.C. quando gruppi di vichinghi si stabilirono nelle
zone della Francia nord-occidentale, corrispondente poi all’attuale
Normandia. I nuovi arrivati trovarono una regione dal commercio e
dall’agricoltura fiorente, dominata da un’aristocrazia d’origine
germanica, fondata sulla cultura gallo-romana. Numerosi erano anche i
centri religiosi e culturali.
Per potersi inserire in una società basata sul culto della romanità, i
vichinghi cercarono di collegare le proprie origini al mondo antico,
proclamandosi discendenti del troiano Enea, fondatore di Roma.
Fenomenale fu di lì la capacità di questi uomini di integrarsi con le
popolazioni indigene con matrimoni misti, ma soprattutto facendosi
notare per la propria ingegnosità, per le doti di eccellenti navigatori, di
ardenti combattenti, di coraggiosi cavalieri, e di sapienti costruttori di
castelli fortificati, di cui ancora oggi abbiamo testimonianze
(specialmente nell’Italia Meridionale).
Il popolo dei vichinghi contribuì non solo alla nascita della
Normandia, ma seppe proiettare la propria fama al di là dei confini
nord-occidentali dell’Europa. I primi Normanni infatti nutrivano il
desiderio di conquistare quella terra bagnata dal Mediterraneo e al
centro degli interessi delle tre grandi aree geo- politiche, ossia quella
latino- occidentale, quella bizantina e quella arabo-islamica. Il meridione
della penisola italiana, coacervo e crocevia di culture, diveniva
appetitosa terra di conquista specialmente per i figli della piccola e
media borghesia, che in Normandia non vedevano realizzate le proprie
aspirazioni. Fra questi, numerosi furono i giovani della famiglia
d’Altavilla che cercarono fortuna nel Sud Italia, ottenendo
riconoscimenti e cariche governative di elevato grado.
Chi più si distinse fu Roberto detto il Guiscardo, ossia l’astuto, sesto
dei dodici figli di Tancredi d’Altavilla, arrivato in Italia nel 1046.
Nominato Conte della Puglia, la sua carriera fu coronata con
16
l’investitura di duca. Ma non era ancora tutto. Dopo la conquista di Bari
progettò la marcia su Costantinopoli, che per vari motivi non si realizzò,
non ultimo perché egli dovette tornare in Italia per aiutare il Papa
Gregorio VII, minacciato dalle truppe dell’imperatore tedesco Enrico IV,
da lui scomunicato. Il Guiscardo riuscì a liberare il pontefice, ma a
prezzo del crudele saccheggio di Roma da parte dei suoi soldati. Fu per
questo e per altri suoi atteggiamenti che alla sua morte nell’epitaffio
sulla sua tomba fu apostrofato “il terrore del mondo”. Il sovrano
normanno rimase presente all’attenzione dei suoi contemporanei per
l’indole prepotente, l’animo crudelissimo, la potenza fisica, la ferocia,
l’inesorabilità nel perseguire i suoi fini e le sottigliezze delle sue
argomentazioni; anche il suo aspetto incuteva una sorta di riverenza: la
sua statura era gigantesca, il colorito rosso fuoco, capelli biondi, spalle
larghe, occhi scintillanti.
Pare in queste linee di scorgere una somiglianza sia fisica che
caratteriale con il suo discendente, il futuro imperatore Federico II,
descritto pressoché allo stesso modo. Anch’egli infatti aveva membra
robuste e corpo solido e agile allo stesso tempo. Non troppo alto, capelli
fulvi, occhi brillanti, fronte serena e regale, viso espressivo. Non manca
neanche in Federico la spiccata voglia di conoscere tutto lo scibile e se
possibile andare oltre i confini delle scienze del tempo. Ma allo stesso
tempo, l’aver vissuto a contatto, negli anni dell’infanzia, con i popolani
gli aveva lasciato un certo retaggio di atteggiamenti fin troppo diretti,
diremmo quasi volgari.
Nella Palermo in cui era vissuto aveva avuto modo di conoscere
anche le numerose comunità arabe e musulmane; lo dimostra il fatto che
da adulto parlava correttamente l’arabo. Anche il suo gusto estetico, le
sue convinzioni e il suo amore per gli studi scientifici erano stati
influenzati da quegli amici musulmani che aveva conosciuto da
giovane. Aspetto questo ereditato anche dal suo avo Ruggero II, nato nel
1095 dalle nozze del conte di Calabria e Sicilia con Adelaide del Vasto.
17
Fu proprio questa donna, forte e determinata, che alla morte del suo
consorte decise di trasferire la propria residenza da Messina a Palermo,
all’epoca una vera e propria metropoli araba; basti pensare che in quel
tempo l’antica cattedrale era stata trasformata in moschea.
Il regno di Ruggero II fu caratterizzato prevalentemente dalla
tolleranza nei confronti di Ebrei, Arabi e Greci, i cui rispettivi influssi si
facevano evidenti negli elementi decorativi degli stupendi palazzi che il
sovrano stesso fece costruire e che rimasero nella storia per la ricchezza
e la raffinatezza stilistica degli ornamenti. Monumenti, questi, che
testimoniano una particolare stagione culturale vissuta a quel tempo
dalla Sicilia normanna.
1.3 Federico II e la tradizione culturale arabo-islamica
L’ atteggiamento che Ruggero II ebbe nei confronti del mondo
orientale lo riscontreremo anche in suo nipote Federico, figura
intellettualmente eclettica, sempre alla ricerca di nuovi stimoli culturali,
da attingere senza distinzione a qualsiasi tradizione, orientale od
occidentale che fosse. Anch’egli infatti amò circondarsi di personaggi di
rilievo del panorama culturale arabo-musulmano, senza disdegnare le
forme poetiche che stavano affermandosi nella Francia provenzale e
nell’Italia settentrionale. La sua corte costituì un importantissimo centro
culturale, cui affluirono i più noti “cervelli”, esperti nelle arti letterarie,
matematiche, fisiche e naturali. D’altronde l’aver vissuto i primi anni
della sua vita a contatto con le forme culturali tipiche delle comunità
musulmane, e l’aver scorrazzato, da ragazzino, negli splendidi palazzi
della Cuba e della Favara a Palermo, ha certamente favorito il formarsi,
in Federico, di uno spiccato interesse per tutto ciò che costituiva oggetto
di studio e conoscenza.
La Palermo del Duecento si presentava come un giardino fiorito,
ricco di piante tropicali e frutti succosi e invitanti; i monumenti, le
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moschee, le vie, i parchi attiravano viaggiatori alla ricerca di quiete e di
ispirazione per i loro versi. Federico ebbe la fortuna di crescere in un
luogo che oggi definiremmo l’ombelico del mondo, dove si incontravano
facce e culture nuove, dove tutto invitava a lasciarsi trasportare dal
piacere per le cose belle.
In questa calda e afosa città, Federico e il suo seguito trascorrevano
festose serate in compagnia di splendide danzatrici orientali,
accompagnate da canzoni d’amore arabe, al suono dei liuti,
sorseggiando dolce vino moscato, famoso nel resto del mondo. Le feste
si svolgevano prevalentemente nei lussureggianti giardini, ricchi di ogni
genere di alberi e cespugli aromatici, come l’alloro e il mirto. In questi
luoghi l’aria a primavera era densa del profumo degli agrumeti e dei
mandorli in fiore che si rispecchiavano nelle limpide e fresche acque dei
ruscelli e dei laghetti artificiali. Qui Federico poteva rifugiarsi nei suoi
frequenti momenti di solitudine, durante i quali si sottraeva alla
vigilanza delle persone di cui non si fidava, per godere solamente della
presenza di animali e uccelli.
Per quanto strano possa sembrare, infatti, Federico amava spesso
trascorrere del tempo in solitudine. Forse perché troppo pressato fin da
giovane da gravosi impegni di governo, egli cercava in questi momenti
la quiete e la tranquillità che solo poteva venirgli dalla contemplazione
quasi estatica della natura. Deve aver passato molto tempo ad osservare
il volo degli uccelli e in particolar modo dei falchi, cui, una volta adulto,
dedicò quello che ancora oggi è il più noto trattato di falconeria, il De
Arte Venandi Cum Avibus. Questo testimonia ancora una volta la sua
personalità curiosa ed attenta, critica e inquieta, tesa al raggiungimento
della conoscenza; attitudini, queste che lo avvicineranno con vivo
interesse al mondo arabo, con le sue tradizioni filosofiche e culturali.
Negli anni del suo impero i contemporanei parlano di Federico come
di un sovrano che sa leggere e scrivere l’arabo, tiene ancelle, paggi ed
eunuchi musulmani, così come musulmani sono i grandi del regno, i
19
dignitari e i ministri. È con Federico II di Svevia, infatti, che si ha la più
bella immagine della Sicilia arabo- normanna, del suo mirabile
sincretismo d’arte e cultura, della sopravvivenza e anzi della vitalità
dell’Islam in quanto filosofia di vita.
Si è già detto della passione per l’osservazione dei fenomeni naturali,
tipica della scienza arabo-islamica, che già da tempo, inoltre, dedicava
notevole spazio allo studio della matematica, un altro grande interesse
del grande Svevo. Non a caso Federico ospitò presso la sua corte
Leonardo Fibonacci, celeberrimo a quei tempi per la sistemazione delle
teorie algebriche di origine araba. Presso la corte siciliana si tenevano
addirittura delle gare matematiche, cui era sempre presente lo studioso:
chiara dimostrazione che alla personalità del grande imperatore
dobbiamo il principale collegamento tra il mondo cristiano e la
tradizione culturale musulmana.
L’interesse di Federico II per l’Islam, in quanto sistema politico e
culturale è dimostrato non solo dalla presenza di dotti arabi sia
musulmani che cristiani alla sua corte. Numerosi erano anche i contatti
con illustri europei formatisi alla scuola dei maestri orientali, noti per
aver tradotto dall’arabo, attingendo a un patrimonio, specie scientifico e
filosofico, per cui il mondo arabo-islamico poteva dirsi superiore
all’Europa cristiana.
Il più autorevole di questa cerchia di scienziati fu certamente
Michele Scoto, uno dei principali mediatori all’imperatore di astrologia,
magia, alchimia; discipline queste strettamente legate nella tradizione
orientale.
La figura di Scoto ricopre un’importanza fondamentale nel corso di
questo lavoro; è lui uno degli interlocutori cui si rivolge Federico nel I
atto de Il cavaliere dell’intelletto. L’opera, infatti, come vedremo in un
successivo capitolo, rispecchia fedelmente i rapporti che i due
intrattennero nel corso della vita.
20
Ma l’interesse dell’imperatore svevo andava oltre quelle scienze e
dottrine che cercavano negli astri la spiegazione a tanti fenomeni; egli
più di ogni altra cosa amò la filosofia, quel sapere che sempre pone
interrogativi e che mai ritiene esaustiva una singola risposta.
E fu proprio nella filosofia di origine islamica che attinse i maggiori
spunti per la sua concezione riguardante l’impero, il senso di giustizia e
la vita stessa, fondando la base delle sue speculazioni filosofiche nel
pensiero di Averroè ed Avicenna, tra i maggiori esponenti del panorama
culturale di ispirazione aristotelica.
Deve essere stato semplice per Federico conoscere e amare le teorie
di questi due filosofi, essendo sempre circondato da musulmani o
comunque traduttori di lingue arabo-islamiche. La testimonianza
tangibile di questo vivo interesse per temi quali l’immortalità
dell’anima, l’ordinamento delle sfere celesti e il rapporto tra il divino e
l’umano, è costituita dai Quesiti Siciliani, una serie di cinque enigmi
filosofici che Federico II indirizzò agli studiosi del mondo arabo.
L’imperatore li inviò intorno al 1240 circa, prima in Egitto, Siria, Iraq e
Yemen; ma non avendo ricevuto le risposte soddisfacenti che si
attendeva, li rinviò al califfo del Marocco
5
. Delle varie risposte che gli
studiosi fornirono per soddisfare la dotta curiosità di Federico II, a noi
sono giunte soltanto quelle di Abd al-Haqq Ibn Sab’yn. Uno dei
maggiori studiosi contemporanei del mondo arabo, tutt’altro che
ortodosso, Ibn Sab’yn era stato già perseguitato dai suoi correligionari
per il suo anticonformismo. Tuttavia, rispondendo ai quesiti
dell’imperatore cristiano egli si attenne a una ortodossia musulmana
impeccabile, aggiungendo però che gli sarebbe piaciuto poterne parlare
con Federico a quattr’occhi. Sarà proprio l’incontro tra questi due grandi
personaggi al centro dell’attenzione nel II atto de Il cavaliere dell’intelletto,
5
Il fatto che egli si rivolgesse esclusivamente ad esponenti del mondo arabo-
musulmano testimonia il suo amore per questa tradizione culturale e il suo
anticonformismo nei confronti delle dottrine cattoliche, il che giocò un ruolo
fondamentale nella vicenda della doppia scomunica da parte del Papato.