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forme di comunicazione, i rapporti interpersonali, gli usi e costumi, le
forme della politica. L’evoluzione informatica, e quindi dei media, ha di
fatto anche cambiato la logica dell’ordine sociale e politico moderno,
riorganizzando su nuove basi il rapporto tra luogo fisico e luogo sociale e
modificando i modi in cui trasmettiamo e riceviamo le informazioni
(Meyrowitz 1993). Ciò avrebbe influito su quasi tutti i ruoli sociali poiché
il potere dei nuovi media – in particolare la televisione – è in grado di
frantumare le distinzioni tra dentro e fuori, tra personale e pubblico. La
trasformazione in atto mostra come peculiarità una spiccata inclinazione
del sistema socio-economico verso l’amplificazione dei suoi aspetti più
spettacolari; i nuovi mezzi di comunicazione, infatti moltiplicano le
immagini – dilatandole oltre misura – rischiando, però, di appannare la
distinzione tra il virtuale e il reale e riducendo progressivamente la
capacità di conoscenza diretta della realtà. Quel che accade, quanto ci
circonda, le nostre stesse esperienze, ci giungono attraverso le immagini
e come tali sono esperite.
Nella società occidentale sembrerebbe essere in atto, dunque, una
deriva vertiginosa di tale inclinazione: le immagini tendono a prendere il
sopravvento sulla realtà;
“il mondo moderno produce delle tracce e delle
immagini ad un livello mai raggiunto nella storia delle società
umane, che sono da una parte sottomesse alle ideologie
rassicuratici della storia e della memoria che le conducono a
conservare tutto, immagazzinare tutto, anzi rendere museo
la totalità del mondo conosciuto, dall’altra parte sono inclini
a produrre sempre più messaggi ed immagini” (Candau 2002,
p. 140).
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Ciò non produce necessariamente conoscenza o coesione sociale,
bensì sembra portare a quella che Joel Candau definisce iconorrea, ovvero
una sorta d’inflazione dell’immagine vissuta dagli individui che sono
immersi in un universo affollato, gremito e fecondato dal fluire
incessante delle immagini. La conseguenza più immediata risulta essere la
crescita del senso di confusione, l’incapacità di differenziare gli
avvenimenti che sono posti sullo stesso piano senza possibilità di
distinguerli.
“L’iconorrea produce un’agnosia dell’evento: questo
non è più che una successione di piani percepiti senza durata
e indipendenti gli uni dagli altri il cui senso sfugge in gran
parte allo spettatore.[…] Quando ci sono troppe immagini
non restano che icone e l’individuo non può accedere all’idea
o all’immaginario veicolati dal supporto delle immagini”
(Candau 2001, p. 144).
Paul Virilio considera che si starebbe verificando una vera e
propria industrializzazione dell’oblio, Meyrowitz ritiene, a sua volta, che
l’individuo tenderebbe a perdere il senso del luogo. Questa tesi è verificata e
discussa relativamente ai processi di mutamento dei sistemi di ruolo
socio-culturali e politico-istituzionali. Secondo Meyrowitz, inoltre, i
nuovi modelli di accesso alle informazioni attraverso i media elettronici
hanno disgregato le tradizionali strutture giuridiche fondate sul controllo
dell’informazione e alimentato una generale sfiducia nei confronti
dell’autorità politica. Per usare un’espressione colorita si può definire tale
scenario una sorta di regno dell’immagine laddove però l’immagine non è
che l’espressione concreta di una entità superiore: lo spettacolo.
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Questo non deve più essere inteso come un fenomeno
circoscritto, una manifestazione estemporanea. Si tratta, piuttosto, di una
caratteristica della nostra epoca: è la progressiva tendenza alla
materializzazione – reificazione – dell’immaginario nella realtà. Un
complesso dispositivo integrato e diffuso costituito da immagini e da
idee, che produce e regola le opinioni e il discorso pubblico.
Questa dimensione dello spettacolo come principio costitutivo della
società contemporanea è stato individuato, analizzato e descritto con
straordinaria lungimiranza da Guy Debord nel 1967 ne “La società dello
spettacolo”
1
. Questo mutamento, coinvolge più aspetti dell’azione
sociale; si starebbe verificando un processo di cambiamento nello spazio
mondo (Mattelart 1997).
Tracce sempre più evidenti di questo processo possono essere
lette anche dal punto di vista delle nuove forme dell’agire politico e della
comunicazione tanto interindividuale quanto di massa. Questi tre livelli –
rapporti sociali, politica, comunicazione – fino a meno di mezzo secolo
fa erano sostanzialmente separati, una sorta di monadi, “centri
rappresentativi” unici e attivi: la politica aveva il compito di governare e
di effettuare le scelte normative, la società civile doveva rispettare tali
norme ed infine i mezzi di comunicazione deputati ad informare e fare
da tramite, appunto, tra società civile e politica. La società dello spettacolo
abbatte le frontiere tra i tre livelli aprendo le monadi ad un continuo
interscambio dialettico in cui lo spettacolo – inteso in una nuova accezione
del termine – funge da comune denominatore. Lo spettacolo permea e
struttura la società, la politica e le comunicazioni di massa.
1
Nel 1988 con i “Commentari alla società dello spettacolo”, tornerà sull’argomento per ribadire e
confermare le sue tesi
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Il mondo della politica, invero, si è impossessato da tempo dei
mezzi di comunicazione di massa. Già a partire dal primo dopoguerra
s’era iniziato a comprendere l’utilità che poteva derivare dall’uso
particolaristico dei media. Così negli anni ’40 si parlava dell’incubo del
Quarto Potere. L'occupazione dei nodi nevralgici di diffusione delle
informazioni e di costruzione del consenso, sembrava avere come fine la
manipolazione, la falsificazione o peggio ancora la censura. Se è vero che
questo aspetto della relazione media-politica non è stato sufficientemente
indagato, è necessario oggi assumere un nuovo punto di vista
analizzando come la politica, il modo di fare politica, sia stata
profondamente cambiata dall'abbraccio con i mass media. L’osservazione
quotidiana offre continuamente spunti per riflettere su tale cambiamento.
Moltissime decisioni si prendono sulla base di sondaggi di opinion, prima
di qualsiasi azione politica si cerca il consenso della maggior parte
dell’opinione pubblica, le leggi non si fanno ma si annunciano a reti
unificate ancora prima che siano discusse e approvate. Spesso il dibattito
politico, che in teoria dovrebbe svolgersi nelle sedi istituzionali preposte
– quali il parlamento o le commissioni parlamentari – nasce, vive e
muore invece sulle pagine dei giornali o nei salotti televisivi.
Abbandonato senza troppo rimpianto lo scontro ideologico
l’azione politica sembrerebbe mossa, piuttosto, dalla necessità di fare
notizia e avere la prima pagina sui mezzi di comunicazione, magari
spiazzando e shockando l'opinione pubblica. Tutto solo per rubare
spazio comunicativo all'avversario politico, farlo uscire dal centro dei
riflettori. L'azione dei governi sembra orientata esclusivamente ad
alimentare una buona immagine di sé attraverso i mezzi di
comunicazione. L'azione politica passa così sempre più attraverso le
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promesse roboanti e le dichiarazioni ai giornalisti, e sempre meno con le
leggi in parlamento. Non a caso molti descrivono questo scenario come
l’affermazione di un modello di comunicazione di tipo going public
(Kernell 1986) in grado, cioè di raggiungere direttamente il cittadino
elettore bypassando i tradizionali canali di rappresentanza. Tale modello
è, tra l’altro tipico all’interno di una strategia di campagna permanete
dove prevale costantemente il volitivo annuncio, lo spot pubblicitario, la
battuta efficace, il desiderio di sedurre. Il risultato finale è un diffuso
senso di disorientamento ed una incapacità sostanziale nel distinguere la
politica rappresentata dalla politica che rappresenta. La televisione in
particolare ha trasformato la politica in spettacolo favorendo l'insorgenza
e la diffusione di atteggiamenti apatici e qualunquistici nell'opinione
pubblica. Su questo punto colgono nel segno quei filosofi come
Emanuele Severino i quali sostengono che la politica pensa
ingenuamente di servirsi della tecnica (nella fattispecie delle tecnologie
mediatiche), cioè di utilizzarla come strumento per i propri fini, ma non
si accorge che una volta entrata nella dimensione tecnologica perde di
vista i propri fini, diventando serva dello strumento che utilizza
(Severino 1999).
La dimensione dello spettacolo si impone con l’avvento dei mezzi
di comunicazione di massa che si affermano come superamento dei limiti
di diffusione delle ottocentesche testate giornalistiche. Nati per far fronte
agli abusi del potere politico ed economico, i primi fogli informativi
crescono e si moltiplicano in breve tempo, a partire sostanzialmente dalla
prima metà dell’800. Era l’epoca delle rivoluzioni e dei moti
insurrezionali che rivendicavano più potere ai cittadini, a quelle classi
troppo a lungo – e ingiustamente – tenute lontano dalla vita politica. In
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questo contesto, l’idea di fondo era che si potesse contrastare il dominio
assolutistico dei sovrani e delle oligarchie aristocratiche denunciandone
abusi, illeciti, eccessi e vizi mediante strumenti capaci di garantire la più
ampia diffusione possibile dell’informazione (Gramsci 1991). Il secolo
dei lumi non era passato invano: la consapevolezza che la libertà era
raggiungibile solo tramite l’uso della ragione e della conoscenza era un
imperativo all’interno dei circoli intellettuali. Questi presupposti fecero
nascere, pur con sforzi notevoli, passando tra repressioni – non di rado
violente – e censure frequenti, le prime testate giornalistiche. Il desiderio
di contribuire alla nascita e poi allo sviluppo di sistemi democratici spinse
giornalisti e redattori a considerare prioritaria la denuncia di violazioni e
prevaricazioni da parte delle élite di potere. Il fortissimo potere di cui
godevano questi giornali nel coinvolgere l’opinione pubblica fu subito
notato da quelle che erano le vittime della loro azione. Dopo aver a lungo
tentato invano di imbavagliare la ‘voce dei senza voce’ con impedimenti,
che spesso superavano il limite del legale, le istituzioni politiche e le
corporazioni finanziarie hanno “saltato il fosso” sfruttando esse stesse, a
proprio beneficio, il potere dei giornali (Murialdi 1996). I gruppi
imprenditoriali hanno incominciato ad acquistare testate giornalistiche
ovvero a fondarne di nuove, imponendo una linea editoriale congeniale
ai propri interessi e, con lo stesso intento, i governi hanno costituito
appositi uffici stampa in grado di selezionare le notizie da fornire ai
media.
Inizia così il declino di quell’idea di giornalismo militante, critico,
capace di inchieste scomode che costituiva il motivo fondatore del mondo
giornalistico. La diffusione di nuove tipologie di giornali –
newsmagazine, tabloid, settimanali, mensili, etc. – e il parallelo sviluppo
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del sistema radiotelevisivo contribuirono ad accelerare questo processo.
La prospettiva nel campo dei media prese a mutare: al bisogno di
informazione – che ne provocò la nascita – s’aggiunse quello di
disinformazione proprio di certi gruppi di interesse; in più, si videro nella
carta stampata e nei mezzi radiotelevisivi degli strumenti utili
all’intrattenimento. Questa rivoluzione non poteva non produrre
conseguenze anche nel tessuto sociale e quindi politico in linea con
quanto nel 1962 McLuhan andava affermando (McLuhan 1991). Il
progresso tecnologico nell’ambito delle comunicazioni, pertanto, può
essere considerato come il volano per il cambiamento anche nelle
dinamiche sociali e, conseguentemente, politiche.
In questo lavoro si, dunque, cercherà di interpretare i cambiamenti
in atto nella società, nella sfera politica e nelle comunicazioni di massa
nella loro mutua relazione dialettica. Lo spettacolo è qui inteso come
comuni denominatore di un cambiamento sistematico della società.
Pertanto il lavoro si aprirà con una esaustiva disamina del concetto di
società dello spettacolo proposto da Guy Debord, pensatore francese e
fondatore del movimento d’avanguardia “Internazionale Situazionista”:
lo spettacolo inteso, dunque come qualcosa che non riguarda solo
strettamente i media, ma tutta la società capitalistica avanzata.
“In quanto indispensabile ornamento degli oggetti
attualmente prodotti, in quanto esposizione generale della
razionalità del sistema, e in quanto settore economico
avanzato che foggia direttamente una moltitudine crescente
di oggetti immagine, lo spettacolo è la principale produzione
della società attuale” (Debord 1997a, par. §15).
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Il primo capitolo, dunque, è dedicato ad una ricognizione critica
dei mutamenti avvenuti negli ultimi decenni nell’ambito della percezione
sociale della realtà, delle nuove forme di relazione che lo spettacolo ha
imposto a ciascuno. Il testo di Debord, “La società dello Spettacolo” e i
suoi “Commentari” costituiranno lo spunto per tale analisi. Molte delle
tesi di cui è composto il libro verranno riprese ed analizzate mettendole
in relazione ad uno scenario che ha continuato a cambiare negli anni
assumendo caratteristiche che lo stesso Debord aveva potuto appena
intuire. A supportare l’analisi si riprenderanno anche gli studi della
“Scuola di Francoforte” ed in particolare i contributi di Erich Fromm e
del suo testo “Essere o Avere” e di Herbert Marcuse con “L’uomo a una
dimensione”. Integreranno il lavoro i recenti contributi di Joel Candau,
Joshua Meyrowitz e Toni Negri.
Dopo l’analisi della “società dello spettacolo” diventa logica
conseguenza domandarsi come si ponga la politica di fronte a tale nuovo
scenario. Nel secondo capitolo, dunque, l’elemento centrale sarà
costituito dalla nuova forma della politica. Alla luce del lento declino e
del crollo dei sistemi ideologici e quindi dei grandi partiti e all’ascesa
irrefrenabile del potere immaginifico dello spettacolo, si cercherà di
tracciare una evoluzione storica ed un’analisi critica delle forme di
partecipazione soffermandosi in particolare sugli aspetti legati alla ricerca
del consenso. L’ipotesi che si cercherà di dimostrare è che la politica
nella realtà contemporanea si fonda non già sul senso di responsabilità e
sulla ricerca di una partecipazione diretta nell’azione politica, bensì sulla
mera richiesta di immediate risposte e soluzioni a breve termine da parte
di una classe politica cui si delega tutta la propria rappresentanza.
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Questo spostamento del centro di potere è spiegabile proprio a
partire dal fatto che il primato nella realtà contemporanea pare spetti alle
immagini: in questo contesto a prevalere è il visibile sull’intelligibile, il
vedere sul capire. Nel corso di questo capitolo si farà pertanto
riferimento all’aspetto culturale di tale spostamento dove la propaganda
si sostituisce all’azione. Le principali fonti teoriche che strutturano
questo capitolo derivano dai saggi di Giovanni Sartori, Max Weber,
Walter Lippmann.
Dopo aver analizzato il mutamento sociale e politico innescato
delle nuove forme di comunicazione, lo studio si concentrerà più
dettagliatamente sul mondo delle comunicazioni di massa. L’ipotesi che
costituisce il fondamento di questo capitolo consiste nell’idea che nella
società dello spettacolo, i media abbiano sostanzialmente smesso i panni
dei controllori delle attività delle élite diventandone, piuttosto vassalli.
Questo processo non ha una origine determinabile. Si potrebbe
sospettare con buona ragione che sia il frutto di un circolo perverso, in
cui ad una minore domanda di cultura e di conoscenza corrisponde una
minore offerta della medesima generando, a sua volta, una ancora
minore richiesta. In questo capitolo si cercherà di dare fondamento a tale
ipotesi, illustrando alcune delle cause che sembrerebbero dimostrare una
precisa volontà disinformativa volta a mantenere un diffuso stato di
asservimento alle logiche e alle esigenze dello spettacolo. In questa parte
dello studio i contributi principali vengono dai testi di Noam Chomsky,
Ignacio Ramonet, di Armand Mattelart, oltre ai già citati Sartori e Negri.
Chiude questo lavoro di tesi un capitolo dedicato ad un caso
empirico significativo che ben rappresenta cosa vuol dire portare lo
spettacolo dentro la vita politica di un paese: l’elezione di Arnold
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Schwarzenegger, attore di fama mondiale, a governatore dello Stato della
California. Questo caso ancor di più conferma il potere dello spettacolo in
quanto surrogato delle idee e delle conoscenze. In tal senso lo spettacolo
dà il meglio di sé quando evade dal circuito mediale per confondersi con
la vita vissuta: uscito dal mondo della finzione filmica, dove tutto è
possibile, Schwarzenegger è approdato alla politica con tutta la sua realtà
dimostrando che anche in politica tutto è possibile.
La prospettiva sotto la quale si è deciso di affrontare l’oggetto di
questa tesi deriva da una impostazione teorica fortemente critica. Questa
scelta muove dalla volontà di affrontare un argomento che già da lungo
tempo era oggetto di riflessioni e studi muovendo dai fondamenti del
pensiero marxista. Al di là delle questioni ideologiche, il marxismo ha
sempre mostrato – ad opinione di chi scrive – una spiccata capacità di
analisi sistemica, in grado, cioè, di cogliere di un fenomeno gli aspetti di
insieme. Questa convinzione è, quindi, alla base del criterio di selezione
delle fonti afferenti all’area del pensiero marxista. Pur nella
consapevolezza dei suoi limiti teorici, questa tesi intende riportare alla
luce uno dei concetti – e delle interpretazioni – più euristiche della realtà.
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CAPITOLO I
La società dello spettacolo
La nascita della “società dello spettacolo”
Lo stadio spettacolare dello sviluppo capitalistico comincia ad
imporsi a partire dagli anni '20 subendo, poi, un vigoroso rilancio nel
secondo dopoguerra. Nel 1967 chiamando lo spettacolo "l'affermazione di
ogni vita umana, cioè sociale, come mera apparenza" (Debord, 1997a,
par. §10), Guy Debord sembrava dell'avviso che esso avesse raggiunto
uno stadio quasi insuperabile. In realtà la spettacolarizzazione
dell’esistenza sembrava essere soggetta, piuttosto, ad una continua
accelerazione. Infatti, nel 1988 Debord stesso dovette riconoscere che il
processo di spettacolarizzazione descritto ne “La Società dello
spettacolo” del '67 era ancora imperfetto se confrontato alla situazione di
vent'anni dopo.
Cresciuto nella Parigi del surrealismo e della ricerca frenetica di
nuove forme artistiche, letterarie e filosofiche, immerso nell’impeto delle
avanguardie culturali, Guy Ernest Debord le vive con intensità per poi
ripudiarle: lui insofferente a qualunque quiete, scissionista perpetuo per
vocazione. Nel 1957 fonda l’Internazionale Situationniste dalle ceneri
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dell’Internazionale Lettriste. L’attività dei situazionisti, come quella dei
lettristi, consisteva nel tentativo di trovare una risposta alla nuova
situazione sociale creata dal capitalismo modernista. Solitario, narcisista
fino a rallegrarsi della sua maniacale invisibilità, non ha mai posseduto un
televisore o un telefono eppure può essere considerato un pioniere per
gli studi in materia di comunicazione di massa. Scritto nel 1967 “La
Società dello spettacolo” è la sua unica pubblicazione composita
2
. Un
libro, in realtà, più citato che letto – del resto la sua forma (è composto
di brevi aforismi) si presta bene a tali scopi – finito sui muri del maggio
francese (molti hanno considerato questo testo ispiratore di alcune delle
idee e dei principi di quella contestazione) insieme con i frammenti dei
suoi film e dei suoi articoli. Citazioni, tra l’altro ispirate dallo stesso
autore che, anticipando i moderni movimenti di copyleft, ha sempre
rifiutato i diritti d’autore sostenendo che le idee migliorano, piuttosto,
circolando e partecipando le une con le altre. Tutta la forza del pensiero
rivoluzionario di Guy Debord è raccolta dunque ne “ La società dello
spettacolo” e negli articoli della rivista “l’internazionale situazionista”
oltre che nei suoi enigmatici film. Mille ragioni o forse nessuna lo
indussero, nel 1991, al suicidio.
Debord con le sue intuizioni lungimiranti era troppo in anticipo
rispetto alla capacità dei più di comprenderlo; inoltre la sua biografia lo
rendeva scarsamente degno d'attenzione anche da parte di certa parte
‘illuminata’ dell’intellighenzia francese. Eccessivo nella vita come nelle
opere, ha attirato su di sé giudizi altrettanto eccessivi; la sua opera
radicale e sistemica fu, da più parti, considerata pari a quella di Marx.
2
Nel 1988, scrive i “Commentari alla società dello spettacolo”, sorta di postille alle tesi esposte nel
testo del ’67. Nel 1989 scrive una brevissima autobiografia pubblicata col titolo “Panegirico” edito in
Italia da Castelvecchi.
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Quando Marx scrisse “Il Capitale”, la rivoluzione industriale
ancora non aveva espresso tutto il suo potenziale e ancora non si era
diffusa con eguale capillarità in tutte le regioni d’Europa; le merci non
erano caratterizzate da quella capacità di circolazione rapida e tentacolare
propria di un capitalismo avanzato. Ciò nonostante aveva chiaramente
intuito gli splendori e le miserie che avrebbero atteso l’economia del
capitalismo industriale. Allo stesso modo Debord scrive “La società dello
spettacolo” quando s’era ancora agli albori dell’era televisiva, quando la
tendenza intrusiva dei media era ancora lontana dall’esprimere
pienamente il suo potenziale; la trasformazione della politica e dell’intera
vita sociale in una fantasmagoria spettacolare non aveva ancora raggiunto
le dimensioni eccessive dell’attualità. Il mondo reale, col tempo e i
progressi della tecnologia, si è trasformato in un’immagine e le immagini
a loro volta diventano realtà; la potenza pratica dell’uomo si distacca da
se stessa e si presenta come un mondo a sé stante. Anch’egli in seguito
riconoscerà che quanto analizzato ne “La società dello spettacolo” non
era ancora un qualcosa di maturo nonostante ne avesse le premesse:
“nel ’67 ho mostrato in un libro […] ciò che lo
spettacolo moderno era già nella sua essenza: il regno
autocratico dell’economia delle merci arrivato ad uno statuto
di sovranità irresponsabile, e l’insieme delle nuove tecniche
di governo che accompagnano tale regno […]. Lo spettacolo
ha continuato a consolidarsi ovunque, cioè ad estendersi alle
estremità da tutti i lati, e al tempo stesso ad accrescere la sua
densità al centro. Ha perfino appreso nuovi metodi difensivi,
come avviene normalmente ai poteri attaccati”(Debord
1997b, par. §I).
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L’immagine e lo spettacolo nella critica di Debord, riprendendo
proprio le categorie di Marx – cui è sempre necessario far riferimento nel
tentativo di comprendere Debord – sono da intendersi come un ulteriore
sviluppo della forma merce. Ne condivide la caratteristica di ridurre la
molteplicità del reale ad un'unica forma astratta ed uguale. Quella che si
può leggere ne “La Società dello spettacolo” lungi dall’essere una
profezia è piuttosto un’analisi lucidissima di un qualcosa che era sempre
esistito ma che solo da quel momento si mostrava in tutta la sua potenza:
lo spettacolo come arma di un potere in piena fase di mutazione e di
maturazione. Sostiene Guy Debord: “lo spettacolo è l’autoritratto del
potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza”
(Debord 1997a, par.24). Dopo aver falsificato l’insieme della produzione,
l’economia – la sovrastruttura che domina sulla struttura-Stato – ha ora
nello spettacolo lo strumento per manipolare la percezione collettiva e
impadronirsi della memoria e della comunicazione sociale. In questo
modo tutto può essere messo in discussione fuorché lo spettacolo stesso.
A questa mente – considerata da molti critici sovversiva – si deve,
dunque, la nuova concezione dello spettacolo che nasce, come detto, nel
tentativo di elaborare una teoria critica della vita quotidiana in grado di
fornire all'ultima avanguardia politico-culturale, la “'Internazionale
Situationniste”, una possibile interpretazione della società capitalista
avulsa da schematizzazioni ideologiche.