9
È la conoscenza la vera risorsa scarsa e strategica del nuovo millennio e questo
va di pari passo con la sempre maggior capacità delle imprese di competere sui
costi, neutralizzando in breve tempo qualunque vantaggio basato sulle risorse
non knowledge-based.
Un’impresa che innova è un’impresa che crea valore, che crea ricchezza e che
stabilisce un rapporto dialettico con i mercati in cui opera. Ecco perché è
importante saper gestire la conoscenza.
Ciò non vuole mettere in discussione l’utilità di strumenti e concetti tradizionali
quali l’analisi dei fattori critici di successo, le economie di scala, le curve dei
costi, gli indici di redditivià, ecc., né allo stesso tempo decreta l’inutilità di
consolidate strategie aziendali quali le analisi del posizionamento sui mercati;
quello che questo lavoro vuole affermare è che, semplicemente, tutti gli
strumenti sopra descritti non consentono, oggi, la creazione e il consolidamento
di un vantaggio competitivo sostenibile se contemporaneamente l’impresa non è
in grado di valorizzare e gestire strategicamente la conoscenza come principale
risorsa chiave e fattore critico di successo.
Nelle parole di Drucker
2
: “…il ruolo della conoscenza non è semplicemente
quello dell’ennesima risorsa accanto alle componenti tradizionali della
produzione, ma la sola risorsa significativa del nostro tempo.”; in queste parole
si esprime tutta la consapevolezza dell’importanza della conoscenza.
Possiamo effettivamente affermare di vivere in una società della conoscenza, in
cui i prodotti e i servizi tendono progressivamente a perdere la loro componente
fisica a favore del contenuto di conoscenza in essi cristallizzato.
Allo stesso modo, è possibile affermare che il futuro appartiene ai “lavoratori
della conoscenza”, a persone capaci di creare valore sotto forma di nuove
competenze, e il fattore decisivo sul quale si valuterà la prosperità o meno di una
azienda sarà la sua capacità di formare e addestrare tali individui.
Andando oltre, bisogna essere capaci di innovare la propria struttura e la propria
organizzazione, il proprio stile di direzione per incentivare la creazione di
conoscenza.
2
Drucker P.F.: Post Capitalistic Society (Butterworth Heinemann, Oxford 1993)
10
Cambiamenti di questo genere spesso sono puramente utopici in realtà aziendali
in cui ancora oggi si fatica a introdurre una rete intranet ma soprattutto quando il
Knowledge Management si riduce ad un marchio e la sua applicazione diviene
uno strumento per appropriarsi di una sigla in più da aggiungere alle ISO, UNI e
cosi via.
Ma restiamo convinti della necessità di questi cambiamenti, soprattutto consci
della realtà del nostro Paese, troppo spesso abituato a giacere sui successi passati
e sui tradizionali modi di competere, ignaro o spesso colpevolmente indifferente
verso l’innovazione e verso la gestione di un patrimonio conoscitivo e creativo
tra i migliori al mondo.
Entrando nel dettaglio di questo lavoro, il prossimo capitolo servirà da
introduzione storica e concettuale al problema della conoscenza: in esso verranno
brevemente descritti i rapporti con la conoscenza delle principali teorie
manageriali e organizzative. I due capitoli successivi (terzo e quarto) tratteranno
dei fondamenti della teoria della creazione e gestione della conoscenza,
rifacendosi soprattutto alla corrente di studi aziendali di stampo giapponese degli
ultimi dieci anni.
Il capitolo quinto segna il passaggio dalla parte teorica alla parte pratica di
questo lavoro ed introduce alla definizione di Knowledge Management e ai suoi
obiettivi.
I capitoli sesto e settimo analizzano rispettivamente la progettazione e
l’implementazione di un intervento di KM, nonché la realizzazione di strutture
per la gestione della conoscenza a livello inter-organizzativo.
Il capitolo ottavo analizza le caratteristiche del mercato della conoscenza e dei
suoi protagonisti.
Il capitolo successivo analizza la società Expert System che offre prodotti
innovativi per la gestione della conoscenza.
Il capitolo decimo descrive l’intervento di KM di CPL Concordia per la gestione
del know-how aziendale.
11
L’undicesimo ed ultimo capitolo riguarda la progettazione di un recipiente della
conoscenza aziendale e di un ambiente orientato alla condivisione e alla
collaborazione all’interno di Coop Italia.
12
2.CENNI STORICI
2.1 LA CONOSCENZA NELLE TEORIE MANAGERIALI E ORGANIZZATIVE
La conoscenza ha avuto fortune alterne nelle varie teorie manageriali e
organizzative che negli anni si sono succedute. Il punto che ci interessa
sottolineare, prima di passare a una breve descrizione dei principiali contributi in
merito, è che ogni teoria ha fatto propria una visione parziale della conoscenza,
ogni volta concentrandosi su aspetti specifici ma, cosa più importante, senza mai
focalizzarsi sul punto fondamentale della questione, ossia il processo di
creazione di conoscenza. Possiamo infatti affermare come la conoscenza, fino a
pochi decenni fa, sia stata sempre considerata solo dal lato della sua gestione,
secondo prospettive che privilegiavano il concetto di informazione su quello di
conoscenza vera e propria (sulla differenza tra conoscenza ed informazione ci
soffermeremo nel seguente capitolo); il che si è poi tradotto nell’elaborazione di
teorie dell’informazione. In questo senso, il contributo del Knowledge
Management non sta nell’aver scoperto la conoscenza e la sua importanza in
azienda, ma nell’essere riuscito a integrare i processi di gestione con una teoria
della creazione di conoscenza, che peraltro rappresenta il vero punto di
originalità di questo approccio.
Nella letteratura manageriale del secolo scorso è possibile rintracciare due
diverse e contrapposte linee di sviluppo, interessanti dal nostro punto di vista per
il differente approccio al problema della conoscenza (anche se, come vedremo,
in entrambi i casi i risultati sono stati parziali): da un lato abbiamo un
orientamento “scientifico”, inaugurato da Taylor, di cui possiamo trovare tracce
nel lavoro di Simon e che oggi trova come erede l’attuale interesse per
l’approccio scientifico alla strategia. Dall’altro lato abbiamo invece una
13
prospettiva “umanistica” che da Mayo porta oggi all’attuale attenzione per la
“cultura organizzativa”.
Come dicevamo, il management scientifico risale a F.W. Taylor
3
, che si adoperò
per introdurre metodi scientifici di lavoro nell’azienda, con lo scopo di
aumentare la produttività dei lavoratori e l’efficienza complessiva
dell’organizzazione. Celebre in questo senso è lo studio sul tempo e sul
movimento, diretto a trovare il metodo migliore per l’esecuzione di un lavoro.
Certamente oggi, pensando a Taylor, si rischia di cadere nel luogo comune
dell’operaio che compie un lavoro ripetitivo e alienante: ci viene in mente quella
sequenza, entrata a far parte della storia del cinema e dell’immaginario
collettivo, di “Tempi moderni” in cui Chaplin fa la parte di un dipendente che, a
forza di avvitare bulloni, comincia con l’avvitare tutto ciò che lo circonda, tra cui
la giacca di una signora di passaggio. Certamente l’applicazione delle teorie di
Taylor diedero risultati nefasti, che a volte non dissomigliano dalle scene del
film.
Ad ogni modo, quello che Taylor cercò di fare fu di formalizzare le esperienze e
le abilità tacite dei lavoratori traducendole in conoscenza oggettiva, non
riuscendo peraltro a cogliere il rapporto tra questo patrimonio conoscitivo e la
creazione di conoscenza, ponendo sotto la responsabilità della direzione il
processo di creazione di innovazione.
La diffusione del Taylorismo, che spesso come dicevamo fu concepito e
applicato come un metodo disumanizzante finalizzato ad un mero aumento
dell’efficienza del lavoro, diede origine ad una teoria contrapposta, frutto di un
gruppo di studiosi capeggiati da G.E. Mayo
4
(anni ’20-’30). La teoria delle
relazioni umane dimostrò l’impatto positivo sulla produttività di fattori sociali
quali il morale, il senso di appartenenza. La teoria manageriale delle relazioni
umane si poneva così in aperto contrasto con l’impostazioni tayloristica,
sostenendo anzi la necessità per la direzione di sviluppare attitudini alle relazioni
umane, allo scopo di aumentare i rapporti tra i livelli e la comunicazione.
3
Taylor F.W.: The Principles of Scientific Management (Harper and Brotheres 1911), (tr. it.
Direzione e organizzazione aziendale, Franco Angeli 1976)
4
Mayo E.: The Human Problems of an Industrial Civilization (Macmillan 1933)
14
Continuatore dell’approccio scientifico fu Herbert Simon (1945, 1958, 1973).
Tutto il lavoro di Simon ruota attorno ai concetti fondamentali di informazione e
decisione, secondo un approccio in puro stile scientifico. Simon applicò i suoi
studi sui processi decisionali alle organizzazioni, che egli vedeva come centri di
elaborazione dell’informazione
5
. Compito del management è quello del problem
solving, ossia di elaborare le informazioni provenienti dall’esterno e produrre
risposte e decisioni. Per capire il ruolo dellala conoscenza nell’opera di Simon,
occorre introdurre il concetto di bounded rationality
6
, fondamentale per gli
sviluppi teorici futuri, specialmente in campo economico. Il concetto di
razionalità limitata afferma che gli individui possiedono capacità cognitive
limitate, con la conseguenza di una capacità limitata di elaborare le informazioni.
In questo concetto, Simon risente degli sviluppi dell’informatica; egli infatti
riduce le problematiche conoscitive alla pura elaborazione di informazioni,
focalizzandosi quindi sulla conoscenza esplicita e trascurando totalmente la
conoscenza tacita, le abilità e il know-how. Secondo il modello elaborato, gli
esseri umani agiscono come sistemi di elaborazione di informazioni; da ciò
deriva come conseguenza che le organizzazioni, per fronteggiare ambienti
complessi, devono essere progettate allo scopo di ridurre il più possibile il carico
informativo tra i suoi membri. In questo modello la conoscenza tacita, che nel
Knowledge Management è il motore della creazione di conoscenza, cade al
rango di fattore di disturbo e in questo Simon dimostra un approccio parziale al
problema della conoscenza, sottovalutando l’importanza di fattori quali
l’ambiguità implicita nei problemi e il valore delle esperienze personali dei
membri dell’organizzazione. Un ulteriore limite della teoria della razionalità
limitata, sta nel rapporto che l’organizzazione deve avere con l’ambiente esterno:
Simon interpretò infatti in senso passivo questa relazione, sostenendo che
l’organizzazione, in quanto elaboratrice di informazioni, reagisce all’ambiente
adattando la propria struttura, senza cogliere l’aspetto proattivo dell’azione
organizzativa sull’ambiente.
5
Simon H.A.: Administrative Behaviour (Macmillan 1945), (tr. it. Il comportamento
amministrativo, Il Mulino 1976)
6
Simon H.A.: Bounded Rationality and Organizational Learning (Organiztion Science n.2 1991)
15
Mente la formulazione di Simon dell’organizzazione come sistema di
elaborazione dell’informazione veniva posta in discussione da un approccio
umanistico che identificava l’organizzazione con un processo di creazione di
senso e di decisione non razionale (cfr. il modello del “bidone della spazzatura”
7
e il lavoro di Weick
8
) il dibattito tra l’approccio umanistico e quello scientifico si
sposta, negli anni ’80, alla contrapposizione tra le teorie sul management
strategico e le teorie sulla cultura organizzativa.
Esponente di spicco del management strategico è Michael Porter che ha
sviluppato il famoso modello delle cinque forze competitive
9
. Scopo principale
del lavoro di Porter è di fornire alle imprese strumenti per competere sui mercati,
attraverso un approccio basato su due concetti fondamentali: il concetto di
vantaggio competitivo e il concetto di strategia. Il concetto di vantaggio
competitivo riassume in se tutto il rapporto del management strategico con la
conoscenza: si intende infatti vantaggio competitivo una risorsa o competenza
che l’impresa detiene in via esclusiva. In questo senso anche la conoscenza può
essere una risorsa importante per competere, ma appunto come risorsa da
sfruttare: in questo concetto non è presente nessuna attenzione all’importanza
della conoscenza tacita dei membri dell’organizzazione né tantomeno al
problema della creazione di conoscenza. La strategia consiste nei diversi modi di
difendere il proprio vantaggio competitivo o di crearlo attraverso particolari
analisi dell’attrattività del mercato e conseguenti posizionamenti al suo interno.
Anche il modello successivo della value chain
10
si focalizza sulle risorse che
l’impresa detiene per raggiungere la creazione di valore e di vantaggio
competitivo. In questo modello, le attività dell’impresa sono esaminate nei loro
legami reciproci per comprendere come l’organizzazione possa creare valore.
Anche in questo caso, come nel modello delle cinque forze, l’attenzione è rivolta
7
March J.G., Olsen J.P.: Ambiguity and Choice in Organizations (Universitestforlaget Oslo,
1976)
8
Weick K.E.: The Social Psychology of Organizing (Addison-Wesly, 1969), (tr. it.: Organizzare:
la psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI 1993)
9
Porter M.E.: Competitive Strategy (The Free Press 1980), (tr. it. La strategia competitiva.
Analisi per le decisioni, Compositori 1995)
10
Porter M.E.: Competitive Advantage (The Free Press 1985), (tr. it. Il vantaggio competitivo,
Edizioni Comunità)
16
alle risorse o alle competenze esplicite (sintetizzate nelle attività di supporto del
modello della catena del valore).
Un secondo limite alle teorie di Porter (che, lo ricordiamo, qui è preso ad
esempio illustre del filone del management strategico), sempre per quanto
riguarda la visione della conoscenza, è la scarsa importanza data ai valori
condivisi e alla vision, data l’importanza attribuita alla sola informazione
esplicita.
Terzo limite è che un approccio di questo tipo presuppone uno stile di
management top-down, lasciando al solo vertice il compito di gestire la
conoscenza, svilendo in questo modo il patrimonio di conoscenza tacita presente
alla base e ai livelli intermedi.
In sostanza, il management scientifico non considera risorse strategiche fattori
umani quali i valori, la conoscenza tacita e le esperienze.
Questa lacuna è stata compensata dagli studi sulla cultura organizzativa che,
attorno ai primi anni Ottanta, sono nati come risposta alla crisi di numerose
imprese fautrici di un approccio scientifico e quantitativo alla decisione
strategica. Autori come Peters e Waterman
11
hanno dimostrato i vantaggi di un
approccio umanistico alla direzione aziendale, basandosi sull’osservazione che
molte delle imprese “eccellenti” all’epoca, avevano da tempo promosso un
sistema di valori condivisi al loro interno ed erano state capaci di creare quella
che è stata definita “cultura di corporate”, in grado di indirizzare i modelli di
pensiero e di azione dei membri verso direzioni e valori condivisi. Citando solo
due autori, Schein ha definito la cultura come :“un insieme di presupposti
fondamentali […], dimostratisi abbastanza funzionali da essere considerati validi
e pertanto da essere trasmessi ai membri come via più corretta di percepire,
pensare, sentire in rapporto a quelle problematiche”
12
. Pfeffer a sua volta ha
definito le organizzazioni come: “sistemi di significati e credenze condivise, nei
quali un’attività cruciale del management è rappresentata dalla costruzione e dal
11
Peters T.J., Waterman R.H.: In Search of Excellence (Harper & Row, 1982), (tr. it. Alla ricerca
dell’eccellenza, Sperling & Kupfer 1993)
12
Schein E.H.: Organizational Culture and Leadership (Jossey-Bass, 1985), (tr. it.: Cultura
d’azienda e leadership. Una prospettiva dinamica, Guerini & Associati 1990)
17
mantenimento dei sistemi di credenze che assicurano costantemente l’adesione,
l’impegno e il contributo positivo dei membri”
13
.
Gli studi sulla cultura organizzativa hanno contribuito all’analisi della natura di
sistema epistemologico dell’organizzazione, sottolineando l’importanza di fattori
umani quali i valori, le credenze e in questo senso facendo luce sulla componente
tacita della conoscenza. Hanno inoltre affermato che l’organizzazione è in grado
di evolvere nel tempo grazie all’interazione sociale dei suoi membri con il
proprio ambiente.
A partire dalla metà degli anni ’80 la letteratura manageriale e organizzativa
sembra cercare una integrazione tra il filone scientifico e quello umanistico. Tre
sono le linee di pensiero che maggiormente interessano dal punto di vista della
conoscenza organizzativa e delle quali daremo una breve descrizione. Esse sono:
• Società della conoscenza
• Learning organization
• Resource-based view
Le teorie sulla società della conoscenza partono dalla constatazione della
trasformazione ineluttabile della società moderna in una sempre più evoluta
società basata sulla conoscenza, all’interno di un processo storico che ha visto la
società industriale del dopoguerra, fondata sulla produzione di beni, trasformarsi
in una società di servizi e più recentemente in una società dell’informazione.
Uno dei maggiori esponenti di questo filone di pensiero è sicuramente Peter
Drucker che già negli anni Sessanta coniò i termini di knowledge work e
knowledge worker. Secondo l’autore, quello che ci aspetta è una società della
conoscenza nella quale la risorsa economica fondamentale non sarà più il
capitale o il lavoro, ma la conoscenza e i soggetti in grado di generarla.
La sfida che le imprese devono affrontare sta dunque nell’approntare processi in
grado di gestire la conoscenza e le propria trasformazione, nella consapevolezza
13
Pfeffer J.: Management as Symbolic Action (in: Research in Organizational Behaviour vol.3,
JAI Press 1981)
18
della veloce obsolescenza del proprio patrimonio conoscitivo. Gli obiettivi di
un’impresa della società della conoscenza sono dunque:
• miglioramento continuo di ogni attività
• processo dinamico di innovazione continua
• incremento della produttività dei knowledge worker.
Per il terzo punto, nelle parole di Drucker: “la sfida numero uno con la quale
debbono confrontarsi i manager […] è l’incremento della produttività degli
operatori deputati allo sviluppo della conoscenza e dei servizi. Questa sfida […]
costituirà la vera fucina della società e determinerà la qualità della vita di ogni
nazione industrializzata”
14
.
Se da un lato Drucker sembra riconoscere l’importanza della conoscenza tacita
egli continua allo stesso tempo a credere nella possibilità di governarla con
metodi scientifici e quantitativi, senza sottolineare l’importanza della interazione
sociale e della condivisione come presupposti basilari per la creazione di
conoscenza.
14
Drucker P.F.: Post Capitalistic Society (Butterworth Heinemann, Oxford 1993)
19
2.2 RESOURCE-BASED VIEW
Negli anni ’80 la letteratura manageriale è stata dominata dall’attenzione
sull’ambiente esterno.
Di conseguenza, i maggiori sviluppi sull’analisi strategica si sono concentratati
sulla scelta di posizionamento e sulle dinamiche competitive all’interno dei vari
mercati.
Lavori come quello di Porter hanno focalizzato l’attenzione sulla analisi
dell’assetto del settore, sull’attrattività dei mercati e sulle strategie di
posizionamento, relegando l’analisi dei fattori interni all’impresa a temi di
secondo piano quali l’implementazione delle strategie e la scelta delle strutture
organizzative, dei sistemi di controllo, degli stili di direzione, il tutto visto
appunto come conseguenze delle strategie competitive adottate.
Gli anni ’90 hanno visto svilupparsi un crescente interesse sul ruolo delle risorse
e delle competenze dell’impresa come base fondamentale della manovra
strategica, dando via ad una serie di studi che, pur con approcci e conclusioni
differenti, sono confluiti in un filone chiamato Resource-Based View.
Le ragioni del nuovo approccio, in contrasto con i precedenti studi strategici,
sono chiaramente spiegate in un famoso articolo di Stalk, Evans e Shulman:
“…in una situazione di relativa staticità dell’economia, anche la strategia poteva
permettersi di essere statica.
In un mondo caratterizzato da prodotti durevoli, da bisogni di consumo stabili,
da mercati regionali e nazionali ben definiti e da concorrenti chiaramente
identificati, la competizione era una guerra di posizione. […]
La competizione si è trasformata oggi in una guerra in movimento in cui la
vittoria dipende dalla […] capacità di muoversi rapidamente dentro e fuori dai
prodotti e dai mercati. […] L’essenza della strategia di una impresa non sta nella
struttura dei suoi prodotti e dei suoi mercati, ma nella dinamica dei suoi
comportamenti”
15
.
15
Stalk G., Evans P., Shulman L.E.: Competing on Capabilities: the new rules of corporate
strategy (Harvard Business Review, marzo-aprile 1992)
20
Schematizzando il senso dell’articolo, le strategie competitive tradizionali si
sono mostrate inefficaci per tre motivi:
1) l’aumento della pressione competitiva, dovuto alla concorrenza
internazionale e alla liberalizzazione, ha mostrato che settori un tempo
caratterizzati da profitti facili oggi sono oggetto di intense battaglie di
prezzo;
2) i mutamenti della tecnologia e della domanda rendono sempre più
difficile definire i confini dei settori e dei mercati;
3) infine, le ricerche empiriche non hanno ancora dimostrato che le variabili
di settore contribuiscano a spiegare le differenze di profitto tra le imprese.
Di conseguenza la ricerca del vantaggio competitivo si è spostato sullo
sfruttamento e sviluppo delle competenze interne, perché oggi è molto più
efficace definire un’impresa secondo ciò che sa fare che non secondo i bisogni
che è chiamata a soddisfare.
Del resto, la possibilità di ottenere profitti superiori attraverso l’analisi
dell’attrattività del settore e del posizionamento spesso sono frutto di particolari
risorse e competenze dell’impresa, anche se risulta il più delle volte molto
difficile separare i profitti derivanti esclusivamente dalla attrattività del settore da
quelli derivanti dal possesso di determinate risorse. Se infatti analizziamo lo
schema delle cinque forze competitive ci rendiamo conto che alcune rendite
monopolistiche sono determinate dal possesso di risorse o competenze (le
barriere all’entrata posso derivare ad esempio dal possesso di brevetti, di marchi,
ecc).
La resource based view vede dunque l’impresa come un insieme eterogeneo di
competenze e risorse distintive.
L’analisi delle risorse si svolge su due livelli, definendo innanzitutto quali siano
le risorse e quindi studiando le metodologie per la loro combinazione per
ottenere un vantaggio competitivo.
21
Le risorse possono essere di tre tipi:
• tangibili
• intangibili
• umane
La nostra attenzione è chiaramente rivolta alla definizione delle risorse
intangibili e delle risorse umane.
Risorse intangibili
Itami definisce queste risorse ”invisibili”. Nelle sue parole: “Gli analisti hanno
definito le risorse in modo riduttivo, identificando solo quelle che possono essere
misurate. Le risorse intangibili, quali una particolare tecnologia, informazioni
rilevanti sui consumatori, la marca, la reputazione, la cultura d’impresa,
rivestono un enorme valore per la posizione competitiva dell’impresa. Di fatto, le
risorse invisibili sono sovente le sole fonti di vantaggio competitivo che possono
essere mantenute a lungo”
16
.
Risorse umane
Le risorse umane comprendono tutti quei servizi produttivi che i dipendenti e i
dirigenti manifestano all’interno dell’impresa sotto forma di competenze,
conoscenze, capacità di analisi e decisione.
Una caratteristica centrale del modello delle competenze risiede nell’attenzione
prestata alle abilità tecniche e professionali ma anche alle attitudini psicologiche
e relazionali critiche ai fini del miglioramento delle performances sul lavoro.
Secondo questo modello, un contesto organizzativo in cui le persone collaborano
fra loro è determinato da una risorsa intangibile, cioè la cultura
dell’organizzazione.
16
Itami H: Mobilizing Invisible Assets (Harvard University Press 1987), (tr. it. Le risorse
invisibili, GEA ISEDI 1987)
22
La cultura organizzativa rientra peraltro all’interno di quelle competenze, che
definiamo organizzative, senza le quali le risorse non sarebbero efficaci in
quanto tali.
Competenze organizzative
Le capacità organizzative integrano le conoscenze e le abilità dei dipendenti
combinandole con le risorse materiali, le risorse finanziarie e le tecnologie per
ottenere un vantaggio competitivo resource-based.
L’integrazione delle risorse umane rappresenta un punto critico di intervento,
perché esse esistono solo all’interno dell’individuo in forma specialistica (in
questo la Resource-Based View è molto vicina al Knowledge Management nella
sua distinzione tra conoscenza tacita ed esplicita), cioè non fruibili in modo
diretto da parte degli altri individui dell’organizzazione e dall’organizzazione nel
suo complesso. Le metodologie fondamentali per esplicitarle sono:
• regole e direttive: si tratta di cristallizzare in forme standardizzate le
risorse umane specialistiche;
• routine organizzative: la routine è lo strumento principale, nell’ottica
resource-based, per rendere organizzative le competenze individuali.
Infatti, attraverso le routine, gli individui apprendono le proprie mansioni
in modo tacito da altri individui; in questo modo, le routine diventano una
vera e propria forma di competenza dell’impresa. Il punto fondamentale è
di riuscire a esplicitare le routine organizzative per consentirne la
replicazione e quindi un loro sfruttamento efficiente: infatti fintanto che le
routine restano all’interno degli individui, l’organizzazione non è in grado
di sfruttarle al meglio, rischiando tra l’altro di perdere competenze in caso
di abbandono di dipendenti chiave.